Senza tradizione la teologia è un albero sradicato dal suolo

Del Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana

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CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 29 agosto 2009 (ZENIT.org).- In preparazione alla visita di Benedetto XVI alla culla di san Bonaventura, Bagnoregio, del 6 settembre prossimo, pubblichiamo l’intervento pronunciato da Paolo Vian, Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, in occasione della presentazione del libro di Joseph Ratzinger, “San Bonaventura. La teologia della storia” (Edizioni Porziuncola, Assisi 2008), svoltasi il 26 febbraio 2008 alla Pontificia Università  Antonianum.

 

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“Per la piena e oggettiva comprensione della storia spirituale d’Italia nel secolo decimoterzo, mai e poi mai avremmo dovuto dissociare le due grandi figure che Dante, e con lui la migliore tradizione religiosa del suo tempo, hanno visto indissolubilmente avvinte l’una all’altra:  la figura di Gioacchino e quella di Francesco. La catena appenninica non è soltanto fisicamente la spina dorsale della penisola:  dalla Sila al Subasio è corsa, nella maturità del medioevo italiano, una stupenda continuità spirituale. Avervi inciso una frattura è stato gesto di improvvida iconoclastia”. Può sembrare sorprendente, ma Joseph Ratzinger non avrebbe probabilmente difficoltà a sottoscrivere quest’affermazione che nel 1931 Ernesto Buonaiuti poneva all’inizio della sua ricostruzione della vita e del pensiero di Gioacchino da Fiore. Proprio nell’introduzione al volume di cui stasera presentiamo la nuova edizione italiana, l’allora giovane teologo bavarese ricordava come una teologia e una filosofia della storia nascano soprattutto nei periodi di crisi della storia dell’uomo, a partire dal De civitate Dei agostiniano, risposta al collasso dell’impero romano e del mondo antico. “Da allora il tentativo di dominare la storia teologicamente non fu mai più estraneo alla teologia occidentale (…)” (p. 15). Agli inizi del secolo tredicesimo questo sempre ricorrente tentativo di dominare teologicamente la storia raggiunse un nuovo punto culminante nella profezia della storia di Gioacchino da Fiore, ma essa – ecco il punto in cui le visioni del modernista italiano e del teologo tedesco coincidono – “raggiunse (…) la sua massima forza solo con la splendida conferma venutale dalla persona e dall’opera di san Francesco d’Assisi” (p. 16). I due fattori combinati – l’appello di Gioacchino e la risposta del francescanesimo – misero in discussione l’immagine medievale della storia generando un “nuovo, secondo momento culminante nel modo cristiano di pensare la storia (…) rappresentato dalle Collationes in Hexaëmeron di San Bonaventura” (p. 16). 

(…) Intento delle Collationes è quello di “contrapporre ai traviamenti spirituali del tempo l’immagine dell’autentica sapienza cristiana” (p. 27), facendo seriamente i conti con l’ora storica. Ma – Ratzinger mostra di rendersene subito conto – i sei livelli della conoscenza, allegoricamente indicati nei sei giorni della creazione e simboleggiati nelle sei età della salvezza, sono ulteriormente articolati in diversi livelli che presentano indiscutibilmente un accrescimento nel tempo della conoscenza. Riconoscendo un carattere storico alle affermazioni scritturistiche, Bonaventura si distingue dall’interpretazione dei Padri e degli scolastici improntata a un’idea di immutabilità. Con l’idea delle theoriae, sorta di rationes seminales in prospettiva temporale, “rispecchiamento nella Scrittura dei tempi futuri” (p. 28), Bonaventura fa sua l’interpretazione della Scrittura che Gioacchino aveva presentato nella Concordia. Bonaventura “afferma così quella concezione fondamentalmente storica che costituisce la novità decisiva apportata dall’abate calabrese nei confronti della mentalità dei Padri” (p. 29). La Scrittura è certamente compiuta, la Rivelazione è conclusa, ma il suo significato va ricercato in uno sviluppo continuo lungo tutta la storia e non ancora concluso (cfr p. 29). Per la nostra posizione nel tempo, noi vediamo e comprendiamo più dei Padri:  “In questo modo l’interpretazione della Scrittura diviene teologia della storia, illuminazione del passato come profezia del futuro” (p. 30). 

