Benedetto XVI e San Bonaventura

Il viaggio papale nella terra natale del santo è più importante di quanto sembri

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di Robert Moynihan*

ROMA, mercoledì, 26 agosto 209 (ZENIT.org).- A volte in un viaggio papale ci sono aspetti più importanti di quelli che si possono percepire a prima vista. E’ il caso dell’imminente visita di Benedetto XVI a Bagnoregio, paese natale di San Bonaventura.

Il 6 settembre il Papa visiterà Bagnoregio e Viterbo. Quest’ultima città, a circa 85 chilometri a nord di Roma, è nota per essere il luogo in cui è nato il conclave.

Fino al 1271, la riunione di Cardinali per l’elezione papale non era chiamata “conclave” (da cum e clavis, a indicare un incontro in un luogo chiuso a chiave). Dopo la morte di Papa Clemente IV nel 1268, i porporati riuniti a Viterbo non elessero nessuno per quasi tre anni. Alla fine, i funzionari cittadini li chiusero in una sala e diedero loro solo pane e acqua. Presto elessero Papa Gregorio X, che stabilì che le elezioni papali si svolgessero in conclave.

Benedetto XVI si recherà a Viterbo in elicottero dalla residenza papale di Castel Gandolfo, a sud di Roma. Sulla via del ritorno si fermerà a Bagnoregio.

Perché fermarsi in un luogo così piccolo? Perché San Bonaventura vi nacque nel 1217.

Il Papa non va nel paese natale di ogni santo importante. Non avrebbe il tempo di farlo. Perché allora vuole visitare il luogo di nascita di Bonaventura?

Per trovare la risposta dobbiamo guardare al passato del Papa, dove troveremo qualcosa di piuttosto interessante.

Bonaventura ha rappresentato una delle due maggiori fonti intellettuali per la formazione teologica di Papa Benedetto (l’altra è Sant’Agostino).

In Germania gli studiosi devono scrivere due tesi. La prima è per ricevere il dottorato (Ph.D.), la seconda, chiamata “Habilitationsschrift“, permette di accedere all’insegnamento.

A metà degli anni Cinquanta, il giovane Joseph Ratzinger scrisse la sua seconda tesi su San Bonaventura e la sua comprensione della storia.

I resoconti della stampa affermano che il Papa dovrebbe venerare il Santo Braccio di San Bonaventura, custodito nella Cattedrale di Bagnoregio (nel maggio del 1562 il corpo di san Bonaventura venne bruciato dagli Ugonotti nella piazza dei Cordeliers e le ceneri buttate nel Rodano, n.d.r.).

Benedetto XVI venererà anche la profonda saggezza della visione di Bonaventura sulla rivelazione cristiana, e facendo questo “entrerà in contatto” con una delle preoccupazioni fondamentali della propria visione teologica.

In questo senso, se possiamo capire cosa Benedetto XVI abbia imparato da Bonaventura, possiamo capire ancor più chiaramente ciò che il Papa sta cercando di fare ora, nel suo pontificato, per guidare la Chiesa in questo complicato periodo della sua storia.

Lo stesso Benedetto XVI ci ha dato un’idea del suo background intellettuale in un discorso rivolto a un gruppo di studiosi alcuni anni fa, prima di diventare Papa.

In quell’occasione disse: “La mia dissertazione dottorale fu incentrata sulla nozione di Popolo di Dio in Sant’Agostino… Agostino mantenne un dialogo con l’ideologia romana, specialmente dopo l’occupazione di Roma da parte dei Goti nel 410, e fu per questo che mi risultò assai affascinante osservare come attraverso questi diversi dialoghi e culture egli definisce l’essenza della religione cristiana. Egli vide la fede cristiana non in continuità con le religioni anteriori, ma piuttosto in continuità con la filosofia intesa come vittoria della ragione sulla superstizione”.

Potremmo quindi affermare che un passo fondamentale nella formazione teologica di Ratzinger è stato capire il cristianesimo come “in continuità con la filosofia” e come “una vittoria della ragione sulla superstizione”. Poi Ratzinger ha compiuto un secondo passo. Ha studiato Bonaventura.

