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Periodicamente si parla della popolazione in Italia e, in genere, come è costume nel nostro Paese (ma non solo), lo si fa in modo allarmistico, quali che siano le tendenze in atto. È evidente infatti che, in una realtà complessa come quella demografica italiana, ogni andamento presenta aspetti vantaggiosi e altri negativi, o che possono essere valutati come tali.

Per molti decenni l’Italia (insieme alla Spagna) è stata considerata la pecora nera della Comunità Europea in fatto di popolazione, in quanto troppo prolifica, tanto che avrebbe finito per sbilanciare l’equilibrio demografico europeo. Poi, quando Italia e Spagna, nei primi anni Novanta, sono diventati i Paesi meno prolifici del mondo e della storia umana (almeno per una grande nazione non in periodo di guerra), si è diffuso l’allarme per l’invecchiamento della popolazione e per il mancato ricambio generazionale, e si parla di «inverno demografico». Si è di fatto rimediato a questo con l’immigrazione, legale o clandestina, dai Paesi più poveri, che però suscita nuove quotidiane inquietudini.

È ovvio che senza i milioni di immigrati l’economia italiana (come quella degli altri Paesi europei industrializzati) non avrebbe futuro, né l’Italia sarebbe in grado di assistere i propri anziani. Ma ogni giorno molti italiani si allarmano per il «fattore negativo» costituito dagli immigrati che snazionalizzano l’Italia, la sfruttano, ci sottraggono posti di lavoro e, a lungo andare, finiranno per sommergerci. Tutti luoghi comuni che dimenticano il tempo in cui gli italiani erano gli emigranti (27 milioni in circa 100 anni, secondo i dati ufficiali) e ci lamentavamo che fossero trattati come gli italiani oggi trattano coloro che arrivano nel nostro Paese. Pare quindi che, qualunque sia la tendenza demografica in atto, siamo inclini a vederne sempre gli aspetti negativi più che quelli positivi. Vorremmo perciò offrire qualche dato sull’evoluzione demografica italiana che consenta di esaminare la situazione con maggiore realismo e serenità. Sarà bene però ricordare subito che le previsioni demografiche, soprattutto se a lungo termine (e le modifiche in atto nelle dinamiche della popolazione hanno sempre effetto soltanto dopo molti anni), subiscono spesso ampie smentite dalla storia e perciò vanno prese con cautela. Molte previsioni «scientifiche» si sono infatti rivelate erronee, a livello sia mondiale sia italiano. Piemonte e Liguria, secondo i demografi sarebbero state condannate nei decenni passati a un rapido e progressivo spopolamento, che non si è verificato grazie alla non prevista immigrazione massiccia da altre regioni italiane verso il triangolo industriale di allora. È anche vero che, mentre i demografi parlano sempre di proiezioni (cioè di calcoli sugli scenari futuri ottenuti «proiettando» negli anni a venire i risultati delle tendenze attualmente in corso), il pubblico le interpreta come previsioni, che non sono la stessa cosa e spesso non si verificano.

L’allungamento della vita media e i suoi effetti

Un primo dato, certamente positivo, è quello che riguarda la speranza di vita, che in Italia ha raggiunto livelli insperati. I dati forniti non sono sempre omogenei, ma certamente l’Italia ha raggiunto i vertici della classifica mondiale, preceduta, sembra, dal Giappone. Gli uomini in Italia vivono attualmente in media 78,3 anni, mentre le donne (la cui vita media in tutti i Paesi del mondo è più lunga di quella dei maschi) raggiungono gli 83,8 (1). Secondo uno studio dell’Istat, nel 2050 si potrebbe giungere a una vita media di 86 anni. In un secolo essa si è già quasi raddoppiata, poiché all’inizio del Novecento si aggirava intorno ai 42 anni. Un bambino nato a fine Ottocento in genere riusciva a conoscere soltanto uno dei suoi quattro nonni.

