Heidegger nega il concetto di verità presente nella metafisica e nel senso comune. Infatti, secondo il filosofo, “la «verità» non è assolutamente la caratteristica della proposizione conforme enunciata da un «soggetto» umano a proposito di un «oggetto» e che «vale» non si sa a quale proposito o in quale ambito, ma è lo svelamento dell’ente […]”[1].
Secondo la metafisica la verità (logica) consiste nella conformità del pensiero alla cosa: adaequatio intellectus ad rem.
Questo modo di intendere la verità è proprio anche del senso comune: anche l’uomo della strada quando formula il giudizio “oggi piove” sa, con assoluta certezza, che quel giudizio è vero solo se corrisponde all’oggetto a cui si riferisce, cioè alla pioggia, e sa anche che esso sarebbe falso se non ci fosse tale corrispondenza.
Secondo Heidegger “la verità del giudizio è radicata in una più originaria verità (non-esser-nascosto)”[2]. Infatti, secondo il filosofo, la verità è da intendersi secondo l’etimologia greca del termine come a-letheia, cioè non-nascondimento, quindi come svelatezza o ri-velazione, nel senso di toglimento di un velo che la tiene nascosta.
La verità come svelatezza o ri-velazione presuppone quindi un nascondimento originario da cui essa proviene, la verità è quindi connessa essenzialmente alla non-verità.
Il filosofo sostiene che “la rivelazione dell’ente a cui diamo il nome di verità ontica”[3] è l’esperienza che abbiamo delle cose e quindi la loro comprensione, ma tale rivelazione degli enti presuppone un nascondimento originario: la non-verità, che è l’Essere, la verità ontologica intesa come la condizione di possibilità della manifestazione degli enti e della loro conoscibilità[4].
L’Essere non è l’ente, è quindi Non-ente, Ni-ente, ma “non è mai senza l’ente”[5] perché in ogni ente l’Essere si rivela e si nasconde e tutta la metafisica da Platone a Nietsche ha concepito l’Essere sul modello dell’ente, obliando la sua differenza radicale da quest’ultimo. Infatti, secondo Heidegger anche se l’Essere “è ciò che ci è più vicino”[6], esso è “oltre ogni essente […] sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio”[7].
Il motivo dell’oblio della verità dell’Essere da parte della metafisica è da ricercarsi nel suo modo di concepire la realtà. Infatti, il modo di pensare metafisico è di carattere concettuale e i concetti sono concepiti dall’intelletto umano, cioè sono come “partoriti”. Tramite essi l’intelletto si rappresenta la realtà, dando origine al pensiero concettuale-rappresentativo (vorstellendes Denken) e, conseguentemente, “l’idea si pone come interpretazione unica e determinante dell’essere”[8].
La metafisica interpreta la realtà tramite un insieme di idee, o concetti, e la verità o la non verità, come prima evidenziato, consiste nella corrispondenza o meno delle idee con le cose, ma questo modo di pensare concettuale-rappresentativo “ha però per conseguenza – scrive il filosofo – che ora l’idea, la quale dovrebbe mostrare l’ente in quello che è, è essa stessa innalzata e reinterpretata come l’autentico essente. […] Ma lo stesso ente, ciò che chiamiamo cose, si è ritratto dall’apparire”[9].
L’ente si ritrae dall’apparire perché non si mostra per quello che veramente è, essendo concettualizzato, cioè “catturato”, dalle idee con cui viene interpretato; infatti in tedesco il termine “concetto” corrisponde a Begrif, derivante dal verbo begreifen, che significa, oltre che capire, comprendere, anche catturare.
La logica, che studia i concetti, la loro concatenazione e i rapporti con la realtà, diventa quindi, secondo Heidegger, “il fondamento visibile o nascosto della metafisica”[10].
Il pensiero concettuale-rappresentativo della metafisica avrebbe catturato l’essere, riducendolo in schemi razionali e “la ragione glorificata da secoli è – afferma il filosofo – la nemica più accanita del pensiero”[11].
[12].
Si può affermare che tutta la ricerca filosofica di Heidegger, dopo la pubblicazione di Essere e Tempo, è stata centrata sulla ricerca di un pensiero non concettuale che fosse capace di esprimere la ricchezza della verità dell’essere, senza comprimerla in schemi rigidi e, come tali occultanti.
Questa ricerca è stata possibile, come afferma il filosofo, “solo staccandoci dal pensiero rappresentativo. Questo distaccarsi corrisponde ad un salto, ad un balzo. In questo salto balziamo via, ci allontaniamo dalla rappresentazione corrente dell’uomo come animale razionale […]”[13].
Nell’ultima fase del suo percorso filosofico Heidegger questo balzo sarà effettuato tramite la scoperta del pensiero evocativo dell’arte, e in particolare della poesia, intesa come “la casa dell’essere” , cioè come il “luogo” in cui l’Essere si rivela e “parla” all’uomo.
La riflessione di Heidegger, sicuramente geniale, coglie nel segno nella critica al pensiero metafisico? o forse la sua indagine fenomenologica è viziata da un pregiudizio anti metafisico, che ha impedito di vedere il valore perenne di quel modo di pensare?
(La seconda parte sarà pubblicata sabato 1 marzo)
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NOTE
[1] M. Heidegger, Sull’essenza della verità, a cura di U. Galimberti, La Scuola, Brescia 1973, pp. 27-28. Il corsivo è mio.
[2] Idem, Dell’essenza del fondamento, Fratelli Bocca Editori, Milano 1952, p. 20.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. ibidem, pp. 15-27.
[5] Idem, Proscritto a Che cos’è la metafisica, in Che cos’è la metafisica, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 47.
[6] Idem, Su l’ “Umanesimo”, in Che cos’è la metafisica, cit., p.104.
[7] Ibidem.
[8] Idem, Introduzione alla metafisica, Presentazione di G. Vattimo, U. Mursia, Milano 1972, II ed., p. 188.
[9] Idem, L’Europa e la filosofia, Marsilio, Venezia 1999, p. 31.
[10] Ibidem.
[11] Idem, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 246.
[12] Idem, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo e Essere, Guida, Napoli 1988, p. 166.
[13] Idem, Vorträge und Aufsätze, Günter Neske, Pfullingen 1954, p. 176.