Nelle scorse settimane è stato pubblicato un libro della giornalista indiana, Gita Aravamudan: Baby Makers. A Story of Indian Surrogacy (Produttori di bambini. Una storia di surrogazione indiana, Harper Collins Publishers, India, 2014).
Il saggio, che riporta la triste e silenziosa piaga del fenomeno dell’utero in affitto, è il frutto di documentate ricerche di storie di donne indiane vittime di questo triste fenomeno.
Il libro tratta entrambi gli aspetti chiave della maternità in affitto: le “esigenze” della coppia richiedente, da un lato, i disagi e il dolore delle madri surrogate, dall’altro.
In India non esiste una legge che regola la maternità surrogata ma solo delle indicazioni generali, che hanno come unico elemento fondante, il principio secondo cui il nascituro deve essere legato geneticamente ad almeno ad uno dei due genitori committenti.
Questo principio ha fatto scaturire situazioni davvero paradossali, come ad esempio quella di una coppia di omossesuali, che hanno chiesto di far nascere quasi contemporaneamente due bambini da due donne diverse, perchè ciascuno dei due uomini ha voluto donare il suo seme ad una madre surrogata differente.
Il libro racconta anche di medici che hanno provocato l’aborto di uno dei tre embrioni impiantati, perchè la coppia richiedente aveva richiesto due figli.
Ci sono situazioni di coppie che decidono di usufruire della maternità surrogata ma poi si separano prima di abbracciare il bambino e si assiste a successive battaglie legali per ottenere il riconoscimento del figlio da parte della “nonna paterna”.
Vi sono anche coppie richiedenti che desiderano ricevere due maschi ed invece hanno la notizia che si tratta di due femmine. Per questa ragione non desiderano accogliere le due bambine e nemmeno hanno intenzione di pagare il compenso a tutta l’“organizzazione” dell’utero in affitto.
Donne rimaste vedove in giovanissime età, costrette a vendere i propri ovociti e successivamente ad affittare il proprio utero per mantenere i loro figli e provvedere alla salute dei loro parenti.
Un fatto evidente emerge da questa situazione: lo sfruttamento e il disinteresse assoluto per queste donne, considerate, dalla coppia richiedente e dai facoltosi mediatori, semplicemente come “macchine che producono bambini”.
La realtà è molto diversa da quella che ci vogliono dipingere. Le “mamme in affitto”, che portano il loro bambino nel loro grembo, non riescono ad essere fredde. Leggiamo di tante situazioni in cui al momento del distacco scendono lacrime vere dai loro occhi.
Tante mamme surrogate hanno la consapevolezza di essere considerate degli oggetti: le coppie richiedenti non chiedono nemmeno di guardarle in faccia. Si limitano a sborsare il compenso di denaro, mostrando un senso di superiorità e di freddezza che rendono questa pratica davvero disumana.
È la nuova frontiera dello sfruttamento dei poveri, che vengono ripagati da un compenso economico, a prezzo di essere spogliati della dignità umana, soprattutto quando sono vittime di aborti o di cure mediche che rendono fragile la loro salute psicofisica.
Il libro riporta tante storie vere e documentate, che non sono frutto di fantasie o di ipotesi catastrofistiche ma sono la risultante di una crudele realtà che per atrocità supera ogni possibile fantasia umana.
Sentendo queste storie viene da porsi delle domande: perché le istituzioni e i governi dei paesi del mondo consentono queste pratiche? Quali sono le lobby che hanno interesse a queste pratiche e quale tipo di legami hanno con i potenti del mondo? A chi fa comodo offrire la possibilità di accedere a questa pratica?
Libri-testimonianza, come quello di Gita Aravamudan, aiutano a comprendere il fenomeno della maternità surrogata, che viene ignorato quasi totalmente dai mezzi di comunicazione, quando invece, nel sommerso della vita reale, sta diventando una pratica cui si tende a fare sempre maggiore ricorso. Vi è infatti la tendenza a desiderare i figli in età sempre più avanzata e si cerca di evitare gli insuccessi, le complicazioni di salute e le ferite dell’anima provocate della fecondazione in vitro.
Intenzione del saggio è suscitare una nuova sensibilità nei mezzi di comunicazione, per denunciare tutte le storture della pratica della maternità surrogata. Il racconto di tante storie vere aiuterebbe a meglio comprendere le conseguenze dolorose della maternità in affitto, che nasce principalmente da un desiderio egoistico che viola le legge fondanti della natura umana.