Gesù pregava in ebraico, la lingua della liturgia, ma parlava in aramaico, cioè nella lingua corrente. Fin da allora, la comunità dei credenti si è posta il problema del rappoorto tra la Tradizione e l’attualità culturale, che costituisce il riflesso della attualità sociale. Che cosa è però la Tradizione se non il deposito della Fede?
E se la Tradizione è tale, cioè la sostanza delle verità espresse da Dio una volta per tutte, ma destrinate ad essere trasmesse – tale è il significato della parola “Tradizione” il latino – che cosa deve essere perpetuato, la sostanza oppure lo strumento espressivo?
La traduzione detta dei “Settanta” della Bibbia in greco, che risale al terzo secolo dell’era volgare, e poi quella in latino di San Gerolamo, redatta nel quinto secolo, costituirono due grandi operazioni culturali, ma al contempo furono due altrettanto grandi espressioni della Fede.
Furono operazioni culturali in quanto segnarono l’inserimento di testi propri di una determinata epoca, di uno specifico contesto sociale, se vogliamo anche di una particolare identità etnica, in un’epoca diversa, in un contesto sociale mutato, in una identità etnica più ampia.
Da questo punto di vista, è interessante notare come la traduzione dei Settanta non fu opera dei Cristiani, ma degli Israeliti, i quali perpetuavano – e perpetuano ancora oggi – l’uso liturgico della lingua antica, e tuttavia – avendo adottato le lingue diasporiche – sentivano il bisogno di esprimere in esse il messaggio biblico.
La “Vulgata” di San Gerolamo rispondeva ad una esigenza diversa, consistente nel portare “ad gentes” il contenuto della verità della Fede. Le quali non per questo sono mutate, come non sono mutate quando le lingue volgari hanno sostituito il latino nella liturgia.
Certamente, la trasposizione dell’unico messaggio, dell’unico Testamento, in una infinità di espressioni ha determinato l’arricchimento di altrettante diverse culture, ma ha viceversa anche portato i vari popoli, mediante le loro rispettive intellettualità ed esperienze storiche, ad accrescere il commento e l’interpretazione dei testi sacri. Ciò testimonia ulteriormente della loro verità, ma dimostra anche di come lo Spirito Santo continui ad ispirare i credenti.
Questo duplice flusso tra verità ed interpretazione si è ora accresciuto con la traduzione della Bibbia nella lingua fon, parlata in una parte del Benin. Ad essa hanno collaborato tutte le Chiese presenti in quel Paese, in modo che il testo che verrà insegnato, ed in cui si pronunzieranno le orazioni, sarà uno solo per tutti i Cristiani.
Durante la solenne cerimonia di presentazione del testo, è stato detto autorevolmente: “Non siamo stati capaci fino ad ora di tradurre la Parola nella nostra lingua. Non l’avevamo allora ancora bene accolta, al punto di appropriarcene”.
Queste parole sono state pronunziate da un Sacerdote autoctono. Il rammarico che esse esprimono dovrebbe però essere tanto maggiore da parte dei missionari e degli ex colonizzatori europei. La persistenza nell’imporre la loro lingua straniera, oltre a costiutuire una manifestazione dell’eurocentrismo, cioè in ultima istanza una prevaricazione sulla cultura locale, ha danneggiato anche la Chiesa: non la Chiesa del Benin, né quella dell’Africa, ma la Chiesa universale, perchè l’ha privata a lungo dell’apporto recato da una particolare sensibilità, da una particolare identità.
E così questa identità, invece di essere arricchita dal Vangelo, ne è stata piuttosto coartata, perchè del Vangelo è stata imposta l’interpretazione sortita da una sensibilità diversa ed aliena rispetto a quella nazionale.
I Vescovi sono i successori degli Apostoli, i quali ricevettero dallo Spirito Santo, nella Pentecoste, il dono delle lingue: i Vescovi europei del Benin, evidentemente, non avevano saputo fare uso di questo dono. Ora ci hanno pensato i loro successori autoctono.
Un’altra annotazione su quanto detto in occasione della presentazione: “Bisogna organizzare delle vere e proprie campagne di alfabetizzazione perchè se la gente non sa leggere e scrivere, non serve a niente tradurre i testi sacri”. La missionarietà non è soltanto conversione, ma è anche opera di riscatto sociale. Opera, cioè, che ben si può definire rivoluzionaria, in quanto porta in alto ciò che stava in basso, così come ha fatto proprio Gesù Cristo con l’opera della Redenzione