Sono queste le premesse che inducono Bonaventura a escludere Agostino dalla teologia della storia, puntando tutto su una corrispondenza fra la storia dell’Antico Testamento e quella del Nuovo che Agostino aveva invece risolutamente scartato (cfr p. 32). In essa Cristo non è la fine dei tempi – come nello schema agostiniano – ma il centro dei tempi, e proprio questa opzione spinge Bonaventura a credere “in una nuova salvezza che si realizza “nella storia”, entro i confini di questo tempo terreno” (p. 34); allora anche la Chiesa nella sua forma compiuta di “ecclesia contemplativa” è di là da venire e dobbiamo ancora attendere una sua trasformazione nella storia (cfr p. 35). Dunque, sorprendentemente, Ratzinger ci presenta un Bonaventura che nell’estate 1273 (…) risente in maniera vistosa e consapevole dell’influsso di Gioacchino. Ma quale Gioacchino? Ratzinger precisa subito:  Bonaventura “si distacca chiaramente e risolutamente” dalla grossolana manipolazione che di Gioacchino aveva fatto Gerardo da Borgo San Donnino, presentando gli scritti dell’abate calabrese come un Vangelo eterno destinato a soppiantare il Nuovo Testamento, transitorio e perituro (cfr p. 45). Ma il rifiuto di Gerardo operato da Bonaventura non può in alcun modo essere fatto coincidere “con il rifiuto del Gioacchino originale” (p. 46). La lettura di Ratzinger compie così contemporaneamente due operazioni:  mentre da un lato avvicina Bonaventura a Gioacchino, dall’altro separa nettamente Gioacchino dai gioachimiti. 

Ho detto che la lettura di Ratzinger, in piena e totale rottura con le precedenti analisi di Martin Grabmann e di Etienne Gilson e nella linea piuttosto di quelle di Alois Dempf e Leone Tondelli che gli hanno aperto la strada, avvicina Bonaventura a Gioacchino; ma il giovane teologo tedesco è anche pienamente consapevole delle molte differenze che intercorrono tra il francescano e il florense. La prima ha origine per l’appunto dalla particolare valutazione del tempo che li accomuna. Proprio perché il tempo e il suo decorso sono decisivi nelle visioni di Gioacchino e di Bonaventura, il francescano può superare, oltrepassare il florense in ragione di quanto è accaduto nei settant’anni che separano la morte dell’abate, nel 1202, dalla stesura delle Collationes nel 1273. La novità di Francesco d’Assisi marca in effetti una profonda differenza fra i due schemi. Per il suo discepolo, successore, biografo, Francesco non è un santo come gli altri, ma occupa una posizione assolutamente particolare e preminente nella storia della salvezza e nella sua ultima ora. Francesco è un novello Elia, un nuovo Giovanni Battista, è, soprattutto nelle Collationes, l'”angelo che sale dall’Oriente” (Apocalisse 7, 2), con il sigillo del Dio vivente, le stimmate della Verna. Con questa immagine, che percorrerà potentemente tutto il Duecento francescano, Bonaventura identifica in Francesco la figura annunciata da Gioacchino nel quarto libro della Concordia cui sarà conferita la “piena libertà di rinnovare la religione cristiana”. Alla profezia dell’abate di Fiore risponde puntualmente l’avvenimento di Francesco, al quale spetta il compito di segnare i 144.000 eletti fondando così la comunità della fine dei tempi. Ma in che misura questo novus ordo, espressione mistica dell'”ecclesia contemplativa” con la quale il sesto giorno si trasforma nella quiete sabbatica del settimo, corrisponde nella sua empirica fattualità all’ordine francescano di cui Bonaventura era ministro generale all’inizio dell’estate del 1273? 