“Il mio lavoro post dottorale fu incentrato su San Bonaventura, un teologo francescano del XIII secolo”, continuava nel discorso agli studiosi. “Scopersi un aspetto della teologia di San Bonaventura a quanto ne so non basato sulla letteratura precedente: la sua relazione con una nuova idea di storia concepita da Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Gioacchino intese la storia come progressione da un periodo del Padre (un tempo difficile per gli esseri umani sotto la legge), ad un secondo periodo della storia, quello del Figlio (con maggiore libertà, più franchezza, più fratellanza), ad un terzo periodo della storia, il periodo definitivo della storia, il tempo dello Spirito Santo”.

“Secondo Gioacchino questo doveva essere il tempo della riconciliazione universale, di riconciliazione tra l’Est e l’Ovest, tra cristiani ed ebrei, un tempo senza legge (in senso paolino), un tempo di vera fraternità nel mondo”.

“L’interessante idea che scopersi fu che una corrente significativa di francescani era convinta che San Francesco di Assisi e l’Ordine francescano segnarono l’inizio di questo terzo periodo della storia, e fu loro ambizione l’attualizzarlo; Bonaventura mantenne un dialogo critico con tale corrente”.

Potremmo dunque dire che Ratzinger ha preso da Bonaventura una concezione della storia umana intesa come qualcosa che si svela in modo deciso, verso un obiettivo specifico, un momento di profonda introspezione spirituale, un'”tempo dello Spirito Santo”.

Laddove la filosofia classica parlava dell’eternità del mondo, e quindi del “ritorno eterno” ciclico di tutta la realtà, Bonaventura, seguendo Gioacchino, condannava il concetto di eternità del mondo e difendeva l’idea per cui la storia era uno svolgersi di eventi che non sarebbero mai tornati, ma che sarebbero giunti a una conclusione.

La storia aveva un senso. Era collegata e orientata a un significato, il Logos, a Cristo. Ciò non vuol dire che Ratzinger – o Bonaventura – abbia compiuto interpretazioni specifiche di Gioacchino per conto suo. Significa che Ratzinger, come Bonaventura, è entrato in un “dialogo critico” con la sua concezione generale – che la storia aveva una forma e un significato -, che, come Bonaventura, prendeva piuttosto seriamente.

Ho un’opinione personale su quanto sia stato serio il modo di Ratzinger di affrontare tali questioni.

La mia ricerca dottorale ha riguardato l’influenza del pensiero di Gioacchino sui primi Francescani. Quando ho incontrato per la prima volta Joseph Ratzinger, nell’autunno del 1984, gli ho detto che stavo studiando il suo libro su San Bonaventura con interesse, e ha replicato: “Ah! Lei è l’unico a Roma ad aver letto quel mio libro”.

In seguito mi ha detto che la teologia della liberazione del sacerdote francescano brasiliano Leonardo Boff era una “forma moderna” di gioachimismo – un desiderio di vedere nella storia un nuovo ordine della società umana.

Per questo sono convinto che Ratzinger abbia preso piuttosto seriamente la sua ricerca su Bonaventura.

Ratzinger ha conseguito il post dottorato il 21 febbraio 1957, a quasi 30 anni, e non senza controversie. Il comitato accademico che doveva giudicare il suo lavoro respinse la parte “critica” della sua tesi, per cui fu costretto a tagliarla e a rivedere il tutto, presentando solo la parte “storica”, centrata sull’analisi del rapporto tra San Bonaventura e Gioacchino da Fiore.

Il professore di Ratzinger, Michael Schmaus, pensò che la sua interpretazione del concetto della rivelazione di Bonaventura mostrasse “un pericoloso modernismo che doveva portare alla soggettivizzazione del concetto di rivelazione”, come Ratzinger stesso ricorda nella sua autobiografia, “Pietre Miliari: Memorie 1927-1977” (Ratzinger pensava, e pensa ancora, che le critiche di Schmaus non fossero valide).

Cos’ha trovato Ratzinger in Bonaventura per sollevare questa controversia?

