Dalla tradizione apostolica una risorsa per il futuro

Il Cardinale Kasper alla Comunione anglicana

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CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 luglio 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, è intervenuto mercoledì 30 luglio a Canterbury alla Conferenza di Lambeth, che riunisce ogni dieci anni gli Arcivescovi e i Vescovi anglicani. Presentiamo il suo discorso pubblicato da “L’Osservatore Romano”.

* * *

Ho il privilegio di trasmettere all’arcivescovo di Canterbury, il dottor Rowan Williams, a ognuno dei presenti e a tutti i partecipanti a questa importantissima Conferenza di Lambeth i saluti di Papa Benedetto XVI e di tutti i membri del Pontifico Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Tutti noi vi siamo accanto in questi giorni. Siamo con voi nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere e desideriamo esprimere profonda solidarietà per le vostre gioie, le vostre preoccupazioni e le vostre pene. 

Permettetemi di cominciare ringraziando l’arcivescovo di Canterbury e quanti coordinano i rapporti ecumenici presso il Lambeth Palace e l’Anglican Communion Office per l’invito a partecipare a questo importante incontro e per l’opportunità di offrire alcune riflessioni sulle nostre comuni preoccupazioni. È un punto di forza dell’anglicanesimo il fatto che, anche in circostanze difficili, avete chiesto le opinioni e i punti di vista degli interlocutori ecumenici, anche se non siete stati particolarmente lieti di quanto abbiamo detto. Tuttavia siate certi del fatto che ciò che sto per dire lo dirò da amico.

Quando ho visto l’argomento che avete proposto «Riflessioni cattolico-romane sulla Comunione anglicana» ho pensato che avreste potuto sceglierne uno più facile. È un titolo di ampio respiro che comprende molti aspetti della storia e della dottrina e io posso affrontarne solo alcuni. Tuttavia, mi sembra che vi sia una questione nascosta nel titolo che non è interessato tanto a cosa i cattolici pensano della Comunione anglicana quanto a cosa pensano della Comunione anglicana nelle attuali circostanze. Esistono decisamente argomenti meno scomodi. 

Il mio intervento è suddiviso nelle seguenti tre parti: una descrizione dei nostri rapporti negli ultimi anni, considerazioni di natura ecclesiologica alla luce della situazione attuale nell’anglicanesimo e una breve riflessione sulle questioni alla base delle attuali controversie e dei motivi di scontro in seno all’anglicanesimo, in particolare su quelle che hanno anche avuto conseguenze sui vostri rapporti con la Chiesa cattolica.

Infine, risponderò a una domanda piuttosto inaspettata che mi ha posto alcuni mesi fa l’arcivescovo di Canterbury. Quella domanda mi ha confuso molto, eccola: che tipo di anglicanesimo vuoi? Che domanda! Spero che conosciate la risposta giusta! E poi: quali sono le speranze della Chiesa cattolica per la Comunione anglicana nei prossimi mesi e anni? In questo caso la risposta è più facile: speriamo di non venire messi da parte e di poter continuare ad avere un dialogo serio alla ricerca della piena unità affinché il mondo creda. 

Descrizione dei rapporti negli ultimi anni

In questa prima parte permettetemi di rinfrescarvi la memoria per non dimenticare che cosa e quanto abbiamo già raggiunto negli ultimi quarant’anni. Quando il concilio Vaticano II, nel suo decreto sull’ecumenismo, prestò attenzione alle numerose «Comunioni sia nazionali sia confessionali» che «si separarono dalla Sede romana» nel XVI secolo, riconobbe che «tra quelle nelle quali continuano a sussistere in parte le tradizioni e le strutture cattoliche, occupa un posto speciale la Comunione anglicana» (Unitatis redintegratio, n. 13). Questa dichiarazione si basa su un’idea ecclesiologica secondo la quale dal punto di vista cattolico la comunione anglicana ha elementi significativi della Chiesa di Gesù Cristo. Nella loro Dichiarazione Comune del 1977 l’arcivescovo di Canterbury Donald Coggan e Papa Paolo VI identificarono alcuni di quegli elementi ecclesiali e scrissero: «Da quando la Chiesa cattolica romana e le Chiese che formano la Comunione anglicana hanno cercato di crescere nella mutua intesa e nell’amore cristiano, esse sono giunte a riconoscere, valutare e rendere grazie per una comune fede in Dio nostro Padre, nel nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito Santo, per il nostro comune battesimo in Cristo, per la nostra partecipazione alle Sacre Scritture, ai simboli Apostolico e Niceno, alla definizione calcedonense e all’insegnamento dei Padri, per la nostra comune e plurisecolare eredità cristiana con le sue viventi tradizioni di liturgia, teologia, spiritualità e missione». 

