Eros e Agape: distinzione e complementarità nella visione cristiana

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 6 marzo 2006 (Zenit.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento tenuto dal professor Igor Kowalewski alla 44ª videoconferenza mondiale, che la Congregazione vaticana per il Clero ha organizzato il 28 febbraio scorso.

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La prima (e ultima – per il momento) enciclica di questo pontificato ci ha mostrato la svolta e continuità nel magistero pontificio. Giovanni Paolo II ha parlato più o meno quattro anni dell’amore coniugale nelle sue catechesi di mercoledì all’inizio degli anni Ottanta. Il discorso sul sesso, sulla nudità, tutto quanto che avrebbe suscitato non poca resistenza mediale del mondo, fu pronunciato nel contesto delle catechesi, che sempre sono un atto di trasmissione della fede nella comunità di fede, che è la Chiesa. Successivamente apparve Familiaris consortio All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros (3). Il Santo Padre citando Nietzsche descrive poi la critica al cristianesimo al riguardo. La sua apologia dell’amore carnale, sensibile si fonda sul fatto di dover purificare, guarire l’amore, renderlo più umano, cioè razionale e disciplinato.

E qui abbiamo un punto cruciale. Quale sarà la ricezione dell’enciclica nella Chiesa e nel mondo? Questo dipende dalla nostra antropologia: dal nostro vedere uomo, noi stessi. Chi è uomo, perché ama, qual è la sua vocazione? Il mondo di oggi concepisce amore come una realizzazione di se stesso. Nel mondo siamo diventando sempre più potenti e quasi onnipotenti con lo sviluppo della tecnica, della medicina nella continua crescita della ricercata qualità di vita. Siamo diventati oggi, come mai prima, ciascuno – dio della propria vita. Ciascuno, nel insuperabile individualismo, stabilisce per sé il bene e il male.

Ogni uomo sa, che soffrire è male per lui, quindi scappa la sofferenza, e se la subisce volontariamente, lo fa per qualche valore, per i suoi “valori”, che ha; noi potremmo dire per i suoi idoli, cui serve, i quali si trovano al posto di Dio vero. In tale situazione la felicità è sempre cercare se stesso, realizzarsi, il crescere, gonfiarsi il proprio io. Allora eros è sempre egoista, l’orgasmo è lo scopo della vita, e felicità sarebbe stata nell’orgasmo eterno. Però l’uomo si rende conto della sua limitatezza, della sua impotenza di mantenersi al vertice del piacere, alla sua insaziabile trascendenza di se stesso. L’uomo non può trovare il senso della vita solo all’interno di se stesso, perciò è insaziabile. Non può raggiungere un orgasmo perenne, sperimenta frustrazione e depressione. Il suo slancio indomato lo fa soffrire più di prima. Questa situazione e ben descritta nel primo capitolo della lettera ai Romani.

Nel frattempo c’è un altro dramma dell’uomo di oggi. In una parola questo è la fede. Se Dio non c’è, uomo è destinato a essere dio della sua vita. Uomo vive, come se Dio non ci fosse, e anche se ci fosse, non importa… Però questo atteggiamento ha un’altra dimensione: se Dio è cattivo, se mi fa soffrire, se non fa la mia volontà, tale Dio non esiste. Uomo può uccidere Dio nel suo cuore. Così uomo rimane senza fede, cioè senza teologia, e con un falso concetto di se stesso. Appunto scrive il Papa nel numero otto, passando ad un altro capitolo: La novità della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che meritano di essere sottolineati: l’immagine di Dio e l’immagine dell’uomo.

Nel cristianesimo c’è una perfezione dell’eros. Concepito come un’attrazione, uno slancio, un desiderio, infine un amore ascendente, si realizza nel amore coniugale, che è il sacramento, vuol dire segno efficace dell’amore di Cristo alla Chiesa, di Dio all’umanità, che si fa reciproco. Questo amore è anche agape: amore di Cristo, che non cerca il suo interesse, non cerca se stesso, non pensa a se stesso, è tutto “per” l’altro. Il santo amore, che è dare la propria vita, affinché gli altri la ricevano (Quando noi moriamo, voi ricevete la vita – dice san Paolo).