Il dato in sé è certamente positivo. Vuol dire che alla maggioranza degli italiani è consentito di vivere un arco di vita più completo nelle sue diverse stagioni, anche se la scienza non è ancora in grado di dirci quale sarebbe il massimo teorico raggiungibile. Veramente lo si è tentato più volte, ma il traguardo fissato dopo complessi calcoli è stato poi spostato sempre più in là, perché smentito dai numeri reali. Hanno influito su questo allungamento una serie di cause: anzitutto la massiccia riduzione della mortalità infantile (specialmente nel primo anno di vita e, in particolare, nelle prime settimane di vita) che abbassava drammaticamente la durata della vita media. Ma naturalmente se tale fattore spiega l’aumento della vita media, esso non basta a spiegare perché oggi molte più persone raggiungano i 90 anni e perché i centenari si contino ormai a migliaia nella sola Italia. Sono migliorate l’alimentazione, il sistema abitativo, le cure mediche e, nonostante tutte le lamentele di cui è oggetto, anche il sistema sanitario nazionale vi ha contribuito in modo determinante. Tra il 1981 e il 2007 l’età media è cresciuta di oltre 5 anni e la quota di persone con più di 70 anni è aumentata di oltre cinque punti percentuali, superando il 14% (2). La speranza di vita, in Italia come negli altri Paesi avanzati, è aumentata di circa due anni ogni decennio. Se nel 1974 un ventenne poteva attendersi di vivere altri 52 anni, trent’anni dopo un ventenne può contare su altri 59 anni di vita probabile. Ormai un italiano su cinque è ultrasessantacinquenne, e anche i cosiddetti «grandi vecchi» (dagli ottant’anni in poi) rappresentano il 5,3% della popolazione italiana.

A questo allungamento della vita media negli ultimi anni si è accompagnato per fortuna anche un allungamento della vita utile, nel senso che mentre una volta un ottantenne era spesso giudicato un «rudere» e versava di solito in precarie condizioni di salute, oggi tutti conosciamo ottantenni (e novantenni!) ben lucidi, pieni di energie e molto attivi. Ma il sistema pensionistico non è cambiato e così un pensionato si trova espulso dal mondo del lavoro quando ha ancora davanti a sé due o tre decenni di vita spendibile in attività utili per sé e per gli altri. Le conseguenze sociali, psicologiche, familiari ed economiche di questo fatto sono ben note. Per limitarci a quelle economiche, si può dire che esse sono di due tipi: quelle contabili e quelle comportamentali, che derivano cioè da cambiamenti nelle scelte economiche di base; così, nell’offerta di lavoro e nel risparmio, a seguito sia del mutato contesto psicologico, sia delle condizioni individuali: ad esempio, la maggiore speranza di vita (3). Uno dei principali effetti contabili dell’aumento della quota di anziani è la riduzione dell’offerta di lavoro e, quindi, della quota di occupati nella popolazione complessiva.

Ultimamente si nota una leggera ripresa della natalità: nel 2007 la fecondità delle donne residenti in Italia è salita a 1,37 figli per donna (è il dato più alto degli ultimi anni), mentre nel 2006 era di 1,35, anche se è presto per parlare di inversione di tendenza. In Europa nel 2006 la Germania contava 1,34 figli per donna, mentre i posti più bassi nella classifica erano occupati dai Paesi dell’Est: Slovacchia con 1,24 e la Polonia con 1,27. Ma molti dei nuovi nati sono figli di stranieri residenti in Italia, e del resto soltanto l’immigrazione straniera consente alla popolazione italiana di aumentare: nel 2007 siamo cresciuti di 488.000 abitanti, grazie al saldo migratorio positivo di 494.871 unità. Secondo gli studiosi però la crescita della popolazione straniera (che in genere è più giovane e quindi conta una percentuale maggiore di occupati) riuscirà soltanto in parte a mitigare gli effetti negativi dell’invecchiamento. La quota di occupati sulla popolazione continuerà a diminuire. Questo si tradurrà inesorabilmente in una riduzione (valutata tra il 14 e il 20%) del prodotto per abitante nei prossimi quarant’anni. Per compensarlo sarebbe necessario aumentare la produttività del lavoro (cioè quanto ciascuno degli occupati «rimasti» produce in un anno) di circa lo 0,6% all’anno, ma purtroppo in Italia l’aumento della produttività del lavoro negli ultimi quindici anni ha sempre più rallentato e, dal 2000 in poi, si è fermato.