In questo testo, l’arcivescovo Coggan e Papa Paolo VI indicano il terreno comune, la fonte comune e il centro della nostra unità già esistente, ma ancora incompleta: Gesù Cristo e la missione di annunciarlo a un mondo così disperatamente bisognoso di Lui. Non parliamo di un’ideologia, di un’opinione personale condivisibile o meno. Parliamo della nostra fedeltà a Cristo, testimoniata dagli apostoli, e al suo Vangelo che ci è stato affidato. Quindi, fin dall’inizio dovremmo ricordare che cosa è in gioco mentre continuiamo a parlare della fedeltà alla tradizione e alla successione apostoliche, quando parliamo del triplice ministero, dell’ordinazione delle donne e dei comandamenti morali. Non stiamo parlando d’altro che della nostra fedeltà a Cristo stesso, che è il nostro unico e comune maestro. E cos’altro può essere il nostro dialogo se non un’espressione del nostro intento e del nostro desiderio di essere pienamente una sola cosa in Lui al fine di essere testimoni totalmente uniti del suo Vangelo?

Si è spesso detto, e vale la pena ribadirlo, che il dialogo è stato reso dinamico dal desiderio di restare fedeli alla volontà espressa da Cristo che i suoi discepoli fossero una cosa sola, proprio come egli è una cosa sola con il Padre, e che questa unità si legasse direttamente alla missione di Cristo, la missione della Chiesa, per il mondo: che siano una cosa sola perché il mondo creda. Le divisioni fra noi hanno gravemente ostacolato la nostra testimonianza e la nostra missione ed è stato per fedeltà a Cristo che ci siamo impegnati in un dialogo basato sul Vangelo e sulle antiche comuni tradizioni con l’obiettivo della piena unità visibile. Tuttavia, la piena unità non è stata e non è tuttora un fine in sé, ma è un segno e uno strumento di ricerca dell’unità con Dio e della pace nel mondo. 

Pensando a questo, quando ricordiamo gli obbiettivi raggiunti dalla Commissione Internazionale Anglicana Cattolica Romana (Arcic) nel corso di circa quattro decenni, possiamo affermare con fiducia che ha veramente recato buoni frutti. In una prima fase l’Arcic (1970-1981) affrontò i temi Dottrina sull’eucaristia (1971) e Ministero e ordinazione (1973), e, per entrambi gli argomenti, sostenne di aver raggiunto un accordo sostanziale.

La risposta ufficiale cattolica (1991), pur richiedendo uno studio ulteriore su entrambi gli argomenti, definì quei testi «significative pietre miliari» attestanti «il raggiungimento di punti di convergenza e perfino di accordo che molti avrebbero ritenuto impossibile raggiungere prima che la Commissione cominciasse a lavorare». Le autorità cattoliche ritennero che il documento Chiarificazioni su eucaristia e ministero (1993), redatto dai membri della commissione, avesse «rafforzato molto l’accordo su certi argomenti». La prima fase dell’Arcic produsse anche due dichiarazioni sul tema Autorità nella Chiesa (1976, 1981), tema al centro delle divisioni del XVI secolo. 

Sebbene i testi della seconda fase dell’Arcic (1983-2005) non siano stati presentati, per una risposta formale, nella Chiesa cattolica né nella Comunione anglicana, e non abbiano portato a una risoluzione definitiva o a un pieno consenso sulle questioni affrontate, ognuno di loro ha suggerito un crescente riavvicinamento. Il documento La salvezza e la Chiesa (1986) è per molti versi
in sintonia con la Dichiarazione Comune sulla Dottrina della Giustificazione, firmata dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione Luterana Mondiale nel 1999. Basandosi sull’idea ecclesiale di koinonìa proposta per la prima volta nell’introduzione del Rapporto finale dell’Arcic I, l’Arcic II ha presentato il suo lavoro più maturo sull’ecclesiologia in La Chiesa come Comunione (1991).

Il documento Vita in Cristo (1994) è riuscito a individuare una visione condivisa e un’eredità comune di insegnamento etico, nonostante le diverse applicazioni pastorali dei principi morali. Il dono dell’autorità (1998) ha ripreso il tema dell’autorità e ha compiuto importanti progressi sulla necessità di un ministero universale di primato nella Chiesa. Maria: grazia e speranza in Cristo (2004) ha compiuto importanti passi avanti verso una idea comune della Beata Vergine Maria. 

