Suscita comprensibile scandalo la furia iconoclasta che sta armando le mani dei terroristi dello Stato islamico di picconi, mazzette ed esplosivi da scagliare contro opere d’arte d’antico e inestimabile valore. In pochi mesi, l’incedere in Iraq delle falangi del Califfato ha raso al suolo le sculture ciclopiche di Nimrud - culla della civiltà assira - le rovine di Hatra - fondata dai Seleuciti nel III secolo a.C. - le statue del museo di Mosul - veri e propri tesori della Mesopotamia - e le mura antiche di Tal Afar. Per l’umanità erano preziose eredità della storia da amare e custodire, mentre per certe violente frange dell’Islam sunnita rappresentano idoli da cancellare, in quanto, secondo la loro interpretazione del Corano, lo “ordinò il profeta”.
Queste manifestazioni di fanatismo vandalico nei confronti della storia e della cultura rimandano il pensiero dei più al 2001, anno della distruzione degli splendidi bassorilievi buddisti di Babiyan, in Afghanistan, ad opera dei talebani. Ma qualche osservatore più attento (e più documentato), guardando le immagini dello scempio perpetrato dall’Isis, potrebbe riavvolgere il nastro della memoria storica a secoli precedenti.
Al ‘700, per esempio, e alle scorribande dei giacobini che, oltre a compiere stragi sanguinarie, presero di mira i simboli di quella “superstizione” da annichilire chiamata cristianesimo. Prima che le truppe di Napoleone iniziassero in Italia e non solo la razzia di opere d’arte finalizzata ad arricchire Parigi, un piano sistematico di distruzione non risparmiò nulla. I rivoluzionari fecero a pezzi o, nella migliore delle ipotesi, decapitarono innumerevoli statue dei santi sparse in tutta la Francia. Bruciarono centinaia di pregevoli dipinti nonché di candelabri, ostensori e reliquiari. Saccheggiarono gli edifici religiosi: l’abbazia di Cluny, risalente al 910, fu ridotta in cenere (ad oggi solo l’8% della struttura risale alla costruzione originale), quella di Citeaux, poco più recente, fu totalmente smantellata. Una stima dei danni della Rivoluzione francese è oggi incalcolabile.
È di due secoli prima della presa della Bastiglia, la frenesia distruttiva che pervase i cuori e sospinse le azioni dei protestanti nella Mitteleuropa. L’equivoco dell’iconoclastia presso i cristiani, che sembrava esser stato sciolto già nel 787 dal Concilio di Nicea (“Chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto”), tornò in auge insieme ai pruriti anti-romani sorti nella Germania del XVI secolo.
Dopo Martin Lutero, diversi riformatori protestanti incoraggiarono la demolizione delle immagini religiose appellandosi alle proibizioni del Pentateuco e ai Dieci Comandamenti. Nel ‘500 immagini dei santi o della Vergine, vetrate raffiguranti eventi miracolosi o soprannaturali furono rimosse dalle chiese e dalle cappelle cattoliche, e spesso furono distrutte.
Un fiume di fanatismo percorse la Svizzera, l’intera Germania, la Francia, i Paesi Bassi e arrivò a Copenaghen. Con la predicazione dei riformatori calvinisti quali John Knox, foraggiato dalla Corona britannica in chiave anti-cattolica, l’impeto si abbatté perfino sulla Scozia, riducendo in rovine secoli di civiltà. Bersaglio della violenza dei seguaci di Lutero furono importanti edifici sacri come, per citare qualche esempio in Francia, la basilica di San Martino, a Tours, quella di Notre-Dame, a Rouen, e quella di Santa Maria Maddalena, a Vézelay.
Nel 1566 le Fiandre furono colpite come da un terremoto, chiamato per l’appunto beeldenstorm (tempesta delle immagini, in olandese). Folle inferocite, aizzate da predicatori calvinisti, demolirono in Olanda, Belgio e Lussemburgo centinaia di chiese cattoliche, cappelle, abbazie, monasteri e tutto ciò che contenevano (tra cui anche le reliquie). Questi focolai di violenza innescarono la Guerra degli ottant’anni, ossia la ribellione delle Province Unite al dominio della cattolica monarchia spagnola.
Anche in Germania il patrimonio artistico fu smembrato a causa dell’inconoclastia protestante. A tal proposito ebbe a scrivere nel 1842 Luigi I, Re di Baviera: “Dove sorgeva la Riforma, l’arte figurativa tramontava”. Emblema di quel periodo di devastazioni fu la Götzentag (Giornata del falso idolo, in tedesco), quando nella città di Ulma, nella Germania meridionale, i falò furono così tanti e alti da intossicare un’aria ancora non inquinata dall’avvento della Rivoluzione industriale.
Oggi, dopo quasi 500 anni da quei fatti, in seno ad alcune comunità protestanti tedesche sembra esser maturato un “mea culpa”. In una dichiarazione della Evangelischen Kirche in Deutschland (Ekd), diffusa dal settimanale cattolico The Tablet e ripresa dall’Osservatore Romano, i responsabili religiosi hanno sottolineato la loro ferma condanna verso quella pratica distruttiva. “Le immagini - ha detto il vescovo donna Petra Bosse-Huber, durante una riunione dell’Ekd e del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, svoltasi ad Amburgo - sono da molto tempo diventate espressione di pietà protestante”.
Un gesto che, sebbene provenga soltanto da una comunità dell’ampio dedalo di Chiese protestanti, è di portata storica. Si tratta del tentativo pionieristico di far luce sulle ombre che avvolgono un passato, per i seguaci di Lutero e Calvino, spesso poco conosciuto nella sua interezza. Riconoscere i propri errori, d’altronde, è un esercizio di maturità e di coscienza, e anche di coraggio e di umiltà.
Di queste virtù fu esimio testimone San Giovanni Paolo II. Nella bolla d’indizione del Giubileo del 2000, papa Wojtyla scrisse: “Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli”.
Il piccolissimo ma importante segnale che giunge oggi dall’Ekd si colloca nel solco tracciato dal Santo Padre polacco. Chissà quando saranno maturi i tempi affinché anche i fautori del “progresso” e dei Lumi, che hanno alle spalle una lunga scia di sangue e di scempi ai tesori artistici cristiani, possano compiere un gesto simile.