L’amore che non ha paura del morire, di dare la vita. Questo amore di Cristo inoltre è “paziente, benigno, non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace alla verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Non avrà mai fine (cf. 1 Cor 13, 4-8). Nell’amore degli sposi cristiani se vedono tutti e due aspetti dell’amore. L’esperienza dei tantissimi mariti e mogli credenti è che il matrimonio cristiano non si fonda sull’attrazione fisica, si fonda sul perdono quotidiano! Ogni giorno gli sposi debbono morire per se stessi, per i figli, e da qui nasce la vita, di ciò si nutre l’amore, si sperimenta che Cristo è risorto! Ma se non c’è Gesù Cristo in mezzo agli sposi, non possono amarsi, non possono essere aperti alla vita, non possono essere un sacramento, un icona di Cristo che amò la Chiesa e ha dato Se Stesso per lei.

Uno slancio, una gelosia, un desiderio di amare, di conquistare il cuore di colui che si ama, che dall’oggetto divento una persona, un soggetto – questo eros è anche proprietà dell’amore di Dio verso il suo popolo infedele e povero, il popolo più piccolo della terra, più miserabile e disgraziato: popolo degli schiavi usciti dall’Egitto, popolo pieno di ciechi e storpi, sordi e muti. Dio si lo fa una sposa adornata, per ammirare la sua bellezza, per dire nel Cantico dei cantici: tota pulchra es amica mea!

Questo amore ascendente e discendente è qualcosa talmente grande, perché appartiene alla stessa natura di Dio. Deus caritas est, ed ha impronto questo desiderio nella natura della sua creatura più nobile. Siamo stati creati per amore, per uscire da noi stessi, per dare la vita. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può – come ci dice il Signore – diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva. Ma per diventare una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (7).

Come non ricordarci il dialogo di Cristo con la Samaritana, la prima evangelizzatrice dei pagani, che dice “dammi quest’acqua!” Perché uomo è insaziabile nella sua affettività malata. Uomo vuole essere amato, vuole ricevere, prendere in continuazione, non vuole dare, perché non può! E’ destinato a vivere per se stesso, dopo aver perduto il legame con il suo Creatore, e condannato ha succhiare amore, come un lattante, ha bisogno di trovarsi un cordone ombelicale, da dove pompare amore, affetto, perciò tutto mette in funzione di se stesso, tutti gli uomini che incontra vuole sottomettere a questo scopo, vuole essere amato e vuole guadagnare questo affetto, diventandone schiavo, perdendo la libertà.

In conseguenza non è libero, non sa relazionarsi con i fratelli e sorelle, perché non è libero. Non può dire la verità per paura di perdere l’amore delle persone, si costruisce delle amicizie, relazioni d’amore o domina altre persone, perché non ha conosciuto un amore gratuito. E’ sola la fede della Chiesa, la fede viva, che gli dà questa certezza: Dio ti ama, Cristo ha dato la vita per te, puoi amare! Puoi amare, dare la vita, smettere d
i pensare solo a te stesso, perché c’è Uno che ti ama gratuitamente, Uno che ti ama, quando sei suo nemico, quando lo uccidi, quando sei un peccatore.

Puoi essere libero, avere la pace dentro di te, non aver paura di restare solo, di perdere l’affetto della gente, perché Cristo ti ha perdonato e ti vuole guarire nella Chiesa. Uno che ha questa fede, può amare, può vere l’acqua dentro di sé, può diventare un fonte per gli altri. Puoi essere prete, puoi essere catechista, puoi essere marito o moglie, padre o madre. Puoi dare, perché hai ricevuto. Puoi condividere senza paura di perdere. Puoi svuotarti, subire una kenosi, puoi essere cristiano, come il Figlio di Dio – umile servo di Jahvè. L’amore è vocazione universale di persona umana.