Come ben sapete, l’ordinazione delle donne al sacerdozio in alcune province anglicane, a cominciare dal 1974, e all’episcopato, dal 1989, ha complicato molto i rapporti fra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica. Ritornerò sul tema a tempo debito. Pensando a questo ostacolo e cercando di determinare che cosa fosse in ogni caso possibile nella promozione dei nostri rapporti, fu presa un’iniziativa importante non molto tempo dopo l’ultima Conferenza di Lambeth.

Nel maggio del 2000, il mio predecessore, il cardinale Edward Idris Cassidy, e l’arcivescovo George Carey, invitarono tredici primati anglicani e i presidenti delle Conferenze episcopali cattoliche, o i loro rappresentanti, a Mississagua, in Canada, per valutare quanto raggiunto nel dialogo dell’Arcic, e per offrire, alla luce dei risultati positivi e delle difficoltà che avevano contraddistinto i nostri rapporti, raccomandazioni per eventuali, ulteriori progressi. 

Ho partecipato a numerosi incontri ecumenici e sono lieto di affermare che quello fu uno dei migliori a cui abbia mai preso parte. Lo spirito di preghiera e di amicizia, la seria riflessione non solo sull’opera dell’Arcic, ma anche sui rapporti ecumenici in ogni particolare regione rappresentata, il desiderio profondo di riconciliazione che pervase l’incontro di Mississagua rinnovarono la speranza di un significativo progresso nei rapporti fra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica.

Uno dei risultati dell’incontro di Mississagua è stato la creazione della Commissione Anglicana Cattolica Romana per l’Unità e la Missione (Iarccum), principalmente composta da vescovi. Nello scorso fine settimana di questa Conferenza di Lambeth avete studiato la dichiarazione della Iarccum Crescere insieme in unità e missione. Sintetizzando l’opera dell’Arcic questo documento presenta la valutazione della Commissione dei risultati del nostro dialogo e individua le questioni ancora da affrontare. 

Negli ultimi quarant’anni non ci siamo solo impegnati insieme nel dialogo teologico. Si è infatti creato uno stretto rapporto di collaborazione fra anglicani e cattolici, non solo a livello internazionale, ma anche in molti contesti regionali e locali. Come hanno osservato Papa Benedetto XVI e l’arcivescovo Williams nella Dichiarazione Comune del novembre 2006: «Mentre il dialogo si sviluppava, molti cattolici e anglicani hanno trovato gli uni negli altri un amore per Cristo che ci invita a una cooperazione e a un servizio concreti. Questa comunanza nel servizio di Cristo, sperimentata da molte delle nostre comunità in tutto il mondo, aggiunge ulteriore impulso ai nostri rapporti».

Invero, non è affatto una piccola cosa quella che abbiamo raggiunto e che ci è stata concessa in anni di dialogo nell’Arcic e nella Iarccum. Siamo grati per l’opera di queste commissioni e noi cattolici non vogliamo che tali risultati vadano perduti. Di fatto desideriamo proseguire lungo questo cammino e portare a compimento quanto iniziato quarant’anni fa.

A maggior ragione, fedele a ciò che credo Cristo desideri e, aggiungerei, con la sincerità che l’amicizia permette, mi rattrista osservare i problemi in seno alla Comunione anglicana emersi e divenuti più gravi dall’ultima Conferenza di Lambeth e le ripercussioni di natura ecumenica di tali tensioni interne. Nella seconda parte di questo intervento desidero affrontare una serie di aspetti ecclesiologici derivanti dall’attuale situazione nella Comunione anglicana e sollevare alcune questioni complesse e scottanti.

Tuttavia prima desidero ripetere quanto dissi nel novembre 2006 all’arcivescovo di Canterbury, giunto a Roma per fare visita a Papa Benedetto XVI: «Le questioni e i problemi dei nostri amici sono anche questioni e problemi nostri». Quindi sollevo tali questioni non da giudice, ma da interlocutore ecumenico che è profondamente scoraggiato dai recenti sviluppi e che desidera offrirvi una riflessione onesta, dal punto di vista cattolico, su come e dove possiamo progredire nella situazione attuale.

Considerazioni ecclesiologiche

In questa seconda parte non voglio fare una dissertazione magisteriale sull’ecclesiologia. Desidero ricordarvi ancora una volta alcune intuizioni comuni degli ultimi decenni che possono, o dovrebbero, essere utili nel trovare un modo di proseguire, che si spera comune.