Certo alcuni fattori che ne favoriscono l’aumento potrebbero migliorare, specialmente per quanto riguarda il capitale umano. «In Italia è stato stimato che tra il 1980 e il 2000 l’innalzamento del grado di scolarità degli occupati ha contribuito per circa un quinto alla crescita del valore aggiunto dell’economia» (4). La scuola e l’università, nonostante tutti i loro difetti, hanno perciò contribuito decisamente a migliorare il capitale umano che entra nel mondo del lavoro. E certamente si potrebbero ottenere altri miglioramenti, aumentando, ad esempio, la percentuale di laureati, sperando che all’aumento quantitativo ne corrisponda anche uno qualitativo. La partecipazione al mercato del lavoro dei più anziani invece va costantemente diminuendo; gli anziani occupati cioè sono sempre meno. Nel 1986 era occupato il 40% degli uomini con 15 anni di vita media residua, mentre nel 2006 il tasso di occupazione degli anziani era prossimo allo zero. Questo fatto può dipendere dalle scelte individuali, se gli anziani dispongono di un maggiore reddito che consente loro di non lavorare, ma in buona parte sembra provenire dal nostro sistema pensionistico e dagli incentivi offerti per lasciare il lavoro. In ogni caso chi è anziano oggi non può esser semplicemente confrontato con chi era anziano qualche decennio fa. Il più alto tenore medio di vita e la migliore assistenza sanitaria consentono di giungere all’età avanzata in migliori condizioni di salute. La riduzione dell’occupazione tra gli anziani rende comunque ancora più onerosa, in termini economici, la loro presenza per la società.

L’invecchiamento della popolazione, come si è detto, determina una maggiore scarsità del fattore lavoro rispetto al capitale. In teoria questo dovrebbe far aumentare i salari, rendendo probabile che la generazione più giovane prolunghi la carriera se essa è diventata più conveniente. Ma d’altra parte un guadagno maggiore può anche indurre a consumare maggiore tempo libero, annullando l’effetto precedente, oppure a investire maggiormente nei figli. Tutte scelte che dipendono dalla libertà delle persone, dal loro tenore di vita e dai valori che giudicano prevalenti. Il fenomeno dell’invecchiamento riguarda tutti i Paesi industrializzati, ma investe il nostro in modo particolare, come risulta dal fatto che l’Italia presenta il più alto indice di invecchiamento. Gli altri Paesi dell’Unione Europea particolarmente «vecchi» sono Germania, Grecia e Bulgaria.

L’immigrazione

L’immigrazione può essere vista anzitutto come un fattore che attenua il progressivo invecchiamento della popolazione, sia perché gli immigrati in genere sono più giovani, sia perché sono più fertili degli italiani. Ma le previsioni sono al solito incerte, anche perché gli immigrati di seconda generazione tendono a comportarsi come gli abitanti del Paese che li ospita e quindi ad avere meno figli. Attualmente entrano in Italia tra 350.000 e 400.000 stranieri all’anno, cifre che nessuna statistica aveva previsto neppure cinque o sei anni fa (5).

Ma, secondo i calcoli dell’Istat, l’afflusso attualmente previsto di stranieri non è sufficiente a compensare il declino della quota di popolazione in età di lavoro, dovuto sia al calo delle nascite sia all’aumento della longevità. «Per stabilizzare il rapporto tra la popolazione con 65 anni e più e quella 14-64 anni nel 2050 attorno al 30%, un valore in linea con i livelli correnti, sarebbe necessario un flusso medio annuo di ingressi superiore al milione di persone» (6). Naturalmente questi calcoli fatti con grande accuratezza, ma a tavolino, non tengono conto di altri dati di fatto, come, ad esempio, della presenza massiccia di irregolari o clandestini, che sinora nessun Governo è riuscito a controllare efficacemente, ma che ci sono e creano ricchezza, oltre che una serie di problemi, cominciando da quelli… statistici. Anche l’Istat, come gli altri istituti centrali di statistica europei, calcola, ad esempio, nel Pil l’economia sommersa (in Italia il 20%), ma non «calcola» coloro che la producono, come i lavoratori irregolari, che non vengono inclusi nella popolazione, né quindi neppure nel calcolo del Pil pro capite.

