di Piero Gheddo

ROMA, lunedì, 5 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Padre Paolo Ciceri è un missionario del Pime in Bangladesh da quarant’anni, in vacanza in Italia. Gli chiedo di dirmi come e perché i suoi tribali santal si convertono a Cristo. Racconta: “Nel giugno di quest’anno ho inaugurato in un villaggio vicino a Rajshahi novanta casette in muratura fatte per i miei cristiani. Prima vivevano in capanne di paglia e fango,per loro è stato un grande balzo in avanti nelle loro condizioni di vita. Abbiamo lavorato forte per finire prima che venissero le piogge del monsone. Abbiamo anticipato la scuola dalle 6 alle 11 del mattino, poi i bambini andavano con un cestino nei campi di patate appena raccolte. Anche in Bangladesh seguono la legge dell’Antico Testamento, nei raccolti lasciano indietro alcune patate per i poveri. I bambini venivano a casa con 6-7 chili di patate raccolte nei campi, che erano la paga della loro giornata. Uomini e donne e io stesso ci siamo impegnati allo spasimo. Molti mi dicevano che le case costavano troppo, ma il Signore mi ha aiutato attraverso tanti amici e benefattori

Quando abbiamo finito, i capi famiglia sono venuti a dirmi: “Prima di entrare nelle case ci vuole una benedizione solenne e poi un dono così grande che ci viene da Dio e che noi non pensavamo possibile, dobbiamo fare una riconciliazione fra le nostre famiglie, perché ci sono molte inimicizie e antipatie e vogliamo rinnovare la nostra vita secondo il Vangelo”. Sono rimasto stupito di questo, perchè se la cosa fosse partita da me era logica; ma loro stessi hanno proposto questo atto di riconciliazione nella comunità cristiana. Il sabato precedente la Messa di inaugurazione delle case, ci siamo radunati in chiesa, abbiamo pregato chiedendo a Dio la grazia di perdonarci a vicenda e di rinunziare ad ogni vendetta, che in quel popolo è una cosa sacra. Poi, famiglia per famiglia venivano davanti a tutti e facevano una confessione pubblica delle loro inimicizie, sgarbi, maldicenze, vendette e chiedevano scusa all’altra famiglia. Era per me e per tutti una cosa edificante. Nella loro semplicità avevano capito il Vangelo meglio di quanto glie l’avessi spiegato io. Le famiglie, anche di parenti, si sono incontrate, perdonate, salutate e tornate in amicizia.

Il giorno dopo, all’inaugurazione delle casette e poi al grande pranzo per tutti, sono venuti amici e parenti pagani e quelli dei villaggi vicini. Hanno trovato una comunità diversa da come era prima. Nel mondo pagano mancano espressioni pubbliche di affetto e di gioia,in quel giorno i cristiani erano tutti contenti, allegri, si salutavano, c’era un’atmosfera di pace e di gioia non comune. Ho spiegato a tutti che le famiglie cristiane si erano rappacificate. Qualche giorno dopo un capo di villaggio pagano, che è venuto alla festa mi diceva: “Padre, noi non abbiamo mai visto nulla di simile. Fra di noi i rancori non si aggiustano mai, alle vendette non si rinunzia mai, le inimicizie sono perpetue, chi può vendicarsi lo fa volentieri e gode nell’umiliare e nel colpire il proprio nemico. Qui ho visto una felicità che non ho mai visto. Mandaci un tuo catechista perchè vogliamo capire cosa dice il vostro Vangelo”. Da qui nasce la conversione di un villaggio. Per noi missionari la vita ci mette davanti a della gente che è più sensibile alla novità del Vangelo che la nostra gente cattolica da duemila anni”.

Fame di pane e fame di Dio

ROMA, domenica, 6 novembre 2011 (ZENIT.org) – Caro Padre Gheddo, mi chiamo José Cruz di nome, Echezarreta di cognome. Sono spagnolo (basco) e vivo a Roma da circa 35 anni. Sposato con un’italiana e ho figli e nipoti. Questa mattina mentre ero in macchina ho ascoltato su Radio Maria Storia della Spiritualità Cattolica a cura di Enrico Chiesura, oggi dedicato alla missionarietà, in cui il sig. Chiesura ha citato spesso lei e i suoi libri. Ho preso poi parte al colloquio telefonico e mi sono congratulato con lui perché ha sottolineato con grande chiarezza che lo scopo principale della missione non è portare il benessere alle popolazioni da evangelizzare, bensì quello di soddisfare la fame di Dio che l’uomo ha, in qualsiasi condizione si trovi, certo senza trascurare i bisogni umani fondamentali, come parte integrante del messaggio evangelico.