Le questioni ecclesiologiche sono state a lungo un motivo grave di scontro fra le nostre due comunità. Già da giovane studente analizzavo tutte le argomentazioni ecclesiologiche di John Henry Newman, che lo spinsero a diventare cattolico. Le sue principali preoccupazioni riguardavano l’apostolicità nella comunione con la sede di Pietro come custode della tradizione apostolica e dell’unità della Chiesa. Penso che i suoi interrogativi siano ancora attuali e che il dibattito non sia ancora esaurito.

Mentre Newman affrontava la Chiesa d’Inghilterra della sua epoca, oggi ci troviamo di fronte a ulteriori problemi nella Comunione anglicana, composta da quarantaquattro Chiese nazionali e regionali, ognuna dotata di auto-governo. L’indipendenza senza una sufficiente interdipendenza è divenuta ora un problema grave.

Due anni fa, la dichiarazione della Iarccum Crescere insieme nell’unità e nella missione affrontò la situazione in seno alla Comunione anglicana e le sue implicazioni di natura ecumenica come segue: «Dopo l’incontro di Mississagua le Chiese della Comunione anglicana sono entrate in una fase caratterizzata da dispute scatenate dall’ordinazione episcopale di una persona pubblicamente impegnata in un rapporto con un’altra persona del suo stesso sesso e dall’autorizzazione di riti pubblici per la benedizione di unioni omosessuali. Tali questioni hanno promosso la riflessione sulla natura del rapporto fra le Chiese della Comunione (…) Inoltre, i rapporti ecumenici sono divenuti più complicati perché le proposte in seno alla Chiesa d’Inghilterra hanno richiamato l’attenzione sulla questione dell’ordinazione delle donne all’episcopato, che è una pratica ministeriale consolidata in alcune province anglicane» (cfr. 6).

Oltre agli sviluppi relativi a questo ultimo punto, dobbiamo tener conto della decisione di un numero significativo di vescovi anglicani di non partecipare alla Conferenza di Lambeth e delle proposte interne all’anglicanesimo che stanno sfidando gli strumenti esistenti di autorità in seno alla comunione anglicana.

Nella prossima parte, affronterò alcune questioni più direttamente, ma qui voglio concentrarmi in modo specifico sulla dimensione ecclesiologica di questi problemi attuali, facendo riferimento a quanto abbiamo detto insieme sulla natura della Chiesa, e alle iniziative della Comunione anglicana per affrontare queste dispute interne.

Nel marzo 2006, l’arcivescovo di Canterbury mi ha invitato a intervenire a un incontro della Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra sulla missione dei vescovi nella Chiesa. Sebbene alla base di quell’intervento ci fosse l’eventuale ordinazione delle donne all’episcopato, il tema centrale, ossia la natura dell’ufficio episcopale quale ufficio di unità, era
importante per tutti i motivi di tensione nella Comunione anglicana che ho individuato in precedenza.

In breve, dissi che l’unità, l’unanimità e la koinonìa («comunione») sono concetti fondamentali nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva. Affermai: «Fin dall’inizio l’ufficio episcopale fu koinonialmente e collegialmente integrato nella comunione di tutti i vescovi. Non è mai stato percepito come un ufficio da intendere come individuale o da esercitare individualmente». Poi affrontai il tema della teologia dell’ufficio episcopale di un Padre della Chiesa di grande importanza per gli anglicani e per i cattolici, il vescovo martire Cipriano di Cartagine vissuto nel III secolo.

Molto nota è la sua frase episcopatus unus et indivisus. Questa frase fa parte di una pressante ammonizione di Cipriano ai suoi compagni vescovi: Quam unitatem tenere firmiter et vindicare debemus maxime episcopi, qui in ecclesia praesidimus, ut episcopatum quoque ipsum unum atque indivisum probemus. («E questa unità dobbiamo fermamente mantenere e affermare, soprattutto noi vescovi che presiediamo nella Chiesa, per dimostrare che anche l’episcopato è uno e indiviso»). Questa pressante esortazione è seguita da un’interpretazione precisa della dichiarazione episcopatus unus et indivisus. Episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur («L’episcopato è uno solo e ogni sua parte è mantenuta da ognuno per il tutto», De ecclesiae catholicae unitate, n. i, 5).

