di Francesco D’Agostino

ROMA, domenica, 29 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Per la rubrica di bioetica riportiamo la riflessione sviluppata dal professor Francesco D’Agostino nel corso del simposio su “Carità, giustizia e pace : una sfida per l’evangelizzazione”, organizzato a Roma dalla Comunità dell’Emmanuele, Fidesco e l’Istituto Pierre Goursat (IUPG), in collaborazione con il Pontificio Istituto Redemptor Hominis, e l’Area Internazionale di Ricerca sulla Dottrina sociale della Chiesa.

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Nell’uso linguistico ordinario ci si limita a vedere nella biopolitica la mera traduzione in leggi, regolamenti, norme dei principi dell’etica medica. Il termine, però, ha un’accezione ben più rilevante: esso indica il fenomeno –tipicamente moderno- della totale presa in carico e della gestione integrale della vita biologica da parte del potere. Nel contesto di questa discorso potere non è riferito solo al soggetto Stato, ma sta piuttosto ad indicare ogni prassi collettiva di carattere autoreferenziale, che quindi giustifica se stessa solo in quanto prassi e non assumendo come proprio doveroso principio di riferimento l’oggettività del reale e la sua intrinseca normatività (secondo il paradigma classico del giusnaturalismo, in tutte le sue diverse varianti). La biopolitica è quindi quel paradigma –tipicamente moderno- che ritiene l’humanitas non un presupposto, ma un prodotto della prassi.

L’orizzonte della biopolitica è pertanto ben più ampio di quello della bioetica –nell’ accezione più comune del concetto. Uno sguardo storicamente attento ci ha convinto che tutti quelli che sono stati definiti gli “enigmi” (1) che il XX secolo ha posto alla ragione –e in particolare i grandi movimenti totalitari e l’ “invenzione” da essi operata dei campi di concentramento- possono ricevere spiegazioni adeguate solo se si tematizza il carattere biopolitico dei loro fondamenti ideologici. Come ci ha spiegato Hannah Arendt, nel campo di concentramento il soggetto è spogliato di ogni statuto personale e politico e la sua identità è ridotta alla nuda vita, è ridotto cioè a quella figura che nell’ antichità romana era qualificata con l’espressione homo sacer, colui la cui identità umana era a tal punto negata e misconosciuta che poteva essere ucciso da chiunque senza che l’atto venisse qualificato come omicidio (e che, proprio per questo, non poteva essere messo a morte secondo forme rituali, perché in tal modo se ne sarebbe riconosciuta –sia pure nella forma terribile del sacrificio- l’umanità). Scrive giustamente Agamben: “La domanda corretta rispetto all’orrore commesso nei campi non è quella che chiede ipocriticamente come sia stato possibile commettere delitti tanto atroci rispetto a degli esseri umani; più onesto e soprattutto più utile sarebbe indagare attentamente attraverso quali procedure giuridiche e quali dispositivi politici degli esseri umani abbiano potuto essere così integralmente privati dei loro diritti e delle loro prerogative, fino a che commettere nei loro confronti qualsiasi atto non apparisse più come un delitto (a questo punto, infatti, tutto era veramente divenuto possibile)” (2). Sarebbe un macroscopico errore ritenere che la sconfitta del nazismo o l’ implosione dello stalinismo e del maoismo abbiano comportato l’incrinarsi del modello biopolitico e confortarci reciprocamente ripetendoci che i campi oggi non sono più possibili. Dovremmo piuttosto prima riconoscere che non sono stati i totalitarismi a produrre la biopolitica e che è questa che li ha preceduti, essendo piuttosto una condizione di possibilità del loro affermarsi (se o no esclusiva, è questione tutta da approfondire), e poi prendere atto che, tramontati i totalitarismi, l’istanza biopolitica, già vivacissima prima del loro sorgere, ha potuto continuare a svilupparsi prendendo altre strade, di cui la cultura oggi dominante stenta a acquisire consapevolezza. Quello che è avvenuto nei campi potrebbe oggi mutatis mutandis avvenire –e secondo autorevoli opinioni già di fatto avviene- in istituti e laboratori, nei quali, nel nome di vaghi appelli al futuro –ma è tipico di ogni ideologia, anche e soprattutto di quelle totalitarie, parlare in nome del tempo che verrà- scienziati e ricercatori operano sulla nuda vita (umana, animale ed ibrida) manipolandola.

La pervasività della biopolitica è inquietante. Limitiamoci ad alcuni, pochi esempi.

La legalizzazione pressoché planetaria dell’aborto, avvenuta non casualmente in un arco temporale estremamente ridotto e caratterizzato almeno in Occidente dal consolidarsi del modello democratico, è segno inequivocabile della forza con cui il paradigma biopolitico pretende di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale. L’aborto, come di recente e bene ha mostrato Luc Boltansky (3), è pratica comune nella storia e in genere tollerata in tutte le società da noi conosciute; ma solo in un contesto biopolitico consolidato esso ha acquisito –per lo più in un arco di tempo molto breve- un’inedita rappresentazione simbolica, elaborando la pretesa di essere riconosciuto alla stregua di un diritto fondamentale. Ne è derivata un’alterazione della rappresentazione del bios, di cui ancora dobbiamo misurare tutte le conseguenze. Ciò che per ora sta sotto gli occhi di tutti è la destrutturazione del linguaggio ordinario, che non è più in grado di nominare il nascituro se non come un (generico) “prodotto del concepimento” e la sua intenzionale soppressione se non come “interruzione volontaria della gravidanza”.

