Divorziati risposati nella Chiesa antica? (Prima parte)

Riemersa una superata tesi storiografica secondo cui era consentito il ritorno ai sacramenti dei fedeli in tale situazione dopo un periodo penitenziale. Una “pezza d’appoggio” alle polemiche attuali

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Recentemente, nell’ambito della discussione sulla eventuale riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati, da più parti si è fatto appello alla prassi della Chiesa antica, la quale, secondo alcuni, avrebbe abitualmente consentito il ritorno ai sacramenti dei fedeli in tale situazione dopo un periodo penitenziale, secondo la modalità della penitenza pubblica. Si tratta in realtà di una tesi nient’affatto condivisa e già confutata in passato da autorevoli studiosi; come succede non di rado, però, alcune tesi storiografiche che sembravano superate riemergono periodicamente per essere utilizzate come “pezze d’appoggio” in polemiche dei giorni nostri.

È stato sottolineato da non pochi commentatori come l’argomento si poggi principalmente sul canone VIII del Concilio di Nicea, dell’anno 325, quindi un testo molto autorevole. Il canone tratta della riammissione dei cosiddetti catharoi (puri), che nella Chiesa antica sono da identificare con i “novaziani”, una setta di tendenza rigorista che si richiamava allo scisma di Novaziano, prete romano che alla metà del secolo terzo aveva rotto la comunione col vescovo romano Cornelio facendosi ordinare a sua volta vescovo, giustificandosi con motivazioni di tipo disciplinare che il nostro canone indirettamente richiama. Novaziano rifiutava la riammissione alla comunione della Chiesa degli apostati e degli adulteri, anche dopo la penitenza pubblica. Dunque, il canone niceno dispone che il “puro” per essere riammesso deve «promettere per iscritto di accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica e apostolica, cioè di rimanere in comunione sia con chi si è sposato due volte (digamos in greco), sia con chi è venuto meno durante la persecuzione, ma osserva il tempo e le circostanze della penitenza».

Secondo l’interpretazione che stiamo discutendo, la Chiesa antica avrebbe riammesso ai sacramenti i divorziati risposati dopo un tempo di penitenza, una scelta rifiutata dai novazioni rigoristi, ma prassi abituale per tutta la Chiesa di allora, tanto da essere richiamata in un canone del primo concilio ecumenico, una procedura destinata però a sopravvivere solo nella Chiesa orientale. In occidente avrebbero prevalso proprio le tendenze rigoriste condannate dal canone.

La prima osservazione da fare è di carattere generale: la coscienza che la Chiesa antica aveva delle nozze era allora in piena evoluzione e la percezione del matrimonio come sacramento stava maturando lentamente. Le coordinate generali della riflessione muovevano da un lato dalla chiara affermazione del Signore sull’indissolubilità del matrimonio, dall’altro dalla percezione sociale ratificata dal diritto romano, per il quale il divorzio non poneva alcun problema. La posizione di tutti i padri, sia pure con accenti diversi, è indiscutibilmente di difesa e di promozione dell’indissolubilità del matrimonio, pur trattandosi di una dottrina in fase di chiarificazione. Le prime formulazioni davvero sistematiche e inequivocabili che orienteranno verso il riconoscimento della sacramentalità del matrimonio le troviamo in Agostino, all’inizio del secolo quinto, quasi un secolo dopo Nicea. Già queste ovvie considerazioni dovrebbero bastare per rinunciare a trarre affrettatamente conclusioni per l’oggi dai testi e dalla prassi della Chiesa antica.

La seconda osservazione riguarda il senso letterale del testo in questione. Il canone propone due categorie di persone con le quali i “puri” devono accettare di vivere in comunione: chi si è sposato due volte (digamos) e chi è venuto meno durante la persecuzione, cioè ha apostatato, ma ha fatto penitenza. Consideriamo innanzitutto questo secondo caso, su cui non ci sono problemi di interpretazione: le grandi persecuzioni del terzo secolo, culminate con quella di Diocleziano dell’inizio del quarto, erano scoppiate improvvise e si erano protratte però per un tempo relativamente limitato.

Tali circostanze mettevano a dura prova i cristiani, e un numero significativo di essi, travolto dagli eventi, aveva apostatato in forma più o meno manifesta. Finita la persecuzione, molti di questi apostati chiedevano di rientrare nella Chiesa. La loro riammissione dopo la penitenza pubblica al’inizio del secolo quarto era prassi condivisa nella Chiesa, ma i gruppi rigoristi, come i novaziani, non avevano mai accettato tale prassi. Ora, ovviamente, la disciplina ecclesiastica prevedeva che gli apostati dovessero recedere dalla loro apostasia, rinnegare pubblicamente gli idoli e passare qualche anno di penitenza per consolidare la propria conversione e dimostrare alla comunità il loro reale ravvedimento.

In sostanza, per essere riammessi, i penitenti dovevano rimuovere la causa del loro allontanamento. Il caso nel nostro canone è messo in parallelo da alcuni interpreti con quello di chi si è “sposato due volte”. Se si trattasse di divorziati risposati sottoposti a penitenza (e, come tra poco vedremo, non è affatto chiaro), come si può pensare che venissero riammessi, sia pure dopo il periodo penitenziale, senza aver rimosso la causa dell’allontanamento? Cioè senza rinunciare al secondo matrimonio? La logica del testo, se letto secondo un rigido parallelismo, imporrebbe questa interpretazione.

Tuttavia tale conclusione è puramente ipotetica, infatti il testo del canone non parla affatto di un periodo di penitenza previo per i digamoi, ne parla solo a proposito degli apostati; la lettura che assimila i due casi è probabilmente tendenziosa e soprattutto forza il testo: di coloro che sono sposati due volte non si dice affatto che venissero sottoposti alla penitenza pubblica, facevano parte della Chiesa e basta. La Chiesa antica ammetteva forse il divorzio, senza battere ciglio? 

[La seconda parte verrà pubblicata domani 6 febbraio 2014]

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Antonio Grapppone

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