Tuttavia, Cipriano compie un passo ulteriore: non solo evidenzia l’unità del popolo di Dio con il proprio vescovo, ma aggiunge anche che nessuno dovrebbe immaginare che egli sia in comunione solo con alcuni, perché «la Chiesa cattolica non è separata o divisa», ma «unita e tenuta insieme dal collante della coesione reciproca dei vescovi» (Epistulae, 66, 8). Questa collegialità di certo non si limita al rapporto orizzontale e sincronico con collegi episcopali contemporanei. Infatti, poiché la Chiesa è una e la stessa in tutti i secoli, quella attuale deve mantenere il consenso diacronico con l’episcopato dei secoli precedenti e, soprattutto, con la testimonianza degli apostoli. Questo è il significato più profondo della successione apostolica nell’ufficio episcopale.

L’ufficio episcopale è quindi un ufficio di unità in un duplice senso. I vescovi sono segno e strumento di unità in seno alla singola Chiesa locale, proprio come lo sono fra le chiese locali contemporanee e quelle di tutti i tempi nella Chiesa universale.

Quest’idea di ufficio episcopale è stata presentata nelle dichiarazioni dell’Arcic, in particolare in Chiesa come comunione e nelle dichiarazioni dell’Arcic sull’autorità della Chiesa. Chiesa come comunione (cfr. n. 45) afferma: «per alimentare e accrescere questa comunione, Cristo, il Signore, ha fornito un ministero di supervisione, la cui pienezza è affidata all’episcopato, che ha la responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle Chiese (cfr. nn. 33 e 39; Rapporto finale, Ministero e ordinazione). Governando, insegnando e amministrando i Sacramenti, in particolare l’Eucaristia, questo ministero tiene uniti i credenti nella comunione della Chiesa locale e nella più ampia comunione di tutte le Chiese (cfr. n. 39). Questo ministero di supervisione ha dimensioni sia collegiali sia primaziali. Si fonda sulla vita della comunità ed è aperto alla partecipazione di quest’ultima alla scoperta della volontà di Dio. Viene esercitato affinché unità e comunione siano espresse, tutelate e promosse a ogni livello, locale, regionale e universale.

La stessa dichiarazione esprime l’idea, sia anglicana sia cattolica, che i vescovi svolgono il proprio ministero succedendo agli apostoli, il che serve ad «assicurare a ogni comunità che la sua fede sia di fatto la fede apostolica, ricevuta e trasmessa dai tempi apostolici» (Chiesa come comunione, n. 33).

Il documento dell’Arcic Il dono dell’autorità ha sviluppato ulteriormente questo concetto affermando: «Esistono due dimensioni di comunione nella tradizione apostolica: quella diacronica e quella sincronica. Il processo di tradizione implica ovviamente la trasmissione del Vangelo da una generazione all’altra (dimensione diacronica). Se la Chiesa deve restare unita nella verità, deve anche implicare la comunione delle Chiese in tutti i luoghi in quell’unico Vangelo (dimensione sincronica). Entrambe le dimensioni sono necessarie alla cattolicità della Chiesa» (cfr. 26).

Il testo aggiunge che ogni vescovo, in comunione con tutti gli altri vescovi, ha la responsabilità di tutelare ed esprimere la più ampia koinonìa della Chiesa, e «partecipa alla sollecitudine di tutte le Chiese» (cfr. n. 39). Il vescovo è dunque «sia una voce per la Chiesa locale sia una persona mediante la quale la Chiesa locale impara da altre chiese» (n. 38). Il documento Il dono dell’autorità (n. 37) sottolinea il ruolo svolto dal collegio episcopale nel mantenere l’unità della Chiesa: l’ interdipendenza reciproca di tutte le Chiese è organica alla realtà della Chiesa come Dio vuole che sia. Nessuna Chiesa locale che partecipi alla tradizione viva può considerarsi autosufficiente. Il ministero del vescovo è cruciale perché serve la comunione in seno alle Chiese locali e fra loro. La loro comunione reciproca è espressa dall’incorporazione di ogni vescovo in un collegio episcopale. I vescovi sono, sia personalmente sia collegialmente, al servizio della comunione.

Sebbene non ci sia tempo per parlare di più dell’ecclesiologia dell’Arcic, è sufficiente dire che nel nostro dialogo siamo riusciti a esporre un’idea incisiva del ministero episcopale nel contesto di un concetto condiviso di Chiesa come koinonìa.

È significativo che il Rapporto di Windsor del 2004, nel tentativo di offrire alla Comunione anglicana fondamenti ecclesiologici per affrontare la crisi attuale, abbia adottato un’ecclesiologia di koinonìa. L’ho trovato utile e incoraggiante e in risposta alla lettera dell’arcivescovo di Canterbury che invita a una reazione ecumenica al Rapporto di Windsor ho osservato che «nonostante questioni ecclesiologiche sostanziali ci dividano ancora e meritino la nostra attenzione, questo approccio è fondamentalmente in linea con l’ecclesiologia di comunione del concilio Vaticano ii.