Il Santo Padre cita Virgilio, un pagano considerato profeta per aver annunziato l’avvenire della era nuova: novus ordus saeclorum (a prescindere dal dollaro americano che porta su di sé queste parole!). Dice il grande poeta romano: Omnia vincit amor, || et nos cedamus amori. Queste parole ci parlano della nostra vocazione. Per i cristiani è ovvio, che l’amore di Cristo, la sua santa umiltà ha vinto il mondo, con la sua superbia.

E’ chiaro che amore è un dono. Dio nel suo disegno che tutti gli uomini si salvino e vengano alla verità ha voluto che ricevessimo questo dono da Lui, ha voluto che sperimentassimo una precarietà di questo dono che portiamo in vasi di creta. E qui affrontiamo un altro mistero imperscrutabile, mistero dell’elezione. “ O inaestimabilis dilectio caritatis!” canta la Chiesa nella notte di Pasqua. “Dilezione” proviene dall’elezione. Dio ha scelto coloro che potranno vivere secondo il comandamento nuovo “amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati”.

Amare nella dimensione della croce, amare sì che altro ti distrugge e tu lo ami nonostante tutto, amare come Cristo ha amato Giuda, tocca ai cristiani, che sono eletti dal mondo. E’ questa la vocazione fondamentale della Chiesa – essere il Corpo di Cristo, che si può toccare, in ogni generazione. La Chiesa salva il mondo dando la vita per il mondo, come fece Cristo. E’ questo il cristianesimo: far vedere alla gente che vive oggi nel mondo, che questa è la unica verità – Gesù Cristo morto sulla croce e risorto.

La carità nella Chiesa oppure la carità della Chiesa rispetto al mondo è primariamente di mostrare tale amore, di dire la verità. Altrimenti la Chiesa si perderebbe nel mondo, se si adeguasse alla sua mentalità. Tutta la dottrina sociale della Chiesa si fonda sull’amore. Se non c’è amore, se non c’è perdono, è possibile tutto: per cercare giustizia si può fare scioperi, fare lotta di classi. Se non c’è Dio, uomo vive solo di pane, e quindi va dato il pane alla gente in abbondanza. Ma la carità della Chiesa è tutt’altra cosa. La Chiesa deve annunciare Gesù Cristo al mondo. Questa carità di Cristo ci spinge, dice san Paolo.

Non è facile questo discorso oggi. Il mondo vive una vita diversa. Affrontiamo oggi un’apostasia di Europa, una nascita della società post-cristiana, uno sviluppo del mondo globalizzato con una prospettiva della laicità e pluralità che non sembra che dia una convivenza pacifica tra le varie culture, razze e continenti. Perversioni sessuali, corruzione del denaro, mancato progresso umanitario – tutto questo può considerarsi dei segni del tramonto di civiltà.

Per la visione cristiana della storia non esiste tuttavia un pessimismo storico. La storia che viviamo è la storia di salvezza. I nostri nomi sono inseriti nel libro della vita, tra tante genealogie ed elenchi biblici c’è posto per i nostri nomi, c’è spazio per la nostra storia. Dio conosce tutto, anche il futuro condizionato dalla nostra libertà, e Dio non sbaglia neppure nei particolari. Si apre una nuova prospettiva per la Chiesa.

Il Concilio ecumenico Vaticano secondo, preso nell’ermeneutica della riforma, non quella di discontinuità, dice apertamente, che la Chiesa è un sacramento, un segno e strumento della salvezza, una luce che brilla per le nazioni, un sale che si scioglie per dare sapore alla vita nel mondo, un lievito che da crescita alla massa del mondo. La missione della Chiesa non può, non è mai potuta cambiarsi: annunziare il vangelo; questa missione appartiene alla sostanza della Chiesa, non è un optional.

Questa è la carità: annunziare la Parola, celebrare i sacramenti, servire i più deboli. Il Signore della storia, quando verrà, “li metterà a sedersi e li servirà” (Lc 12,37) nel banchetto escatologico che pregustiamo nell’Eucaristia. Cristo, il Pane vivo, si spezza per noi, si distrugge per amore e ci fa unico corpo della Chiesa, e toccandolo il mondo può trovare Cristo, vedere il Suo volto, prendere speranza.

[Fonte: pagina web della Congregazione vaticana per il Clero]

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ZENIT Staff

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