La Commissione europea ha presentato di recente un nuovo studio “Is social Europe fit for globalisation?“[1] (L’Europa sociale è pronta per la globalizzazione?), che conferma la validità del modello sociale europeo che tuttavia deve essere migliorato per far fronte alle sfide poste dalla globalizzazione. Da recenti sondaggi d’opinione Eurobarometro emerge che il 47% dei cittadini europei vede nella globalizzazione una minaccia per i posti di lavoro e per le imprese insediate nel loro paese (rispetto al 37% che vi ravvisa una buona opportunità per le imprese). Ma il nuovo studio indica che questi timori sono ampiamente infondati.
Alcune delle economie più floride nell’Europa settentrionale coniugano elevati tassi di occupazione con un grado di equità dei redditi molto più alto che in alte parti del mondo, conservando nel contempo un settore pubblico importante e efficiente. Secondo lo studio non vi è nessuna prova empirica del fatto che la globalizzazione abbia prodotto un’erosione del dispositivo sociale. La spesa per la protezione sociale in proporzione del PIL è rimasta nell’UE essenzialmente stabile negli ultimi due decenni, gravitando attorno al 27-28% sin dall’inizio degli anni ’90. Analogamente, i dati evidenziano continui progressi in direzione di obiettivi sociali che suscitano un ampio consenso quali la riduzione dei differenziali retributivi legati al genere e gli squilibri occupazionali tra donne e uomini, anche se tali differenze rimangono ancora sensibili (il differenziale retributivo tra i sessi nell’UE era ancora del 15% nel 2005). Ciò implica che non è l’entità dell’erogazione di previdenza sociale quanto piuttosto il modo in cui questa è usata a ripercuotersi sulla competitività. Lo studio riconosce inoltre la necessità di modernizzare le politiche sociali e di investire nelle risorse umane se si vuole che l’UE faccia il miglior uso delle opportunità offerte dalla globalizzazione. Affinché l’UE e i suoi Stati membri procedano in tal senso occorrerà tutta una serie di risposte politiche, in particolare:
– attrezzare l’economia a competere investendo in attività del futuro nonché apportando i necessari adattamenti per tener conto del cambiamento climatico, dell’invecchiamento demografico e delle nuove fonti di competizione;
– un adeguamento morbido che tenga conto del fatto che la globalizzazione richiederà un cambiamento socioeconomico che imporrà costi e implicherà la redistribuzione delle risorse;
– il miglioramento della governance socioeconomica in modo da agevolare questi cambiamenti, fatto questo che richiederà un’azione concertata dell’UE e degli Stati membri.
Successivamente alla redazione di tale documento, si è tenuto a Bruxelles in data 16 aprile, la conferenza “A social Europe fit for globalisation“, in cui sono sono state evidenziate altre priorità quali l’allarme per il supereuro, le strategie per far fronte alla crisi finanziaria e al caro petrolio, e le relazioni internazionali – specie il progetto di “Unione per il Mediterraneo”.
In particolare, per quanto riguarda la strategia di Lisbona, i capi di Stato e di Governo hanno confermato la necessità di:
– investire nella conoscenza e nell’innovazione;
– liberare la potenzialità delle imprese, soprattutto le piccole e medie (PMI);
– investire nelle persone e modernizzare i mercati del lavoro.
Per quanto riguarda la “flessicurezza”, il Consiglio europeo ha invitato gli Stati membri ad attuare i principi comuni concordati di flessicurezza, delineando nei loro programmi nazionali di riforma per il 2008 le modalità nazionali di attuazione di tali principi.
Inoltre, il consiglio ha sottolineato che è necessario prestare un’attenzione costante all’occupazione giovanile, e in particolare al passaggio dallo studio al mondo del lavoro nell’ambito dell’attuazione del patto europeo per la gioventù. Occorrerebbe altresì prestare attenzione all’occupazione delle persone con disabilità, aumentare l’accessibilità dei servizi di custodia dei bambini, attuare nuovi sforzi per conciliare la vita professionale con la vita privata e familiare per le donne e gli uomini.
In materia di cambiamenti climatici ed energia, il Consiglio ha sollecitato gli stati membri a mettere in pratica l’impegno ambizioso assunto dal Consiglio di primavera del 2007 in termini di riduzione del 20% delle emissioni di gas serra e di sviluppo (+20%) delle energie rinnovabili.
Quanto sopra riportato, merita alcune considerazioni, alla luce del Magistero della Chiesa, nonché di approcci e visioni non convenzionali (con specifico riferimento ai cambiamenti climatici).
Analizzando il contesto attuale, oltre ad individuare le opportunità che si dischiudono nell’era dell’economia globale, si colgono anche i rischi legati alle nuove dimensioni delle relazioni commerciali e finanziarie. La cura del bene comune impone di cogliere le nuove occasioni di redistribuzione di ricchezza tra le diverse aree del pianeta, a vantaggio di quelle più sfavorite e finora rimaste escluse o ai margini del progresso sociale ed economico. Una solidarietà adeguata all’era della globalizzazione richiede la difesa dei diritti umani. L’estensione della globalizzazione deve essere accompagnata da una più matura presa di coscienza da parte delle organizzazioni della società civile, dei nuovi compiti ai quali sono chiamate a livello mondiale. Particolare attenzione va riservata alle specificità locali e alle diversità culturali, che rischiano di essere compromesse dai processi economico-finanziari in atto. Quanto più il sistema economico-finanziario mondiale raggiunge livelli elevati di complessità organizzativa e funzionale, tanto più si pone come prioritario il compito di regolare tali processi, finalizzandoli al conseguimento del bene comune alla famiglia umana. Emerge concretamente l’esigenza che, oltre agli Stati nazionali, sia la stessa comunità internazionale ad assumersi questa delicata funzione, con strumenti politici e giuridici adeguati ed efficaci [2].
Uno degli aspetti su cui ha posto l’attenzione la Commissione Europea per “disciplinare” il processo di globalizzazione, è il problema climatico, rispetto al quale viene ribadita la necessità di procedere nella riduzione dell’emissione di CO2 nell’atmosfera.
A tale proposito appare interessante la posizione di Bjorn Lomborg che in un recente lavoro[3] ha affermato ” Prendiamo in considerazione i biocarburanti, che si fabbricano con mais o canna da zucchero. Per ridurre la Co2 abbiamo preso il cibo ai poveri per metterlo nei nostri serbatoi; abbiamo spinto i poveri a distruggere le foreste per farne campi da coltivare e speso miliardi per i sussidi all’agricoltura (…) Immaginiamo che da domani il mondo intero decidesse di seguire il protocollo di Kyoto. Il costo sarebbe di 150 mld di dollari l’anno. Risultati: al posto di raggiungere una certa temperatura nel 2100, la raggiungeremmo nel 2016. Insomma: seguendo i rimedi indicati da Gore, le famiglie del Bangladesh le cui case saranno sommerse dalle acque avranno 6 anni di tempo in più per fare le valigie. A 150 mld di dollari l’anno! Con Kyoto salveremmo centinaia di persone. Ma con 150 mld di dollari l’anno potremmo debellare la malaria oggi, salvandone 36 mila. E in più dare acqua potabile e cibo a tutti. Non è meglio?”[4] [1] European Commission-Directorate General “Employment, Social Affaires ed Opportunities”, March 2008
[2] Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Ed. Vaticana 2004 nn. 366-371 [3] B. Lomborg “Stiamo Freschi”, Mondatori 2008 [4] Intervista di D. Casati “Il sole 24” ore 21/7/2002