Per Ratzinger, il concetto di rivelazione di Bonaventura non significava ciò che vuol dire per noi oggi, ovvero tutti i contenuti rivelati della fede.

Secondo Ratzinger, per Bonaventura la “rivelazione” ha sempre implicato l’idea dell’azione – la rivelazione è quind
i l’atto con cui Dio si rivela, e non semplicemente il risultato di quest’atto.

Perché è così importante?

In “Pietre Miliari” Ratzinger ha scritto: “Visto che è così, il concetto di ‘rivelazione’ implica sempre un soggetto ricevente: dove non c’è nessuno a percepire la ‘rivelazione’, non è avvenuta alcuna rivelazione, perché non è stato rimosso alcun velo. Per definizione, la rivelazione richiede qualcuno che la riceva”.

Perché questo è importante?

“Queste intuizioni”, continua Ratzinger, “acquisite attraverso la mia lettura di Bonaventura, sono state poi molto importanti per me al momento della discussione conciliare sulla rivelazione, la Scrittura e la tradizione, perché se Bonaventura ha ragione, allora la rivelazione precede la Scrittura e diventa depositata nella Scrittura, e non si identifica semplicemente con questa. Ciò significa invece che la rivelazione è sempre qualcosa di più grande di ciò che è semplicemente scritto. E questo vuol dire che non ci può essere qualcosa come la pura sola scriptura, perché un elemento essenziale della Scrittura è la Chiesa come soggetto, e con questo il senso fondamentale della tradizione è già dato”.

In sostanza, ciò che Ratzinger ha tratto da Bonaventura ha modificato e completato ciò che aveva tratto da Agostino.

Se il pensiero di Agostino ha sottolineato la continuità del cristianesimo con la filosofia classica, e la “ragionevolezza” della fede cristiana sulla superstizione pagana, il pensiero di Bonaventura ha sottolineato il contrasto tra il cristianesimo e la filosofia classica, ha condannato la futilità della filosofia classica, con il suo abbraccio del concetto dell’eternità del mondo e dell'”eterno ritorno” di tutte le cose, perché mancava della verità rivelata di un “attore” divino.

Ratzinger lo ha suggerito nel suo lavoro su Bonaventura: “L”ellenizzazione’ del cristianesimo, che ha tentato di superare lo scandalo del particolare con una miscela di fede e metafisica, non ha portato a uno sviluppo in una direzione errata? Non ha creato uno stile di pensiero statico che non può rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico?”.

Anche oggi, se andiamo all’ultimo capitolo del recente libro del Papa “Gesù di Nazaret”, troviamo la terminologia metafisica che presuppone un’ontologia di “persona come relazione” che credo sia il “fil rouge” di tutta l’opera di Ratzinger, dal suo primo libro su Agostino, iniziato nel 1953, passando per la sua tesi di abilitazione su Bonaventura (1956) per arrivare a “Gesù di Nazaret” (2007).

Ratzinger afferma che la rivelazione cristiana deve sempre trascendere la ragione, anche se non la contraddice e non deve contraddirla.

Quando Benedetto XVI visiterà Bagnoregio, in un certo senso starà tornando alle fonti delle sue più profonde battaglie intellettuali, al luogo in cui ha compreso pienamente la novità della fede cristiana e come quella fede, quella verità rivelata, sia allo stesso tempo in armonia e in totale opposizione alla “ragione” che è stato il massimo bene della filosofia classica.

Ciò fa del viaggio a Bagnoregio molto più di una visita papale; è un viaggio nel passato spirituale e intellettuale di Ratzinger, e nel cuore della sua visione spirituale e intellettuale.

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*Robert Moynihan è fondatore ed editore del mensile “Inside the Vatican” e autore del libro “Let God’s Light Shine Forth: the Spiritual Vision of Pope Benedict XVI” (2005, Doubleday). Si può consultare il suo blog su www.insidethevatican.com. Il suo indirizzo è: editor@insidethevatican.com

[Traduzione dall’inglese di Roberta Sciamplicotti]

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ZENIT Staff

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