La suora irachena che ha svegliato il Parlamento Usa sul "genocidio dei cristiani"

Suor Diana Momeka, religiosa domenicana di Mosul cui era stato rifiutato in un primo momento il visto dalle autorità Usa, è intervenuta ieri all’assemblea di Washington

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Ha tuonato come una bomba il discorso che suor Diana Momeka, religiosa domenicana irachena a Mosul, ha rivolto ieri al Parlamento statunitense riunito a Washington. Con coraggio e umiltà, testimone degli orrori vissuti nel suo paese ma anche della speranza del suo popolo, la suora – a cui le autorità Usa avevano rifiutato in un primo momento il visto, come riferito dall’agenzia Asia News – ha denunciato il “genocidio umano e culturale” che subiscono i cristiani in Iraq ormai da circa un anno. Ovvero da quel maledetto giugno 2014, in cui un gruppo sconosciuto di terroristi, in seguito autoproclamatosi Stato Islamico in Iraq e in Siria (Isis), ha invaso la piana di Ninive, trascinando “l’intera regione sull’orlo di una terribile catastrofe”. 

Catastrofe che suor Diana ha vissuto in prima persona, vedendosi passare davanti agli occhi in questi mesi scene di inaudita barbarie: uomini, donne, bambini “sradicati e cacciati a forza”, costretti a lasciare le proprie abitazioni “con nient’altro che i propri vestiti”; edifici demoliti, chiese depredate e bombardate, reperti archeologici e luoghi sacri, patrimonio dell’umanità, ridotti ad un cumulo di macerie. 

“La persecuzione che la nostra comunità si trova oggi a fronteggiare è la più brutale della nostra storia”, ha affermato la domenicana, sottolineando che “piano dello Stato islamico è di svuotare la terra dai cristiani e ripulire il terreno di ogni minima prova che testimoni la nostra esistenza nel passato”.

Un genocidio, appunto. Non meno cruento di quelli che la storia annovera tristemente e che continua a svolgersi ogni giorno, sotto gli occhi di tutti, ormai da un anno. Mancano infatti poche settimane all”anniversario’ dell’assalto dell’Isis alla città di Mosul, dopo la quale i jihadisti si sono impadroniti “di una città dopo l’altra”, mettendo la popolazione cristiana della regione “davanti a tre alternative: convertirsi all’islam; pagare un tributo (jizya) allo Stato islamico; abbandonare le città”. 

Da giugno in avanti, ha affermato la suora, “più di 120mila persone si sono ritrovate sfollate e senza casa nella regione del Kurdistan irakeno, lasciandosi alle proprie spalle il loro patrimonio e tutto ciò per cui avevano lavorato nel corso dei secoli. Questo sradicamento, la depredazione di ogni bene appartenuto sino ad allora ai cristiani, li ha resi profughi nel corpo e nell’anima, strappando via la loro umanità e la loro dignità”. 

“Non solo siamo stati derubati delle nostre case, proprietà e terre, ma è stato distrutto anche il nostro patrimonio”, ha proseguito, ricordando ‘crimini’ come la distruzione di preziose aree archeologiche, anche di carattere sacro, come Mar Behnam e Sara, un monastero del IV secolo, o l’antichissimo monastero di San Giorgio a Mosul. 

Tutto questo la domenicana lo ha definito semplicemente “una situazione grave”. Ma grave è dir poco se si pensa che, attualmente, “i soli cristiani rimasti nella piana di Ninive sono quelli che sono stati trattenuti come ostaggi”.

In mezzo a questi drammi, non manca però “la speranza”, ha affermato suor Diana. “Grazie a Dio” e grazie anche alla Chiesa che “nella regione del Kurdistan si è fatta avanti e ha curato in prima persona i cristiani sfollati, facendo davvero del proprio meglio per far fronte al disastro”. “Gli edifici appartenenti alla Chiesa – ha raccontato Momeka – sono stati aperti e messi a disposizione per fornire un riparo agli sfollati; hanno fornito loro cibo e altri generi di prima necessità, per far fronte ai bisogni immediati della gente; hanno anche fornito assistenza sanitaria gratuita”.

Inoltre, “la Chiesa ha lanciato appelli cui hanno risposto molte organizzazioni umanitarie, le quali hanno fornito aiuti alle migliaia di persone in situazione di estremo bisogno. Oggi – ha detto la religiosa – siamo grati per tutto ciò che è stato fatto, con la maggior parte delle persone che hanno trovato un riparo in piccoli container prefabbricati o in alcune case”. 

Ma il lavoro da compiere è ancora tanto. La suora irachena si è rivolta pertanto alla comunità internazionale e al governo degli Stati Uniti, elencando una serie di iniziative da adottare “con la massima urgenza” affinché si possa “ripristinare, riparare e ricostruire la comunità cristiana in Iraq” . Anzitutto, ha detto, bisogna “liberare le nostre case dalla presenza del sedicente Stato islamico e favorire il nostro rientro”; poi deve essere promosso “uno sforzo comune e coordinato per ricostruire ciò che è stato distrutto – strade, acqua, forniture elettriche, ivi compresi i nostri monasteri e le nostre chiese”. Infine bisogna “incoraggiare le imprese per contribuire alla ricostruzione dell’Iraq e del dialogo interreligioso”.
 
Tutto questo, secondo suor Momeka, “può essere fatto attraverso le scuole, le accademie e progetti pedagogici ed educativi mirati”.  L’importante, ha concluso, è che tutti abbiano davvero a cuore che “la diplomazia e non il genocidio”, e “il bene comune e non le armi”, dovranno determinare “il futuro dell’Iraq e di tutti i suoi figli”.
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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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