È guerra quella scatenata la sera di venerdì 13 novembre a Parigi in diversi luoghi del divertimento e del tempo libero: una partita di calcio, un concerto rock, alcuni ristoranti, bar e fast-food, simboli di spensierata gaiezza. Non ha esitato ad ammetterlo il Presidente Hollande, parlando alla nazione in diretta televisiva dall’Eliseo ieri mattina: “Quello che è successo è un atto di guerra commesso da un’armata jiahdista contro i valori che noi difendiamo e che siamo: un Paese libero”. Almeno otto terroristi - tutti morti secondo le autorità francesi, fra cui sei suicidi con cinture esplosive - hanno ucciso 128 persone e ne hanno ferito oltre 250, di cui quasi una metà versano in gravi condizioni. L’Isis ha rivendicato le stragi compiute definendole una “vendetta per la Siria”, in cui l’aviazione francese sta bombardando le basi jihadiste. Decretando lo stato d’emergenza e proclamando tre giorni di lutto nazionale, Hollande ha aggiunto: “La Francia è stata aggredita in modo vergognoso e violento, quindi sarà spietata contro la barbarie dello Stato islamico”, agendo “con tutti i mezzi, sul fronte interno ed esterno, in concertazione con gli alleati”. Il bilancio più grave, con oltre ottanta morti e un centinaio di feriti, si riferisce a quanto avvenuto nel locale notturno Le Bataclan, dove era in corso un concerto della band americana Eagles of Death Metal: per una tragica ironia della sorte, le “aquile della morte metallica” si sono materializzate in tre o quattro giovani a volto scoperto che sparavano con spaventosa freddezza in tutte le direzioni gridando “Allah è grande”. L’orrore di Charlie Hebdo si è ripresentato in proporzioni tragicamente più ampie. Quanto detto allora da più parti ritorna come in un crescendo drammatico, spingendo tutti noi a riflettere su almeno tre domande: chi e perché ha voluto colpire così duramente il Paese portabandiera dell’ideale trinomio “liberté, égalité et fraternité”? Che cosa viene chiesto a tutti noi per imparare a convivere con la vulnerabilità? Come potremo esorcizzare la paura per andare avanti a testa alta, per il bene di tutti?
Alla prima domanda si risponde con immediatezza che i responsabili degli attentati sono terroristi di matrice islamica. È una risposta gravida di conseguenze: che si tratti di terroristi non c’è dubbio, malati d’ideologia violenta e spregiudicata; che questo veleno possa ricondursi all’Islam è invece problematico e necessita di un doveroso approfondimento. Sebbene nella storia l’espansione del mondo islamico sia avvenuta prevalentemente attraverso forme violente, in particolare mediante la “jihad” intesa come guerra santa, non va dimenticato che il significato originario del termine riguarda il buon combattimento della fede che ognuno deve vivere con se stesso per superare egoismi e avidità e impegnarsi al servizio di Dio e del prossimo. Va dunque affermato che l’Islam rivendicato dagli uomini del Califfato è una tragica parodia dell’ispirazione religiosa che anima milioni di fedeli musulmani nel mondo e che ha prodotto tante storie di impegno personale e di dedizione generosa agli altri. Se chi riducesse il cristianesimo alla violenza delle crociate sbaglierebbe, lo stesso va detto per chi identificasse la religione coranica con la follia ideologica cieca e spregiudicata di questi gruppi d’assalto fanatici e distruttivi per sé e per gli altri. Sarebbe quanto mai importante che questa chiarificazione giungesse al mondo intero dalle massime autorità dottrinali islamiche, perché - se è vero che l’Islam come tale non ha un’unica autorità a rappresentarlo su scala mondiale - nondimeno singole scuole teologiche e figure autorevoli di pensiero possono incidere sull’opinione pubblica e presentare al mondo il volto veramente religioso di chi alimenta la sua fede dalla lettura del Corano.
Una seconda considerazione riguarda tutti noi: ciò che già l’11 settembre 2001 aveva insegnato con l’inatteso attacco alle Torri Gemelle a New York e che ulteriori tragici attentati hanno ricordato, è che siamo tutti esposti alla violenza, tutti vulnerabili perché bersaglio possibile di una logica che non ha nulla di razionale e di prevedibile. Questo senso di vulnerabilità accomuna oramai gli abitanti del “villaggio globale”, in specie quelli dell’Occidente, bersaglio - secondo la nota tesi di Samuel Huntington - dello “scontro delle civiltà” proprio degli inizi del Terzo Millennio. Il senso di vulnerabilità può produrre un duplice, opposto atteggiamento: quello della paura e della depressione rinunciataria, e quello attivo della prevenzione e dell’attivazione dei giusti strumenti di difesa. Va qui sottolineata l’importanza di una politica internazionale che privilegi gli aiuti ai Paesi di provenienza dei flussi migratori per sostenerne lo sviluppo e sradicare sul nascere tentazioni fondamentaliste e violente. La paura, però, si vince solo con un impegno attivo e generoso per gli altri, che coinvolga passione e conoscenza. Ciò che occorre, allora - ed è la terza considerazione che gli eventi tragici di Parigi suscitano - è uno sforzo educativo radicale, che prepari i giovani a essere protagonisti di un domani di pace, rifiutando ogni tentazione fondamentalista e ogni ricorso possibile alla violenza. Occorre promuovere un’opinione pubblica mondiale decisamente orientata a favorire dappertutto la ricerca della pace e la scelta delle vie del dialogo e della riconciliazione. Solo disinnescando le potenziali radici dell’odio il domani potrà essere più sereno per tutti. La sfida rappresentata dagli eventi laceranti di Parigi è, insomma, quella dell’educazione alla pace e alla non violenza, al dialogo e all’impegno per la giustizia, come uniche vie per la soluzione dei conflitti e per una prevenzione che lavori in profondità nelle coscienze. Un incontro delle religioni in questo campo è non solo auspicabile, ma necessario e urgente, per testimoniare a tutti e senza ombre di equivoco che chi commette violenza in nome di Dio offende Dio e solo chi lavora per il bene comune con generosità e disinteresse, con umiltà e gioia, è costruttore e garante di un domani migliore per tutti.
(Il testo è stato pubblicato su “Il Sole 24 Ore” di domenica 15 novembre 2015, p. 10)