Gli dicevo che mi scandalizzano i sacerdoti (missionari o no) che quando predicano non fanno trasparire quella tensione interiore per la dimensione trascendente, eterna della verità evangelica e si limitano a mostrarci il loro sapere storico-filosofico-teologico-culturale cristiano, se si vuole con grande padronanza accademica e logica, ma ad un livello razionale. Se fosse questo il messaggio cristiano: razionalità e attivismo, io non ci andrei in chiesa. Studierei i libri e agirei secondo coscienza e basta. Sinceramente, io sto vivendo questo travaglio interiore, anche se sono un cristiano “fedele” e sono nato e vissuto in una famiglia religiosissima. Non mi basta la “fedeltà”. Cerco la pienezza, quell’acqua  che appaga la sete… come nell’episodio della Samaritana.

E domandavo: se non è questo il messaggio, si deve dimostrare e insegnare qual è il quid del cristianesimo. Se la religione cristiana non è come le altre religioni, anch’esse nobili, anch’esse alla ricerca di una consapevolezza della verità, dell’amore trascendente, cosa la distingue da esse? (Se non si fa chiarezza e si martella con convinzione, con conoscenza e sensibilità interiore su questo, penso che le chiese si svuoteranno). Rispondendomi, Chiesura ha ribadito il concetto della priorità spirituale e mi ha rimandato a uno dei suoi libri (non ricordo quale) in cui troverei risposta alla mia domanda, perché, diceva, è un argomento che richiede uno spazio più ampio della brevità di una risposta telefonica. Incuriosito, sono andato a cercare in Internet e ho visto nel suo sito (www.gheddopiero.it) un elenco interminabile di libri. Quindi chiedo a lei cortesemente se mi può indicare quale.

Cordiali saluti, suo José Cruz Echezarreta.

*

Caro amico, Il libro che Chiesura citava era La Missione Continua (San Paolo, 2003), basato sui documenti della Chiesa e sulle mie esperienze in 50 anni di sacerdozio. Ma in questi giorni l’editrice Lindau di Torino ha pubblicato Meno male che Cristo c’è, nel quale rispondo appunto alle sue domande, a quelle che  mi ha fatto Gerolamo Fazzini, mio successore alla direzione di Mondo e Missione, e ai dubbi che non pochi laici esprimono sulla fede e la Chiesa.

Le rispondo con una sentenza della Santa Madre Teresa in occasione di una campagna contro la fame nel mondo: “L’uomo ha fame di pane, ma soprattutto ha fame di Dio”. E lei, con le sue suore, si preoccupava di sfamare, curare e aiutare in ogni modo i poveri, ma, appunto, riteneva che c’è una fame molto più profonda e diffusa, che è quella di conoscere e amare Dio. E questa “fame di Dio” non è solo dei non cristiani, ma anche dei cristiani che “vivono come se Dio non esistesse”, vittime della cosiddetta “secolarizzazione” che fa considerare la fede e le sue manifestazioni come un qualcosa di assolutamente intimo e privato, una specie di “hobby” (sfizio) personale, di cui, per essere educati, non bisogna parlare.

Benedetto XVI scrive nella Caritas in Veritate (enciclica del 2009): “La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale….”. Quel che lei dice è vero. Lo “spirito secolarizzante” entra a volte anche nella Chiesa e nei suoi ministri, missionari compresi, per cui la missione alle genti è presentata a volte come un’opera di beneficenza, di solidarietà, e il missionario finisce per apparire più un “operatore sociale” che un uomo mandato ad annunziare la “Buona Novella” del Vangelo a tutte le genti, convinto che tutti i popoli hanno bisogno Cristo (si veda il Blog del 29 ottobre 2011).

Piero Gheddo