Che scuola sarebbe quella che preferisce i dialetti al latino?

Intervista al Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche

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CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 21 gennaio 2005 (ZENIT.org).- In Italia è in fase di discussione la riforma del quadro orario delle classi superiori. Nello schema di decreto relativo al secondo ciclo di istruzione sono state avanzate proposte miranti a ridurre le ore di latino a favore di quelle destinate all’insegnamento dei dialetti.

Per approfondire il dibattito, che ha suscitato l’opposizione indignata di numerosi intellettuali, e capire le implicazioni di una tale riforma, ZENIT ha intervistato monsignor Walter Brandmuller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, e cultore delle lingue classiche

In Italia si sta discutendo di ridurre le ore di insegnamento del latino a favore dell’insegnamento dei dialetti locali. Qual è il suo parere in proposito?

Mons. Brandmuller: Di fronte a questo interrogativo debbo esprimere tutta la mia perplessità. Pur Riconoscendo, senz’altro, il valore culturale dei dialetti locali mi chiedo come potrebbero essere studiati se non facendo ricorso alla loro comune radice e, cioè, il latino? Non si può costruire il piano nobile prima di gettare le fondamenta.

Perché secondo lei é importante studiare il latino e le lingue classiche?

Mons. Brandmuller: A mio parere ci sono diverse ragioni per farlo: anzitutto va ribadito che studiando la grammatica latina si acquisiscono automaticamente gli elementi della logica, si impara ad analizzare e comprendere un testo. Si crea, così, una forma mentis che è indispensabile per qualsiasi lavoro intellettuale.

E’ assolutamente impensabile che la ricerca seria su quasi tutti i settori delle scienze umanistiche – e in un certo senso anche quelle naturali e sociali – possa andare avanti rinunciando a quella base filologica intellettuale. Per non parlare del grande vantaggio di poter leggere nell’originale le grandi opere della letteratura classica.

Si è discusso tanto sulle radici culturali dell’Europa. Quanto hanno contribuito le lingue classiche a sviluppare e integrare il Continente europeo?

Mons. Brandmuller: Basta ricordare che quasi tutto il patrimonio letterario, filosofico, religioso, giuridico e anche quello delle scienze naturali, ci è pervenuto nelle lingue latina e greca. Per molti secoli il latino fu la lingua franca del mondo occidentale.

Così i letterati di tutti i popoli avevano immediato accesso alle opere fondamentali di cultura e scienza e quindi esisteva una straordinaria base comune per lo scambio culturale e scientifico fra i vari popoli componenti l’Europa. C’era inoltre la Chiesa come fattore integrante, il cui diritto, la cui dottrina e la liturgia erano espressi nella lingua latina.

Alcuni pensano che le lingue classiche come il latino non abbiano più futuro perché non più parlate. Come risponde a questa obiezione?

Mons. Brandmuller: La sua questione ne solleva un’altra: quale importanza il passato, la storia, possano avere per il futuro? E’ infatti auspicabile che il cittadino colto europeo di domani stia di fronte alle innumerevoli epigrafi, iscrizioni poste sui monumenti delle nostre città egualmente sprovveduto come davanti alle iscrizioni di un obelisco egiziano o una poesia indiana in sanscrito?

La perdita della conoscenza, soprattutto del latino, ma anche del greco, significherebbe la irrimediabile rottura con una tradizione culturale di tre millenni. Lo vogliamo? Sarebbe grave se in questo momento, di nuovo, solo la Chiesa avesse il compito di salvare la cultura europea. Videant consules (Le prime parole della formula sacramentale con la quale il senato di Roma responsabilizzava i consoli perché fossero essi ad assumersi ogni iniziativa necessaria alla salvezza dello Stato, ndr).

In che modo è possibile rilanciare lo studio del latino?

Mons. Brandmuller: Spetta ai specialisti della didattica di sviluppare dei metodi di insegnamento che rendano attraente ai ragazzi lo studio delle lingue classiche.

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ZENIT Staff

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