L’Italia, che è rapidamente diventata un Paese di destinazione dei migranti, per adesso registra una presenza di stranieri minore di quella degli altri Paesi europei (7). Secondo i dati dell’Eurostat, nel 2005 la quota di residenti con più di 16 anni nati in un Paese diverso da quello di residenza era del 14% in Germania, del 12% in Francia, dell’11% nel Regno Unito e del 6% in Italia. L’Italia però riesce ad attirare e ad utilizzare meno forza lavoro di stranieri (ma anche di italiani!) con livelli superiori di istruzione. Nel 2005 soltanto un decimo degli stranieri con almeno 25 anni residenti in Italia aveva un titolo di studio universitario, contro una media europea del 30%. In Germania e nel Regno Unito la quota sale a circa il 40% degli immigrati. In quest’ultimo Paese la quota è addirittura superiore a quella di laureati tra i residenti nati nel Paese. Per i più istruiti quindi il nostro Paese è meno attraente. Per gli altri, nonostante le apprensioni di molti italiani, gli studi tendono a dimostrare che la relazione tra il tasso di disoccupazione dei cittadini italiani e la quota di residenti stranieri è sostanzialmente negativa. Gli stranieri presenti cioè non fanno aumentare la disoccupazione italiana, e la manodopera straniera tende ad essere piuttosto complementare di quella italiana che non sostitutiva. Anche per l’Italia le analisi confermano i risultati disponibili per altri Paesi europei: «Una maggiore presenza straniera tenderebbe complessivamente a sostenere l’occupazione dei cittadini residenti» (8). Quando aumenta, ad esempio, la presenza della manodopera straniera, cresce considerevolmente anche l’occupazione femminile, evidentemente perché le italiane possono lasciare alle straniere il lavoro domestico o la cura per gli anziani, rendendosi disponibili per il lavoro esterno.

Se ora si considerano non solo i lavoratori stranieri che arrivano in Italia già formati, ma anche quelli che si formano o si formeranno nel nostro Paese, il problema si sposta sulla capacità formativa del nostro sistema di istruzione. Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione, gli alunni con cittadinanza non italiana sono passati tra l’anno scolastico 1997-98 e quello 2006-07 da 70.000 a oltre 500.000, e costituiscono ora circa il 6% della popolazione scolastica italiana. Gli alunni stranieri promossi sono però meno di quelli italiani, con un divario che nella scuola superiore giunge al 14%. I ragazzi con almeno un genitore straniero che abbandonano la scuola in Italia tra i 15 e i 17 anni sono circa il 12%, mentre i figli di italiani della stessa età che abbandonano sono il 6,9%, cioè circa la metà. Le ricerche poi mostrano che anche quelli che rimangono a scuola acquisiscono un livello sensibilmente inferiore di conoscenze rispetto ai figli di italiani.

Se quindi la qualità e la quantità di «materiale» umano immigrato di cui il nostro Paese è dotato sono basse, il rischio è che le seconde generazioni di lavoratori di origine straniera occupati in Italia acquisiscano un livello di formazione minore di quello necessario per sostituire gli italiani che mancheranno, abbassando il livello generale.

Si tratta di dinamiche delicate, ma reali, non facili da affrontare, e che pongono gravi problemi non soltanto dal lato demografico, ma anche da quello culturale, religioso ed economico, poiché un declino demografico consistente farà sì che l’Unione Europea, già definita un gigante economico e un nano politico, perderà anche i suoi primati economici riducendosi, secondo i più pessimisti, a un museo, visto che il turismo è già uno dei settori più floridi dell’Europa.

Basta pens are alla Germania, il Paese più popoloso dell’Europa dopo la sua riunificazione (1990), dove nel 2007 si è toccato il livello più basso di nascite dal 1945: 680.000, cioè meno delle 700.000 registrate nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, quando quasi tutti gli uomini erano impegnati al fronte e il futuro era drammaticamente incerto.