Il quesito è fondamentale, anche per le conseguenze che ne derivano, e l’analisi dei testi condotta da Ratzinger è puntuale e attenta alle sfumature:  parte da Gioacchino, passa attraverso il commento pseudogioachimitico a Geremia, per poi soffermarsi sui passi fondamentali della collatio XXI e sui suoi paral
leli; e arriva alla conclusione che Bonaventura, ignorando lo pseudo-Gioacchino, si rifà direttamente a Gioacchino, ma attualizzandolo alla luce di Francesco e del suo movimento. Se tesi fondamentale degli Spirituali era l’identificazione dell’ordine francescano, ovvero del suo ramo spirituale, con l’ordo del tempo finale, Bonaventura respinge l’equazione e assume una posizione diversa:  Francesco ha certo inaugurato una comunità nuova di uomini contemplativi ma essa, pur essendo intrinsecamente francescana, non si identifica tout court con l’attuale ordine francescano; questo forse fu originariamente destinato a svolgere tale ruolo, ma il tralignamento dei suoi membri ha fatto sì che i Francescani – come i Domenicani – si trovino ora sulla soglia del tempo nuovo che essi preparano senza però poterlo personalmente incarnare. Solo quando questo tempo nuovo verrà, solo allora sarà il momento della piena contemplatio e di una rinnovata comprensione della Scrittura, il tempo dello Spirito Santo e quindi dell’introduzione nella piena verità di Gesù Cristo.  
Agli occhi di Bonaventura, nell’analisi di Ratzinger, Francesco anticipa dunque nella propria persona una forma di esistenza escatologica che, quale forma di vita universale, appartiene ancora al futuro. Bisogna sorprendentemente concludere che questa realistica distinzione tra Francesco e il francescanesimo “non è (…) solo una scoperta della liberale Forschung su Francesco”, che ebbe nella celebre biografia dell’allievo di Ernest Renan, Paul Sabatier, del 1893, il suo vertice più significativo, ma era già stata formulata “dal grande Generale francescano del secolo tredicesimo” (p. 81).

In questa “realistica distinzione” risiede anche la chiave di comprensione del comportamento di Bonaventura come ministro generale e del suo stesso atteggiamento di vita come francescano: Egli può rifiutare il sine glossa – che pure conosce dal testamento di lui come la vera volontà di Francesco – sia per l’esercizio della sua funzione che per la sua personale forma di vita, sapendo che per tutto ciò l’ora storica non è ancora scoccata. Fino a quando durerà il sesto giorno, i tempi non saranno ancora maturi per quella radicalità dell’esistenza cristiana che Francesco, per missione divina, aveva potuto realizzare in anticipo nella sua persona. Senza la coscienza di un’infedeltà nei riguardi del santo fondatore, Bonaventura poté e dovette, di conseguenza, creare per il suo ordine quei limiti istituzionali che sapeva non essere mai stati voluti da Francesco. È un metodo troppo facile e, in definitiva, menzognero, presentare questo come una falsificazione del vero francescanesimo. (…)Torniamo adesso, per concludere, a un passo della prefazione dell’edizione americana del volume, datata al 15 agosto 1969. In esso, come si è visto, Ratzinger sottolinea come le Collationes siano la risposta alla crisi profonda innescata nell’Ordine e nella Chiesa dall’incrocio fra la speranza gioachimita e il movimento francescano. Bonaventura avrebbe potuto rifiutare totalmente Gioacchino, come aveva fatto Tommaso d’Aquino, optando per una storia tutta agostiniana e altomedievale, per la scontata parabola di un mundus senescens che precipita ineluttabilmente verso una crisi finale. Ma così facendo avrebbe rinnegato teologicamente quella novità che Francesco aveva portato, semplicemente con la sua vita, nel mondo; Bonaventura opta dunque per una strada diversa, rischiosa ma potenzialmente fecondissima:  interpreta Gioacchino “all’interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione” (p. 12). Così facendo il ministro generale ne offrì una lettura ecclesiale, che creò un’alternativa ai gioachimiti radicali e al tempo stesso cercò di conservare l’unità dell’Ordine (cfr p. 12).