Le conseguenze che il Rapporto trae da questa base ecclesiologica sono anche costruttive, in particolare l’interpretazione dell’autonomia provinciale in termini di interdipendenza, quindi «soggetta ai limiti derivanti dagli impegni di comunione» (Windsor, n. 79). A questo si collega l’impulso del Rapporto a rafforzare e l’autorità sopraprovinciale dell’arcivescovo di Canterbury (nn. 109-110) e la proposta di una Alleanza anglicana che renda «espliciti e vigorosi la lealtà e i vincoli di affetto che dominano i rapporti fra le Chiese della Comunione» (n. 118).

L’unica debolezza che ho rilevato in questa ecclesiologia è che «sebbene il Rapporto sottolinei che le province anglicane debbano essere responsabili le une verso le altre e responsabili del mantenimento della comunione, una comunione radicata nelle Scritture, si presta un’attenzione decisamente scarsa all’importanza di essere in comunione con la fede della Chiesa nel corso dei secoli». Nel nostro dialogo abbiamo affermato congiuntamente che le decisioni di una Chiesa locale o regionale non devono solo promuovere la comunione nel contesto attuale, ma anche essere in sintonia con la Chiesa del passato, e in particolare, con la Chiesa apostolica così come è attestata dalle Scritture, dai primi concili e dalla tradizione patristica. Questa dimensione diacronica di apostolicità «ha importanti ramificazioni ecumeniche poiché condividiamo una tradizione comune di un millennio e mezzo. Tale patrimonio comune, che Papa Paolo vi e l’arcivescovo Michael Ramsey hanno definito “antiche tradizioni comuni”, è degno di essere interpellato e tut
elato».

Alla luce di quest’analisi del ministero episcopale da parte dell’Arcic e dell’ecclesiologia di koinonìa contenuta nel Rapporto di Windsor, è stato particolarmente sconfortante assistere alle crescenti tensioni in seno alla Comunione anglicana. In diversi contesti, i vescovi non sono in comunione con altri vescovi; in alcuni casi le province anglicane non sono più in piena comunione le une con le altre. Sebbene il processo di Windsor prosegua e l’ecclesiologia proposta dal Rapporto di Windsor sia stata accolta in via di principio dalla maggioranza delle province anglicane, è difficile dal nostro punto di vista comprendere come questo si sia tradotto nell’auspicato rafforzamento interno della Comunione anglicana e dei suoi strumenti di unità. Ci sembra anche che l’impegno della Comunione anglicana a essere «episcopalmente guidata e sinodalmente governata» non è sempre riuscito a mantenere l’apostolicità di fede e che il governo sinodale, malinteso come una specie di processo parlamentare, abbia a volte bloccato quella guida episcopale auspicata da Cipriano e formulata nell’Arcic.

So che molti di voi sono preoccupati, alcuni anche profondamente, dalla minaccia di frammentazione in seno alla Comunione anglicana. Siamo profondamente solidali con voi perché anche noi siamo preoccupati e rattristati quando ci chiediamo: «In questo scenario, che forma potrà assumere la Comunione anglicana di domani, e chi sarà il nostro interlocutore? Dovremmo, e in che modo potremmo, impegnarci appropriatamente e onestamente in dialoghi anche con quanti condividono il punto di vista cattolico nella Comunione anglicana o in particolari province anglicane? Che cosa vi aspettate in questa situazione dalla Chiesa di Roma, che secondo quanto afferma Ignazio di Antiochia, deve presiedere sulla Chiesa con amore? In che modo l’opera dell’Arcic sull’episcopato, l’unità della Chiesa e la necessità di un esercizio di primazia a livello universale potrebbero aiutare la Comunione anglicana in questo momento?».

Invece di rispondere a questi interrogativi, permettetemi di ricordarvi quanto abbiamo affermato durante i colloqui informali nel 2003 e da allora abbiamo ripetuto in diverse occasioni: «È nostro grande desiderio che la Comunione anglicana sia unita, radicata in quella fede storica che il nostro dialogo e i nostri rapporti nel corso di quattro decenni ci hanno portato a credere sia condivisa in ampio grado». Quindi, seguiamo i dibattiti di Lambeth con grande interesse e sincera sollecitudine, accompagnandoli con la nostre fervide preghiere.