Qualche conclusione

In base agli elementi indicati sarebbe bene impostare una politica più organica che affronti più razionalmente la realtà attuale, senza parlare subito di «inverno demografico» o di declino inarrestabile. I settori più suscettibili di intervento ci pare siano soprattutto due: quello di sostegno alla famiglia e ai genitori che desiderano avere più figli, assicurando loro reali assegni familiari (analogamente a quanto già si è fatto all’estero con notevoli risultati, basti pensare alla Svezia e alla Francia) e servizi per le madri con bambini piccoli (nidi d’infanzia, scuole materne, servizi di assistenza ecc.) in modo che l’avere più o meno figli sia effettivamente una scelta libera e non dettata dalla necessità.

In secondo luogo occorre affrontare il fenomeno dell’emigrazione in modo strutturale e non soltanto come un’emergenza. È ovvio che si tratta di un fenomeno da gestire, ma ispirandosi a quanto da decenni fanno i Paesi tradizionalmente meta di immigrazione. Occorre quindi compiere sforzi di reale integrazione specialmente in materia di istruzione. In Italia, come si è detto, il rendimento degli stranieri a scuola è nettamente inferiore a quello degli alunni italiani, mentre in Paesi come Canada e Australia il rendimento più alto a scuola è proprio quello dei figli degli immigrati. Noi speriamo ancora che, passata l’emergenza, gli immigrati torneranno a casa loro, come hanno fatto i croati quando è finita la guerra nel loro Paese. Invece: «Se dimostriamo di puntare a formare “nuovi italiani”, diventeremo automaticamente attraenti per un certo tipo di immigrazione qualificata e potremo permetterci anche di selezionare all’ingresso» (9). Puntando su questi due elementi — aumento della natalità e apertura all’immigrazione —, la Gran Bretagna si avvia a diventare il Paese più popoloso d’Europa, superando la Francia e poi anche la Germania. Sia l’invecchiamento della popolazione, sia la maggiore presenza di stranieri potrebbero stimolare i comportamenti individuali e condurre a scelte con effetti positivi sull’intero Paese. L’aumento della speranza di vita può stimolare l’accumulazione del capitale umano, così come la presenza straniera può favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Occorre però una maggiore fiducia nel futuro e una maggiore apertura alla vita se si vogliono aumentare i tassi di natalità: le ragioni degli economisti o dei demografi non sono mai quelle dei genitori quando decidono di avere un altro figlio.

Dal punto di vista economico è necessario sfruttare i margini ancora inutilizzati della forza lavoro, in particolare femminile, e quelli che si renderanno disponibili per effetto dell’allungamento della vita media e del miglioramento delle condizioni di salute nell’età avanzata. L’età di pensionamento fissata per legge andrà certamente spostata, o almeno resa molto più elastica, con adeguati incentivi perché non ci si ritiri troppo presto. Ma l’Italia deve recuperare anche la qualità dei fattori della produzione e la capacità di ampliarne in modo duraturo l’efficienza complessiva. Punti sui quali il nostro Paese è in ritardo rispetto alle altre nazioni industrializzate. La produttività ristagna e questo viene attribuito ai troppi vincoli esistenti per il corretto funzionamento dei mercati, che ostacolano la riallocazione delle risorse produttive verso impieghi più redditizi. Ci sono ampi margini di miglioramento possibile nel settore del capitale umano, migliorando, come si è detto, il sistema di istruzione: nel 2006 la quota di popolazione in età da lavoro con un titolo di istruzione universitario era del 13%, cioè la metà della media dei Paesi industrializzati; tra i più giovani la quota sale al 17%, contro il 33% medio dei Paesi sviluppati. Si possono introdurre migliori meccanismi per valorizzare il merito e premiare i risultati individuali.

Purtroppo le politiche demografiche hanno effetto soltanto a lungo termine e l’Italia, preoccupata delle emergenze immediate, non si è mai dimostrata molto capace di pianificare il proprio futuro. Speriamo che questa volta l’amore per la famiglia e per il proprio Paese aiutino gli italiani a provvedere per tempo.

