In guerra né vincitori né vinti, ma solo vittime di una "inutile strage"

L’Ordinario Militare italiano, mons. Santo Marcianò, interviene al convegno a Rovereto “L’Italia nella Guerra mondiale e i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo”

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“Se è vero che la guerra è un’«inutile strage» è vero che, nella guerra, tutti sono vittime. Lo sono i vinti e lo sono anche i cosiddetti vincitori […] Nella guerra non ci sono vincitori o vinti ma c’è l’uomo che va contro se stesso”. È un invito alla riflessione il discorso che l’Ordinario Militare italiano, mons. Santo Marcianò, ha rivolto ai partecipanti al convegno L’Italia nella Guerra mondiale e i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo”, svoltosi ieri a Rovereto.

Nel testo –  letto da don Gianmarco Masiero, cappellano militare a Bolzano – il presule cita le storiche parole di Benedetto XVI in riferimento al primo conflitto mondiale e spiega che una guerra è “inutile” non soltanto “per il prezzo enorme di morti e feriti” che miete da entrambe le parti, ma perché essa “è, prima di tutto e soprattutto, una sconfitta dell’umanità; potremmo meglio dire che essa è una ‘sconfitta dell’umano’”. Una umiliazione, quindi, di cui il mondo non ha bisogno.

Lo dimostrano i bilanci storici delle guerre passate, dimostrando – sottolinea Marcianò – “che la guerra non ha, in se stessa, un potere risolutivo”, ma solo “aggiunge problemi a problemi, odio a odio, vendetta a vendetta, distruzione a distruzione, povertà a povertà, fragilità a fragilità, morte a morte”.

“Noi – prosegue il vescovo – oggi guardiamo ad eventi che paiono essere molto lontani dalla sensibilità odierna, in particolare nel modo di concepire il ruolo delle forze armate nonché il senso stesso della guerra”. E tenuto conto di questo, bisogna riconoscere che dopo cento anni dal primo conflitto mondiale “è pressoché unanime la consapevolezza che quella guerra poteva essere evitata, che il giudizio circa la sua ineluttabilità non era certo una valutazione serena e obiettiva”.

D’altra parte – rimarca il presule -, “la pace costruita sul solco di quella guerra, come la storia ci ha poi rivelato, non è stata sufficiente né stabile: non sono i confini ridisegnati o le norme imposte a promuoverla, talora neppure gli accordi internazionali”. Questo perché la pace “non è solo assenza di guerra”, ma è anche alla “maturazione” di questo popolo. Pertanto, “al maturare della pace contribuisce una rivisitazione, una rilettura, una reinterpretazione dei fenomeni che hanno portato alla guerra o degli eventi che come conseguenza di essa si sono sviluppati”.

Ciò comporta anche “fare memoria”, “non dimenticare” e non far dimenticare alle generazioni future. E proprio in questo far memoria trova spazio, in Italia e in Europa, la necessità di approfondire il tema dei fucilati di guerra. Ovvero “quei soldati che, nel primo conflitto mondiale, furono uccisi perché considerati ‘disertori’”, spiega Marcianò.

Le loro storie “sono di vario genere” e diverse testimonianze le stanno riportando alla luce. “Si trattava – rileva l’Ordinario Militare – di cittadini forzatamente prelevati per essere inviati a combattere una guerra che, spesso, non capivano. Per alcuni di essi il rifiuto, la fuga, la diserzione, o talora semplicemente i ritardi nel giungere al fronte, erano dovuti forse solo alla paura o alla semplice nostalgia della famiglia, mentre per altri significavano una positiva e coraggiosa opposizione alla guerra”.

“Molti – aggiunge – furono trucidati senza pietà, senza considerazione della gravità dei gesti compiuti, con la finalità di voler ‘dare l’esempio’ a chi volesse comportarsi in maniera analoga; e, magari, furono fucilati proprio dai loro superiori, da coloro che ne avevano la responsabilità”.

Se un secolo fa queste fucilazioni volevano essere un “segno”, pure “valido nella logica della guerra”, oggi sono il riverbero di un grido, afferma Marcianò: “il grido della deresponsabilizzazione”, “il grido dello stravolgimento dell’umano”, il grido di un mondo militare che oggi si oppone ad una “logica” così violenta. 

“Credo – osserva il presule – che dobbiamo leggere il valore di ‘segno’ che quelle morti oggi ancora rivestono, assieme a tutte le vittime della guerra. Sono il segno del fallimento di ogni guerra, della sua inutilità; del fatto che, come dicevamo, tutti sono vittime della guerra. Vittime di decisioni ingiuste, vittime di un frainteso senso di giustizia, vittime di quella paura che è il comprensibile frutto della fragilità umana e del terrore che la guerra porta con sé. Vittime, infine, di una disumanità con la quale, presto o tardi, bisogna fare i conti a livello di decisioni politiche e a livello personale”.

Dunque, se la guerra è “sconfitta dell’umano”, la pace è “maturazione dell’umano”; e in questa antitesi, secondo il vescovo, si può inquadrare il tema dei fucilati e della loro “riabilitazione”. E ciò – precisa mons. Marcianò – “non va a scapito della giustizia, non è una sorta di ‘buonismo’ che scavalca la giustizia, ma va nella direzione di un pieno senso di giustizia”. Perché la giustizia “non può mai essere contraria al senso della dignità umana”, ma anzi “proprio perché umana, si proietta naturalmente in un respiro più ampio, nell’orizzonte luminoso della carità, della pietà, della fraternità, e dunque dell’amore e della pace”.

 

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ZENIT Staff

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