ROMA, sabato, 21 aprile 2012 (ZENIT.org) - Giovedì 3 maggio, a Roma nella sala Vasari del Palazzo della Cancelleria, in Piazza della cancelleria, il cardinale Julian Herranz e il Sen. Prof. Marcello Pera presenteranno il libro “Fede e cultura. Scritti scelti” scritto da Monsignor Luigi Negri vescovo di San Marino Montefeltro e edito da Jaca Book.
Il libro di 624 pagine è suddiviso in due parti. La prima raccoglie gli scritti filosofici sul tema della crisi antropologica da Tommaso campanella a Thomas Hobbes fino a Romano Guardini e Jean Guitton.
Nella seconda parte l’autore ripercorre il pontificato di Giovanni Paolo II con scritti interpretativi al cui centro è Cristo come termine di confronto decisivo per l’Uomo contemporaneo. L’obiettivo del libro è quello di delineare la grammatica di un nuovo umanesimo cristiano.
Per illustrare contenuti e significati di questo volume pubblichiamo di seguito la prefazione al libro di Gianfranco Dal Masso, Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Bergamo, Presidente della Società italiana di Filosofia Teoretica. Membro del Comitato Scientifico della Rivista Internazionale di teologia e cultura ‘Communio’.
«Ciò che ogni anima persegue e a motivo del quale fa tutte le cose, cercando di presagire che sia, incerta e incapace di affermarlo a sufficienza…» (Platone, Repubblica). La ricerca appassionata, direi quasi la mendicanza di questo Mistero, mi colpì, conoscendo mons. Luigi Negri, e mi legò a lui, quasi cinquant’anni fa, come amico e come allievo.
Eravamo compagni di Università e Negri, qualche tempo prima di me, era stato studente di Luigi Giussani e l’incontro con questo grande maestro significò per entrambi la scoperta di una dimensione ignota del cristianesimo, almeno del cristianesimo normalmente praticabile nell’ambiente sostanzialmente laicista che frequentavamo.
Ho un ricordo, sulla terrazza della sede di Gioventù studentesca, movimento fondato da Giussani, di un giovane universitario, che a me, che frequentavo la terza liceo, sembrò un personaggio molto maturo e importante (Il giovane universitario era Pigi Bernareggi, allora Presidente di Gioventù studentesca, poi prete e missionario in Brasile).
Egli disse, impugnando un pezzo di carta e tenendolo in orizzontale: «Vedi, il mondo sembra così, ma, per il cristianesimo, esso viene capovolto» e girò con la sua mano il predetto foglio.
A tanti anni di distanza posso confermare, secondo la mia esperienza, la verità di questa tesi. L’immagine del capovolgimento alludeva e continua ad alludere al fatto che l’incontro con l’esperienza di Cristo costituisce un radicale cambiamento dell’uomo, dell’«io» nei confronti del sapere.
Del sapere del mondo e del sapere su se stessi in rapporto al mondo. Un «non proprio» dilagante nelle proprie cose, atti, speranze. Una alterità inquietante e insieme esaltante, generativa di sé e tale da collocarsi nell’origine stessa del proprio desiderio. E anche una allegrezza altrimenti ignota: «quia iudicia tua iucunda».
Il mio impaccio nel seguire questa esperienza fu alleviato dalla frequentazione e dalla collaborazione con Negri, allora vice-presidente di Gioventù studentesca, in quella che si chiamava l’«Iniziativa Cultura». La posta in gioco allora era la scoperta di come Cristo fosse il punto unificante della nostra esperienza: un punto unificante strano, che spiazzava i nostri punti di vista e ci liberava dalle varie prigioni di cui era allestita la nostra vita personale e sociale.
Più che di una concezione del mondo si trattava di un modo nuovo di interrogare e di essere interrogato, di concepire i moventi dei nostri giudizi.
Revisione di periodi storici, di testi di filosofia, di interpretazioni: così si svolgeva l’attività della «Iniziativa Cultura»: un paragone umile, ma insieme molto critico che funzionò in corsi, in momenti di incontro nei licei e in Università.
Don Negri continuò questo lavoro negli anni seguenti come docente di Filosofia nell’Università Cattolica. Da «professore» alcuni giudizi furono verificati ed elaborati in ricerche complesse, con piglio e con maestria.
Nel volume Fede e ragione in Tommaso Campanella l’autore mette a fuoco la questione che più gli sta a cuore: l’articolazione di un discorso sull’uomo come modalità di una domanda radicale, sull’origine, che investe quindi anche un discorso su Dio. Campanella è un banco di prova privilegiato: sul confine fra l’onda lunga del neoplatonismo umanistico e rinascimentale e lo schiudersi di una nuova centralità dell’uomo.
Tra '500 e '600 si passa da una immagine cosmocentrica della realtà a una immagine antropocentrica, in cui all’individuo umano, all’io è affidato progressivamente il compito, nuovo e immane, di sostenere la conoscenza dell’universo. A ciò spinge non tanto un prometeismo miope ed esasperato, ma piuttosto l’incalzare di un nuovo linguaggio, quello della scienza moderna.
Campanella è, nei suoi anni maturi, contemporaneo di Galileo e cioè di un momento di guado a una nuova immagine del mondo, che non si organizza più, in modo tolemaico, sulla centralità della Terra attorno a cui si ritiene che orbitino i pianeti, il sole e le stelle fisse.
