Quelli per cui la vita vale una sterlina

Nel suo editoriale, l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace mette in guardia dal diffondersi di una visione utilitarista della persona umana

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«Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente è un miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo».

Delle due l’una, scriveva Albert Einstein: è evidente che prediliga la prima ipotesi il manipolo di giuristi e politici che in Inghilterra è giunto a formulare la proposta di trasformare in legge l’idea del fair innings, dell’equa aspettativa di vita, tesa ad eliminare l’accesso alle cure quando da esse, come nel caso degli anziani, non possa più derivare «un beneficio complessivo per la società».

Non c’è dubbio. Nemmeno più ipocrisia: in una società che misura ogni cosa sulla scorta della sua utilità ed ogni cosa rapportata al prodotto interno diventa pervasiva la tentazione di valutare la stessa statura antropologica dell’uomo col metro esclusivo dell’età, della forza fisica, del rendimento, della capacità produttiva e dell’autonomia, riducendo le idealità e la fede ad accessori: si sceglie ciò che aggrada, che è meno offensivo, meno specifico e impegnativo.

Insomma, come l’eco delle notizie provenienti dal Regno Unito dimostra, il dominio tirannico della logica economica si espande e prende vigore un po’ alla volta il principio che la persona umana venga valutata in termini di utilità, attraverso gli indici di salute, efficienza e autosufficienza. Quarant’anni fa Pier Paolo Pasolini, con capacità di cruda, ma realistica analisi sosteneva che la società nata dalla seconda rivoluzione industriale «non vuole più che l’uomo sia un buon cittadino, un buon soldato; non vuole che sia un uomo onesto, previdente, non lo vuole tradizionalista e nemmeno religioso. Il nuovo Potere vuole che esso sia un consumatore».

Ma se l’uomo ha un valore economico, che cosa resta di lui quando ne è privato a causa del peso degli anni, delle malattie o d’una disabilità? Probabilmente nulla. O comunque un’entità talmente irrisoria da essere espulsa dalla società. Un concetto che papa Francesco, nel messaggio inviato giovedì scorso alla Pontificia Accademia per la Vita nel ventennale della sua istituzione, ha rimarcato segnalando l’avanzata, pericolosa ed inarrestabile, «di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati, ma rifiuti, avanzi».

È lampante, allora che non si tratta più solo di difendere i diritti degli uomini e dei popoli emarginati dal benessere, né di ripensare la distribuzione dei beni per renderla meno iniqua, ma di strappare l’uomo all’abbandono, all’esclusione, alla mancanza di affetti e sogni. E la riscossa o verrà da cristiani o non verrà: solo nel Vangelo e in Dio v’è ciò di cui s’ha bisogno oggi. Non denaro né ricchezza o fortune, ma amore, solo amore, semplicemente Amore.

(Il testo è stato pubblicato anche su “La Gazzetta del Sud” di domenica 23 febbraio)

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Vincenzo Bertolone

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