Dolore e sofferenza maestri di vita

Editoriale dell’arcivescovo di Catanzaro-Squillace per la Giornata del malato, in programma martedì 11 febbraio

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«Ho imparato dalla malattia molto di ciò che la vita non sarebbe stata in grado di insegnarmi in nessun altro modo».

Ricordare le parole d’uno scrittore come Johann Wolfgang Goethe è inevitabile mentre ci si appresta a vivere, in tutto il mondo, la XXII Giornata del malato. Soprattutto è utile, perché aiuta a prendere coscienza di una verità che si tende costantemente a rimuovere: il dolore è una componente della incompiutezza delle creature. Un dato che nell’orgogliosa e tecnologica società contemporanea, non a caso da più parti definita “post-mortale”, non si vuole accettare.

In effetti, e non è un mistero, si tenta di allontanare in ogni modo il dies finis, rifiutandosi di guardare in faccia malattia e morte come elementi inscindibili dell’esistenza. La malattia, in particolare, non è mai solo questione biologica: anzitutto, rende coscienti dei propri limiti, spazzando via ogni illusione di onnipotenza; rivela il bisogno che ciascuno ha degli altri; fa ritornare un po’ bambini, riacquistando la semplicità del piccolo che ama essere coccolato. Rinascono così i sentimenti, rifioriscono i legami autentici, si riscopre la bellezza di sentirsi amati. Essa insegna la vera gerarchia dei valori, svelando l’impotenza della ricchezza che non salva dalla morte. E quando il dolore percuote una vita, si assiste non di rado anche a una nuova tensione verso il mistero e verso Dio: l’urlo quasi blasfemo che in certi momenti affiora sulle labbra è forse un estremo appello lanciato al Padre perché si chini sull’umana desolazione. Pure quando Gli si chiede perché permetta che il mondo si tramuti nel regno del tormento, personale ed intimo oppure generale e collettivo.

La risposta è nel segno che Dio offre: Cristo non è venuto per cancellare il dolore, bensì  per assumerlo su di sé e trasfigurarlo con il germe dell’infinito, preludio d’eternità per tutti. Insomma, Egli è diventato uomo ed è morto in croce per mostrare che senza la sofferenza la vita non sarebbe tale: l’ostentazione  della salute renderebbe gli uomini ancor più prepotenti, la superbia della felicità inaridirebbe i cuori, la terra diverrebbe preda di capricci e follie, l’esistenza priva di eroismi e di preghiere e la carità morirebbe di nostalgia. Per questo i cristiani, cui si deve storicamente la creazione degli ospedali, hanno sempre nutrito una speciale attenzione verso i malati: perché credono in Gesù, fratello nostro e Figlio di Dio, che è stato sofferente, ha conosciuto la morte ed è risorto.

A volte, purtroppo sempre più spesso, anch’essi lo dimenticano e, come il resto dell’umanità distratta, corrono veloci verso l’oblio che risucchia il senso del tempo e della sofferenza. Eppure, rammenta papa Francesco nel messaggio diffuso in occasione dell’evento, «quando il Figlio di Dio è salito sulla croce ha distrutto la sofferenza e ne ha illuminato l’oscurità». Ecco perché, come osservava Platone, si può perdonare un bambino che abbia paura del buio, ma non si può ignorare che «la vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce» e non sa guardare lontano, in alto e oltre.

(Il testo è stato pubblicato anche su “La Gazzetta del Sud” di domenica 9 febbraio)

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Vincenzo Bertolone

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