Al contrario la Terra è concepita girare essa attorno al Sole, insieme agli altri pianeti, in un universo che è infinito spazio vuoto retto da leggi di movimento meccanico. In questo universo non più accogliente, non più simbolico, non più casa e scena dell’incontro dell’uomo con Dio, che ne è della Provvidenza, dell’Incarnazione, che ne è del luogo stesso in cui il Dio della Tradizione è pensabile?
Non più come colui che, amante e provvidente, abbraccia il mondo, ma come colui che può essere ospitato soltanto nell’anima dell’uomo.
Anima tuttavia non più nel senso dell’uomo antico, come terza realtà insieme al mondo e a Dio, ma nel senso di una interiorità. Tale interiorità non è più nemmeno di tipo mistico, come si esprimeva sant’Agostino dicendo che Dio è «intimior intimo meo», ma piuttosto intimistico, cioè psicologistico.
Si avvia così una concezione riduttiva e razionalistica dell’essere umano. L’uomo diventa un soggetto capace di essere lui stesso luogo e misura degli enti e della sua esperienza. Uomo come dominio di sé.
In Persona e Stato nel pensiero di Hobbes, mons. Negri coglie e analizza questo dominio che non funziona solo come isico, mentale e psicologico, ma anche come politico. La questione del dominio si allarga a un progetto di città come macchina da controllare, come espressione di una sovranità su di sé e sull’altro. La modernità si costituisce così come un progetto di dominio che include, in un colpo solo, Dio e la città. Il Leviatano di Hobbes è infatti un dio mortale.
La questione su «chi è l’uomo?» che la modernità ha esaltato trova, nella ricerca di Negri, un punto cruciale nel pensiero di Romano Guardini. In questo maestro le opposizioni centrifugate della modernità si rivelano come non originarie: persona-Stato, individuo-comunità, interiore-esteriore, privato-pubblico, materiale-spirituale, ecc.
Tali opposizioni sono piuttosto effetto, irrigidito e ideologico, di un funzionamento vivente della razionalità, che implica il dislivello, la polarità e l’alterità come sue strutture e come suoi principii paradossalmente unificanti. Secondo questa concezione la ragione stessa si organizza e ospita un che di non solo razionale, un’origine nascosta, in qualche modo impensabile, ma attiva. Dio stesso viene avvistato come il requisito, impossedibile e impensabile.
Che abbraccia e custodisce, con una struttura sui generis, lo sforzo della ragione. In altri termini Dio sembra generare la ragione stessa in cui è cercato e, in qualche modo, affermato. Guardini ha genialmente anticipato (i suoi testi decisivi sono degli anni '30 - '40) una comprensione del destino e delle impasses della modernità.
Nella prospettiva guardiniana la formula «Dio è morto» non può, se si vuole anche secondo l’intendimento di Nietzsche, implicare un’affermazione nichilista, ma piuttosto la considerazione che è morto un Dio idolatrico.
Dove l’idolatria non riguarda tanto un dibatttito su un concetto non abbastanza puro di Dio, ma il fatto che l’uomo è diventato idolo a se stesso. Guardini ha cioè anticipato la comprensione dell’esito post-moderno della modernità: da un lato l’io, modernamente inteso, si costituisce come appel lo e responsabilità, dunque come libertà ignota ad altre epoche, dall’altro lato su di lui incombe l’esito nichilistico e idolatrico del suo porsi sovrano.
Il «post-moderno» sembra perciò riguardare, più che una «crisi», il travaglio di un parto. Negri, anche sulla scia di maestri di teologia e di patristica come de Lubac e von Balthasar, stabilendo un punto di contatto duplicemente fecondo tra filosoia e teologia, mette a fuoco la natura di un’alterità e di un ricevere che sono originari e che sono carne e struttura della ragione.
Filosofare, per la concezione che ne ha Negri, è questione che riguarda una conversione dell’intelligenza, in un senso anche semplicemente «laico». C’è un porsi, o meglio un essere posizionato, che riguarda la natura della ragione come atto. C’è un pregare nel pensare, anche per gli atei.
Lo stile di lavoro che questi testi insieme inseguono e rivelano riguarda un desiderio e un compito oggi poco frequentati: cioè pensare secondo la Chiesa, che riguarda una questione di eredità e di tradizione e anche di tradimento. Si tratta infatti di ricevere e di trasmettere un non proprio: un non proprio che, tuttavia, strutturalmente, modifica chi lo riceve, nell’atto stesso in cui lo riceve.
D’altra parte questo gesto concerne il desiderio e la scommessa in cui consiste la concezione della cultura per un cristiano: un ricevere, uno scoprire, un trovare corrispondenze, risposte al di là delle angustie razionalistiche di un proprio criterio.
Il compito di pensare secondo la Chiesa non è oggi generalmente né amato né desiderato: è visto o come atteggiamento bigotto e tradizionalista o censurante gli episodi di miopia e disconoscimento da parte delle autorità ecclesiastiche.
Questo compito mi pare invece, in modo commovente, il segreto che muove il desiderio e l’azione di mons. Negri, come pastore e come filosofo. Pensare secondo la Chiesa riguarda infatti la questione di una ragione che ritrova se stessa.
Come è possibile, nel pensare, una gratitudine infinita?