“Se le oasi dell’utopia si inaridiscono, cresce il deserto della banalità e dello sconcerto”: queste parole di Jürgen Habermas appaiono più che mai vere a chi consideri le vicende del Novecento, il secolo delle due guerre mondiali, della Shoah e dei vari genocidi, e quelle degli inizi del Terzo Millennio, apertosi con la tragedia delle Torri Gemelle e il conflitto che ne è seguito. Se la linfa della speranza e dell’amore non si è spenta fra gli uomini, è anche perché ci sono state “oasi dell’utopia” che hanno accompagnato i nostri giorni: fra queste emergono le figure dei due Papi, che saranno proclamati santi domenica 27 aprile, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.
Nel deserto diffuso della banalità e della sfiducia, essi sono stati sorgenti di acqua viva, oasi da cui attingere la speranza più forte del disincanto e la forza di un amore più grande della violenza e del male. Che cosa ha fatto delle loro vite un dono per tutta la famiglia umana? Non esiterei a rispondere a questa domanda indicando come ragione della fecondità del loro essere e del loro agire il tratto che li ha accomunati: l’annuncio della misericordia. Un annuncio riferito dal primo soprattutto al rinnovamento della Chiesa e della sua presenza nel mondo, e dal secondo agli scenari del “villaggio globale”, che è divenuto sempre più il pianeta in cui viviamo.
Che Giovanni XXIII sia stato il papa della misericordia lo dice già il modo in cui la gente lo designa comunemente: il “Papa buono”. La sua bontà non aveva nulla del buonismo, non era né ingenua né semplicista, nasceva anzi da un’intelligenza vivissima, da un’ampia conoscenza della storia e degli uomini e da una profonda esperienza - quotidianamente ravvivata - dell’amore e della tenerezza di Dio. Tutte cose, queste, che non apparivano subito a un’osservazione esteriore, tanto che l’elezione di Roncalli al pontificato poté apparire a molti come una deviazione per prender tempo, un rimandare a un prossimo e meglio preparato futuro le scelte per il domani della Chiesa.
Ne è testimonianza fra le tante la divertente osservazione di una donna del popolo, che Hannah Arendt, la grande pensatrice ebrea del secolo scorso, cita all’inizio delle bellissime pagine da lei dedicate al Papa del Concilio: “Signora, questo papa era un vero cristiano. Com’è stato possibile? E com’è potuto accadere che un vero cristiano sedesse sul trono di San Pietro? … Nessuno si era accorto di chi realmente egli fosse?”. La risposta della Arendt è che certo i più non se n’erano accorti. Ella aggiunge, tuttavia, un’osservazione significativa: “A ben vedere, la Chiesa ha predicato l’‘imitatio Christi’ per quasi duemila anni e nessuno può dire quanti sacerdoti e monaci possano essere esistiti che, vivendo nell’oscurità attraverso i secoli, abbiano affermato come il giovane Roncalli: ‘Ecco dunque il mio modello: Gesù Cristo’, perfettamente consapevole sin dall’età di diciott’anni che ‘essere simile al buon Gesù’ significava ‘essere trattati da pazzi’ ” (Il Papa cristiano. Umanità e fede in Giovanni XXIII, Bologna 2013, 18s).
La forza e la grandezza di Papa Giovanni è stata semplicemente quella di un ritorno al Vangelo, di un riprenderne il messaggio essenziale dell’amore di Dio per ogni creatura e di farne il programma del rinnovamento della Chiesa. Nel discorso d’inaugurazione del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII aveva affermato: “Al giorno d’oggi, la Sposa di Cristo preferisce far uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità: essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina piuttosto che con la condanna”. L’indicazione era chiara e avrebbe ispirato l’intero Vaticano II: la misericordia, e cioè l’accoglienza, la benevolenza e il perdono, avrebbe dovuto essere l’anima ispiratrice e lo stile di tutte le scelte della Chiesa, la linea guida del suo rinnovamento teso a presentare al mondo l’immagine del Dio di Gesù Cristo, il Dio che è amore. È il messaggio che molti riconoscono nella novità di Papa Francesco, nel suo essere il pastore dall’odore delle pecore, vicino a tutti, accogliente per tutti.
Anche Giovanni Paolo II ha fatto dell’annuncio della misericordia il manifesto del suo pontificato sin dall’enciclica su Dio Padre, non a caso intitolata “Dives in misericordia” (1980): l’accento peculiare che dà a questo tema il Papa polacco è anche il frutto delle esperienze della sua vita, segnata dalle sofferenze della seconda guerra mondiale e di due totalitarismi, particolarmente disumani e violenti. Mentre sembrava trionfare la barbarie del male assoluto, il Signore ha voluto annunciare al mondo la Sua misericordia: è così che Wojtyla rilegge le esperienze mistiche della Suora polacca Faustina Kowalska, da lui stesso canonizzata, la cui vicenda s’incastona precisamente fra le grandi tragedie del XX secolo.
E questo annuncio del Dio misericordioso diventa per Giovanni Paolo II da una parte la contestazione di tutte le presunzioni ideologiche, per loro natura totalitarie e violente, dall’altra l’offerta di una via di liberazione e di possibile realizzazione per l’umanità tutta, ferita dai drammi del “secolo breve”. Sul Dio che è amore il Papa polacco centra il suo messaggio al mondo, incidendo profondamente nei cambiamenti epocali di fine millennio, e aprendo il nuovo secolo nel segno della speranza, nonostante tutto. Fino alle ultime ore della sua agonia, dalla cattedra altissima della propria sofferenza, il Vescovo di Roma venuto dai popoli slavi proclama al mondo la bontà e la bellezza del Dio misericordioso, riserva di vita e di speranza per chiunque voglia aprirgli le porte del cuore.
Dai due Papi, uniti nella gloria degli altari, viene allora a tutti noi uno stesso messaggio, pur con accenti diversi: è la buona novella della misericordia, anima dell’azione pastorale della Chiesa, secondo Giovanni XXIII, e cuore della sua proposta al mondo per un’umanità che voglia essere più vicina alla realizzazione del disegno universale dell’amore di Dio, secondo il Papa polacco. Un messaggio che diventa a pieno titolo la proposta e l’augurio di questa Pasqua, che cade a pochi giorni dalla proclamazione della santità dei due Pontefici, che dell’annuncio della misericordia hanno fatto la linea portante del loro servizio alla Chiesa e al mondo, vere “oasi dell’utopia”, che potranno aiutarci a salvaguardare il nostro tempo dai deserti della banalità e dello sconcerto.
È nel segno della misericordia, ricevuta e offerta agli altri, che vorrei formulare, allora, il mio augurio pasquale: lo faccio con le parole di un profeta del nostro tempo, don Tonino Bello, il vescovo dei poveri, di cui proprio il 20 aprile ricorre l’anniversario della morte. Dal letto della sofferenza, che lo avrebbe portato ancora giovane a chiudere la sua vicenda terrena, don Tonino scriveva parole che solo la certezza dell’amore vittorioso di tutto può motivare: “Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di gioia. Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare circondato da silenzi, ma risonante di voci. Sono le grazie, le luci, le voci dei mondi, dei cieli e delle terre nuove che, con la Risurrezione, irrompono nel nostro mondo vecchio e lo chiamano a tornare giovane”.