Facciamo ora un passo avanti e ricordiamo che l’autore del libro che stiamo presentando è divenuto Papa il 19 aprile 2005, quarantasei anni dopo l’uscita del volume, trentasei dopo la formulazione di quelle parole dell’introduzione all’edizione americana. Come non pensare allora che il Papa che si è rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2005 con il celebre discorso sull’eredità del concilio ecumenico Vaticano II e sulla necessità di leggerlo nella continuità della tradizione e non nell’ottica della frattura stia compiendo, per quell’eredità conciliare contesa e discussa, precisamente la stessa operazione che aveva individuato in Bonaventura nei confronti di Gioacchino? Quando Benedetto XVI parla della “giusta interpretazione del Concilio”, della sua “giusta ermeneutica”, della sua “giusta chiave di lettura e di applicazione” non sta forse auspicando per il Vaticano II la stessa lettura che aveva ritenuto di intuire in Bonaventura di fronte a Gioacchino? Interpretare il Vaticano II “all’interno della tradizione”, evitando fughe in avanti e arroccamenti insensati, è forse la cifra profonda di questo pontificato; e piace pensare che un possibile modello dell’operazione di Benedetto XVI possa essere in qualche modo ravvisato nella teologia bonaventuriana della storia come era stata ritratta nel volume del 1959 e nella sua lettura di Gioacchino.

In questo modo il professor Ratzinger e Papa Benedetto XVI riaffermano che la teologia, come la vita cristiana, deve rimanere in contatto con la propria storia, senza la quale sarebbe “un albero divelto dalle proprie radici” (p. 12), condannato a inaridirsi e seccarsi. Tutti sappiamo che l’immagine dell’albero era cara a Gioacchino, come lo era a un altro suo interprete francescano duecentesco, discepolo fedele per quanto originale di Bonaventura, Pietro di Giovanni Olivi – citato solo in una nota del volume del 1959 – che nel suo commento all’Apocalisse presenterà la storia della Chiesa come una successione di status legati fra loro da una concurrentia che li unisce senza fratture, tale anzi che uno genera l’altro. E fu Olivi, con la straordinaria parabola dell’uomo di fronte alla triplice vetta di una montagna, a esprimere nel modo più efficace la nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana della storia. Si potrebbe aggiungere che non può certo apparire casuale che il professor Ratzinger che dedicherà tutto il secondo capitolo al contenuto della speranza intramondana nella nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana sarà lo stesso che negli anni Ottanta e Novanta si confronterà come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede con le premesse e con gli esiti della teologia della liberazione e che, da Papa, dedicherà la sua seconda enciclica proprio al tema della speranza. Ma a ben vedere non è probabilmente solo il contenuto dell’operazione bonaventuriana a ispirare Benedetto XVI; lo è, in qualche modo, anche la forma; in ultima analisi, è lo stesso modello del teologo chiamato ad assumere una responsabilità nella Chiesa, il profilo che nel quinto secolo era stato del teologo Agostino divenuto vescovo di Ippona e poi, nel tredicesimo, del magister Bonaventura divenuto ministro generale dell’ordine francescano e cardinale, che forse rivive nella figura del primo vescovo di Roma del ventunesimo secolo, che fu teologo e rimane tale e attinge dalla sua riflessione teologica alimento per la predicazione e per il magistero. In questo senso la lettura di questo volume del 1959 non è solo illuminante per comprendere Bonaventura e per capire il francescanesimo; diviene preziosa per comprendere lo spirito del suo autore e forse l’anima profonda del suo pontificato.

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ZENIT Staff

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