Riflessioni su questioni che la Comunione anglicana deve affrontare 

In questa parte finale, desidero affrontare brevemente due questioni al centro delle tensioni in seno alla Comunione anglicana e ai suoi rapporti con la Chiesa Cattolica: l’ordinazione delle donne e la sessualità umana. Non è necessario farlo dettagliatamente in quanto la posizione cattolica, che si considera coerente con il Nuovo Testamento e la tradizione apostolica, è ben nota. Desidero solo offrire alcune riflessioni dal punto di vista cattolico, tenendo contro dei nostri rapporti passati, presenti e futuri.

L’insegnamento della Chiesa cattolica sulla sessualità umana, in particolare, sull’omosessualità, è chiaro ed esposto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357-2359. Siamo convinti del fatto che questo insegnamento sia saldamente fondato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e quindi che qui sia in gioco la fedeltà alle Scritture e alla tradizione apostolica. Posso solo evidenziare che cosa afferma il documento Crescere insieme in unità e missione: «nei dibattiti sulla sessualità umana nella Comunione anglicana e in quelli fra quest’ultima e la Chiesa cattolica, esistono questioni ermeneutiche antropologiche e bibliche che vanno affrontate» (n. 86e). Non a caso il tema principale di oggi della Conferenza di Lambeth ha riguardato l’ermeneutica biblica. 

Desidero brevemente richiamare la vostra attenzione sulla dichiarazione dell’Arcic Vita in Cristo in cui si osserva (nn. 87-88) che gli anglicani potevano concordare con i cattolici sul fatto che l’attività omosessuale è disordinata, ma che potevamo differire relativamente al consiglio morale e pastorale che avremmo offerto a quanti lo cercavano.

Sappiamo e apprezziamo che le recenti dichiarazioni dei primati sono in sintonia con quell’insegnamento, espresso chiaramente nella risoluzione 1.10 della Conferenza di Lambeth del 1998. Alla luce delle tensioni degli scorsi anni a questo proposito, una dichiarazione chiara da parte della Comunione anglicana ci offrirebbe maggiori possibilità di offrire una testimonianza comune della sessualità umana e del matrimonio, una testimonianza dolorosamente necessaria nel mondo di oggi. 

A proposito dell’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato, la Chiesa cattolica ha chiaramente esposto il suo insegnamento fin dall’inizio del nostro dialogo, non solo internamente, ma anche nel carteggio fra Papa Paolo vi e Papa Giovanni Paolo ii con gli arcivescovi di Canterbury che si sono succeduti. Nella sua lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, Papa Giovanni Paolo ii ha fatto riferimento alla lettera di Papa Paolo vi all’arcivescovo Coggan del 23 novembre 1975 e ha affermato la posizione cattolica come segue: «L’ordinazione sacerdotale (…) è stata nella Chiesa cattolica fin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini» e «tale tradizione è stata fedelmente mantenuta anche dalle Chiese Orientali». Ha concluso: «dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Quest’enunciazione mostra con chiarezza che non si tratta solo di una posizione disciplinare, ma anche di un’espressione della nostra fedeltà a Gesù Cristo. La Chiesa cattolica è vincolata alla volontà di Gesù Cristo e non si considera libera di instaurare una nuova tradizione aliena a quella della Chiesa di tutti i tempi.

Come ho affermato rivolgendomi alla Camera dei vescovi della Chiesa d’Inghilterra nel 2006, per noi la decisione di ordinare le donne implica un allontanamento dalla posizione comune di tutte le Chiese del primo millennio, ossia non solo della Chiesa cattolica, ma anche delle Chiese orientali e ortodosse. Ci sembra che la Comunione anglicana si stia avvicinando molto alle Chiese protestanti del XVI secolo e stia assumendo una posizione che quelle Chiese assunsero solo nella seconda metà del XX secolo. 

Dal momento che attualmente ventotto province anglicane ordinano donne al sacerdozio e che, sebbene soltanto quattro province abbiano ordinato donne all’episcopato, altre tredici province hanno approvato la legislazione che permette l’episcopato femminile, la Chiesa cattolica deve ora tener conto della realtà che l’ordinazione delle donne al sacerdozio e all’episcopato non riguarda solo province isolate, ma corrisponde sempre più alla posizione della Comunione. Essa continuerà ad avere vescovi, come affermato nella Conferenza di Lambeth del 1888, ma come nel caso dei vescovi di alcune Chiese protestanti, le Chiese più antiche dell’Oriente e dell’Occidente riconosceranno in ciò molto meno di quanto ritengono sia il carattere e il ministero del vescovo nel senso inteso dalla Chiesa primitiva e rimasto costante nel corso dei secoli.