Il Papa ha parlato innumerevoli volte della famiglia e delle sue problematiche, compresa quella dell’evoluzione demografica. A lui hanno fatto eco moltissimi vescovi e intere conferenze episcopali (10), i cui appelli spesso sono oggetto di scarsa attenzione perché ritenuti «ovvi».

Benedetto XVI ha parlato del problema demografico anche nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2009), sottolineando che le nuove potenze economiche hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all’elevato numero dei loro abitanti, e che «tra le nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo» (11). La popolazione è una ricchezza e non un fattore di povertà, tanto più che la lotta contro la povertà produce come effetto anche un maggiore equilibrio demografico, rallentando la crescita disordinata e troppo rapida che alcuni Paesi avevano conosciuto nei decenni passati. In Europa il problema è soprattutto quello di assicurare il ricambio generazionale, garantendo un maggiore equilibrio tra nascite e morti, un equilibrio non facile da ristabilire, come si è detto.

I dati da noi presentati ci ricordano che la situazione è inedita e va affrontata adeguatamente. La maggior ricchezza di un Paese è certamente quello che gli economisti chiamano il suo «capitale umano», al quale non si può pensare prescindendo dalla famiglia. Quest’ultima, pur con tutti i suoi problemi e le sue debolezze, rimane un aspetto fondamentale e più intimo dell’essere umano, la cui avventura, senza di essa, perderebbe una dimensione essenziale. La Chiesa, da sempre, ne ha fatto oggetto di particolarissima attenzione, e non si stanca neppure oggi di ricordare che la sua difesa coincide con la difesa dell’intera società e del suo futuro.

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1 I dati che citeremo, salvo indicazione di altra fonte, sono desunti da: ISTAT. Annuario statistico italiano - 2008, Roma, 2008. Secondo una ricerca della rivista medica The Lancet, gli italiani sarebbero i più longevi d’Europa, con 80,4 anni di vita media per gli uomini e ben 85,4 per le donne.

2 Cfr I. Visco, Invecchiamento della popolazione, immigrazione, crescita economica, lezione tenuta dal Vicedirettore Generale della Banca d’Italia alla Società Italiana degli Economisti, Università di Perugia, 25 ottobre 2008, a cura di Bankitalia, 3. A questo testo faremo spesso riferimento.

3 Cfr ivi, 5.

4 Ivi, 8.

5 Naturalmente parliamo a livello nazionale, perché molti piccoli Comuni restano esclusi da questa compensazione, in quanto non attraggono stranieri, e quindi per molti di essi situati, ad esempio, su montagne non toccate dal turismo, si profila un drammatico crollo demografico, che conduce allo spopolamento e all’abbandono di intere zone che si inselvatichiscono, perché non più curate dall’uomo e a condizioni di vita molto disagiate per coloro che vi rimangono. Quando le soglie minime di abitanti non sono più raggiunte, saltano tutti i servizi sociali, cominciando dall’assistenza sanitaria sino alla presenza del parroco.

6 Ivi, 15.

7 Cfr M. Simone, «Il dossier statistico sull’immigrazione», in Civ. Catt. 2008 IV 395-401.

8 I. Visco, «Invecchiamento della popolazione…», cit., 17.

9 Cfr «Rivoluzione demografica da gestire», intervista a F. BILLARI, in Corriere della Sera, 21 settembre 2008, Focu s, 11.

10 Cfr ad esempio D. Tettamanzi, «Famiglia, comunica la tua fede», in Il Regno -Documenti 52 (2007) 482-487. Lo stesso numero della rivista riporta subito dopo (pp. 488-496) un interessante parere esplorativo, intitolato La famiglia e l’evoluzione demografica, del Comitato economico e sociale europeo, redatto in risposta a una richiesta di parere da parte della presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione Europea.

11 BENEDETTO XVI, «Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace», in Civ. Catt. 2009 I 5.

© La Civiltà Cattolica 2009 I 239-248 quaderno 3807