Per i giovani di oggi servirebbe “un nuovo Don Bosco”. Qualcuno che mostri, cioè, che, al di là della educazione e della formazione, c’è una vera attenzione verso i problemi della loro vita e i tormenti della loro anima. Che renda quindi presente quella “amorevolezza” sempre predicata dal Santo. Ne è convinto mons. Enrico dal Covolo, uno che di giovani se ne intende dopo i cinque anni alla guida della ‘Università del Papa’, la Pontificia Università Lateranense. Salesiano di spicco, dopo Pasqua dal Covolo si è recato a Qom, in Iran, per un progetto di dialogo in vista del Giubileo e per regalare a studenti e docenti islamici il bagaglio di esperienze positive apprese negli anni di formazione dai salesiani. Gli stessi che inizialmente “non gli piacevano granché”, ma che poi hanno cambiato il suo modo di vedere la vita e la fede. Di seguito l’intervista.
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Parliamo di Lei, della sua storia, della sua vocazione: perché ha deciso di diventare salesiano?
La storia della mia vocazione è molto semplice: sono diventato salesiano in età abbastanza matura, entrando in noviziato a 22 anni e l’ho fatto perché ho visto i salesiani all’opera e soprattutto le meraviglie del sistema preventivo di Don Bosco. Ricordo, in particolare, che mi fece una grandissima impressione l’esperienza dei salesiani ad Arese, vicino Milano, che riuscirono a far diventare un riformatorio degradato in un Istituto di accoglienza per ragazzi di primissima qualità. Ho visto ragazzi, segnati da esperienze negative al massimo, in famiglia, nella vita, veramente “trasformati” grazie al sistema educativo di Don Bosco. Giovani che uno psicologo avrebbe bollato come irrecuperabili, io li ho visti “recuperatissimi” grazie all’esperienza dell’amore educativo che hanno fatto ad Arese. Mi sono detto allora nel cuore che lavorare per una missione del genere era bello, era utile, valeva la pena.
Quindi la sua vocazione al sacerdozio è legata al carisma salesiano o è venuta prima?
Si, la vocazione prima è salesiana. Per me le due cose non sono sganciabili, non ho mai avuto la vocazione del coadiutore – la vocazione salesiana laica -, per me era normale che si svolgesse attraverso il sacerdozio. Devo ammettere, però, che prima di venire a contatto con le esperienze che dicevo, inizialmente i salesiani non mi erano piaciuti granché… Tant’è vero che cambiai subito per tornare ai fratelli delle Scuole cristiane… L’unico anno in cui sono stato allievo dei salesiani fu il quarto ginnasio. Proprio in quell’anno il mio professore di lettere, padre Pino Pichierri – ancora vivente – diventò il mio confessore, il mio direttore spirituale per gli anni a venire. E certamente questo è stato il tramite provvidenziale che mi ha condotto alla vocazione salesiana.
Quale tratto della figura e dell’opera di Don Bosco, invece, l’ha sempre colpita o ispirata?
Soprattutto le tre parole guida del sistema preventivo, cioè: “ragione, religione e amorevolezza”. Le ho riscoperte gradualmente nella loro interrelazione e, di recente, mi è stato particolarmente utile il magistero di Benedetto XVI, il quale raccomandava a credenti e non credenti di coltivare rigorosamente una ragione che non fosse ripiegata su se stessa ma che si dilatasse nei campi immensi della fede e dell’amore. Queste tre parole – ragione, religione e amorevolezza – sono, secondo me, un progetto di vita, qualcosa di estremamente utile persino nel dialogo interreligioso.
A 200 anni dalla morte di Don Bosco, cosa dice la figura di questo grande Santo soprattutto ai giovani a cui si rivolgeva e ai quali riservava così grande attenzione?
Anzitutto io dico sempre che ci vorrebbe “un nuovo Don Bosco” perché la situazione dei giovani di oggi è tale che richiede persone fornite di un carisma come quello del Santo. Ecco bisognerebbe pregare davvero che ritornasse un Don Bosco, certamente non con le caratteristiche di 200 anni fa, perché sarebbe anacronistico. I tempi sono infatti molto cambiati, le sfide sono differenti, i giovani di oggi sono molto diversi… Tuttavia c’è un elemento che secondo me rimane perenne nella sua validità educativa ed è la famosa amorevolezza, ‘punta di diamante’ del sistema preventivo. Ovvero quella idea di Don Bosco che se non c’è il cuore al centro del processo educativo non si combina niente. Per questo dico sempre che l’educatore deve essere sempre uomo o donna di speranza: non si può educare in modo tecnicistico, senza farsi carico fino in fondo delle attese, dei problemi dei ragazzi. Ritengo, inoltre, ancora perfettamente valido l’ideale che San Giovanni Bosco proponeva ai suoi ragazzi, cioè l’ideale dell’onesto cittadino e del buon cristiano, che significa in fondo un progetto educativo a 360°.