Ho già affrontato il problema ecclesiologico del non riconoscimento da parte dei vescovi dell’ordinazione episcopale altrui in seno a una stessa Chiesa. Ora devo essere chiaro a proposito della nuova situazione che si è venuta a creare nei nostri rapporti ecumenici. Sebbene il nostro dialogo abbia portato a un accordo significativo sull’idea di sacerdozio, l’ordinazione delle donne all’episcopato blocca sostanzialmente e definitivamente un possibile riconoscimento degli Ordini anglicani da parte della Chiesa cattolica. 

Auspichiamo il proseguimento di un dialo
go teologico fra la Comunione anglicana e la Chiesa cattolica, ma quest’ultimo sviluppo mina direttamente il nostro obiettivo e altera il livello di quanto perseguiamo nel dialogo. La Dichiarazione comune del 1966, firmata da Papa Paolo VI e dall’arcivescovo Michael Ramsey, esortava al dialogo che «ha per scopo l’unità per la quale Cristo così pregava» e parlava di «un ritorno alla piena comunione di fede e di vita sacramentale». Ora sembra che la piena comunione visibile quale fine del nostro dialogo abbia fatto un passo indietro, che il nostro dialogo avrà obiettivi meno definitivi e quindi che il suo carattere ne risulterà alterato. Sebbene questo dialogo possa ancora condurre a buoni risultati, non sarà sostenuto dal dinamismo che deriva dalla possibilità realistica dell’unità che Cristo esige da noi o dalla partecipazione comune alla mensa dell’unico Signore, alla quale aneliamo con tanto ardore.

Conclusione

Chiunque abbia visto le grandi e magnifiche cattedrali e chiese anglicane in tutto il mondo, abbia visitato gli antichi e famosi collegi di Oxford e di Cambridge, abbia partecipato alle meravigliose preghiere della sera, abbia sperimentato la bellezza e l’eloquenza delle preghiere anglicane, abbia letto le eleganti opere accademiche degli storici e dei teologi anglicani, sia attento ai contributi significativi e antichi degli Anglicani al movimento ecumenico, sa bene che la tradizione anglicana possiede molti tesori. Essi sono, come afferma la Lumen gentium, fra quei doni che «appartenendo propriamente alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica» (n. 8).

La nostra acuta consapevolezza della grandezza e della notevole profondità della cultura cristiana della vostra tradizione rende più grande la nostra preoccupazione per voi relativamente ai problemi e alle crisi attuali, ma ci dona anche fiducia nel fatto che, con l’aiuto di Dio, troverete una via d’uscita da queste difficoltà e che in modo nuovo saremo rafforzati nel nostro comune pellegrinaggio verso l’unità che Gesù Cristo desidera per noi e per la quale prega. Ripeto ciò che scrissi nella lettera all’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 2004: «In uno spirito di amicizia e collaborazione ecumeniche siamo pronti a sostenervi in qualsiasi modo sia appropriato e necessario».

In questa stessa ottica desidero ritornare alla domanda sconcertante dell’arcivescovo su quale anglicanesimo voglio. Mi viene in mente che nei momenti critici della storia della Chiesa d’Inghilterra e quindi della Comunione anglicana, siete riusciti a recuperare la forza della Chiesa dei Padri quando quella tradizione era a rischio.

Ne sono esempio i Caroline Divines, ma penso soprattutto al Movimento di Oxford. Forse, nella nostra epoca, è anche possibile pensare a un nuovo Movimento di Oxford, un recupero di ricchezze presenti nella vostra famiglia. Sarebbe una rinnovata recezione, un nuovo ricorso alla tradizione apostolica in una situazione inedita. Non significherebbe rinunciare alla vostra profonda attenzione per le sfide e le lotte umane, al vostro desiderio di dignità e giustizia umane, alla vostra sollecitudine affinché tutte le donne e tutti gli uomini abbiano un ruolo attivo nella Chiesa. Piuttosto, porterebbe tali istanze e le questioni che ne derivano più direttamente nell’ambito creato dal Vangelo e dall’antica tradizione comune su cui si basa il nostro dialogo.

Speriamo e preghiamo affinché, mentre cercate di procedere come discepoli fedeli di Gesù Cristo, il Padre di ogni misericordia vi conceda le abbondanti ricchezze della sua Grazia e vi guidi con la presenza costante dello Spirito Santo.

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ZENIT Staff

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