Ha avuto conferma di tutto questo nei cinque anni di esperienza come Rettore della Pontificia Università Lateranense?
Si, me ne sono assolutamente persuaso. Soprattutto ho avuto conferma che oggi non si può pensare ad una formazione puramente intellettualistica. Occorre avviare processi che rendano l’educazione molto più globale nella sua intenzionalità. Per esempio, ho capito sempre di più quanto sia importante far fare esperienze buone ai giovani. La lezione cattedrattica è importante e rimane importante, ma io raccomando sempre ai professori di non fare troppo affidamento sulla preparazione remota, che trovo insufficiente. Oggi ci vuole il tutoraggio, l’accompagnamento personale, a tu per tu, con i giovani. Bisogna saper “perdere tempo” per loro e con loro, che in realtà è tutto tempo guadagnato. E questo progetto di educazione a 360° favorisce e promuove esperienze positive, perché se il giovane non tocca con mano che la vita è più bella nella misura in cui la doni, resterà chiuso in un’idea teorica che non gli cambia certo l’esistenza.
Può raccontarci delle esperienze concrete di questo?
Certo. Un progetto interessante in corso di svolgimento è quello dei “12 per Lui”, ovvero dodici studenti laici dell’Università Lateranense, prevalentemente della Facoltà di Diritto civile, che nell’arco di quest’anno presteranno uno o due mesi di servizio volontario in zone disagiate del mondo. L’obiettivo che ci proponiamo è certamente che questi ragazzi facciano un servizio, ma primariamente che tale esperienza cambi qualcosa dentro di loro per cui possano diventare efficaci testimoni della fede in Gesù, del progetto di vita cristiano, della gioia che si sperimenta più nel dare che nel ricevere. Ritornando poi in Università dovranno testimoniare la loro esperienza ai colleghi, e credo che questo sarà un grosso vantaggio educativo.
Tutto questo bagaglio di esperienze l’ha portato anche a Qom, nel suo recente viaggio dopo Pasqua?
Esattamente. Mi sono recato a Qom per realizzare un dialogo con i musulmani, che credo sia oggi fondamentale perché criticato o talvolta sottovalutato e coperto di pregiudizi negativi. Il Papa invece non perde occasione di raccomandarci questo dialogo… Certo non è facile e noi non dobbiamo essere ingenui, ad esempio la forbice che si va allargando tra sciiti e sunniti rende tale dialogo più complesso che mai. In ogni caso, noi abbiamo voluto lanciarci, a cominciare dall’Iran, che è una repubblica musulmana sciita dove il testo sacro, il Corano, non è preso alla lettera, ma sottomesso all’interpretazione. Quindi il dialogo lì è più facile perché noi cattolici o cristiani, in fin dei conti, portiamo l’esperienza di un testo sacro che lungo 2000 anni di storia abbiamo imparato a interpretare. Anche noi, se prendessimo l’Antico Testamento alla lettera, ne verrebbero fuori espressioni da guerrafondai…
Quindi esiste realmente un islam moderato con cui si può dialogare?
Io sono convinto di si. Proprio per questo ho fatto un progetto molto concr
eto: una tavola rotonda a dicembre, all’inizio del Giubileo, alla quale inviteremo qui a Roma i professori di Qom per discutere del tema della Misericordia. Poi ne faremo un’altra andando noi a Qom alla fine del Giubileo, nel novembre 2016. Nel frattempo tradurremo dal farsi un classico sulla Misericordia della grande tradizione sciita e lo pubblicheremo noi nella nostra editrice LUP (Lateran University Press). All’inizio di dicembre inviteremo infine un gruppo di 120 giovani studenti islamici di Qom e di ogni parte del mondo per un’esperienza non tanto di studio e di ricerca, quanto di convivenza, amicizia, e confronto, per una maggiore conoscenza reciproca. Spero che questa iniziativa possa dare buoni frutti.
A proposito del Giubileo, che accoglienza ha avuto lì a Qom l’Anno Santo indetto dal Papa?
Una grande accoglienza perché proprio la Bolla giubilare, al numero 23, mette al centro le tre religioni, cristianesimo, ebraismo e islam, invitando al dialogo attraverso la parola chiave della Misericordia. Questo li ha colpiti molto. Inoltre, lì c’era anche un certo clima di ottimismo perché si era appena conclusa la trattativa sul nucleare, e ciò è stato provvidenziale.
Diceva prima “iniziamo dall’Iran”. Sono in mente altri progetti quindi?
Si, quantomeno c’è il desiderio. Ancora non c’è nulla di preciso all’orizzonte, ma questo inizio di dialogo con l’Iran era ed è finalizzato ad un’apertura maggiore. Vedremo…