Secondo esempio plateale del consolidarsi del paradigma biopolitico: l’alterazione dell’equilibrio alla nascita tra i sessi. Alludo al fenomeno delle missing women, prodotto dagli aborti selettivi in particolare in India e in Cina e che sembra ormai attestarsi sull’incredibile numero di 100 milioni di donne non nate (4). Esso costituisce un autentico incubo demografico, di cui l’ India ha preso coscienza già da alcuni anni e la Cina solo negli ultimi mesi, quando già però nel paese il rapporto tra neonati maschi e neonate femmine si è assestato sulla cifra del 119% (con punte del 136%) su di una media internazionale del 107%. I rimedi che questi paesi (da ultima la Cina) hanno assunto vanno dalla repressione penale degli aborti selettivi e giungono fino alla proibizione di qualsiasi indagine prenatale volta a individuare il sesso dei nascituri. Ma sono tutti rimedi palesemente inefficaci, dato che è a monte, nelle rigidissime legislazioni biopolitiche di pianificazione familiare (perfezionate dal governo cinese nel 1979), che va individuata la radice del problema.

Viene correttamente considerato tra i massimi problemi bioetici quello delle pratiche di procreazione assistita responsabili della formazione di embrioni soprannumerari congelati, destinati a non essere mai impiantati. E’ significativo rilevare come, al contrario, in un orizzonte biopolitico questo specifico problema stenti addirittura ad essere percepito: il Regno Unito ordina la periodica distruzione di questi embrioni, indipendentemente da qualsiasi verifica della loro vitalità e senza che si possa addurre una giustificazione –se non per l’ appunto politica- di questa prassi.

E ancora: si pensi alle forti tensioni a favore della legalizzazione dell’eutanasia che caratterizzano pressoché tutti i paesi occidentali e che verosimilmente sono destinate ad estendersi al resto del mondo. Come l’aborto si è trasformato, da decisione tragica e personalissima di alcune donne, in una pratica sociale di regolamentazione delle nascite, così l’ eutanasia si è trasformata da atto omicida eccezionale, estremo, tragico e pietoso in una pratica di gestione burocratica e biopolitica della fine della vi ta umana. In apparenza, i fautori dell’eutanasia vogliono semplicemente legalizzare quello che essi chiamano il “suicidio assistito” e poiché questa espressione può apparire troppo ruvida, ecco l’invenzione di opportuni eufemismi. Non so se merita più biasimo o più sarcasmo il titolo del disegno di legge, Norme per regolamentare l’interruzione volontaria della sopravvivenza, presentato in Parlamento nella scorsa legislatura a firma di diversi senatori, perché pur nella stravaganza dell’acronimo utilizzato (IVS, palese ricalco dell’ormai consolidato IVG) esso ci aiuta a capire la sostanza biopolitica della questione della fine della vita umana. Il fatto che si cerchi di introdurre l’espressione interruzione della sopravvivenza, per qualificare la morte, indica l’ incapacità conclamata del paradigma biopolitico di pensare alla vita, come ad un in sé: nella logica legalistica della biopolitica gli uomini dovrebbero evidentemente cessare di essere pensati e di pensare se stesso come i viventi e dovrebbero piuttosto reinterpretarsi come coloro che sopravvivono solo in ragione della loro appartenenza ad un contesto di accettazione sociale della loro individuale identità biologica. Nella realtà biopolitica effettuale, comunque, il tema dell’eutanasia come suicidio assistito è ormai obsoleto; in Olanda il 31% dei pediatri sopprime –sulla base del c.d. Protocollo di Groningen- i neonati malformati, oltre tutto senza acquisire il consenso dei genitori; in Svizzera, lo scorso febbraio, la Corte Suprema ha stabilito che il malato mentale ha un diritto costituzionale ad essere soppresso.

(…) La linea sulla quale è possibile attestarsi non è certo quella di una ingenua ritirata, ma non può nemmeno esser quella di un attacco baldanzoso. Probabilmente, il compito che aspetta la nostra generazione è quello prima di aprire gli occhi sulla realtà di un potere pervasivo e impersonale, che, assimilando corpo biologico e corpo politico, toglie al primo la sua identità e al secondo la sua dignità, e poi di negarsi ad ogni forma di omologazione biopolitica: un atteggiamento che Melville, profeticamente, ha attribuito a Bartleby lo scrivano, al suo cortese, dimesso, apparentemente inoffensivo, ma nello stesso tempo tenace e irremovibile “I would prefer not to”, preferirei di no. Alla tradizione cristiana delle origini non è sconosciuto questo atteggiamento: l’ apparente ritrosia, che faceva definire i credenti in Cristo lucifugi viri e li portava ad essere misconosciuti come socialmente “pericolosi”, ha sempre costituito una straordinaria riserva di senso contro la ricorrente tentazione di procedere ad indebite assolutizzazioni delle realtà mondane. Non è la mera inerzia la chiave interpretativa né del personaggio di Melville, né della resistenza che qui viene proposta contro il paradigma biopolitico; è piuttosto la corrosività di un atteggiamento che già con il suo semplice fermo esibirsi e manifestarsi può aprire il lungo e complesso processo che potrà –forse!- portare a smascherare le illusioni potestative di qualsiasi volontà biopolitica.

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1 ) F. Furet, L’Allemagne naziste et le génocide juif, Paris 1985.

2) G. Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 2005, p. 191.

3 ) Cfr. La condition foetale, Paris, Gallimard, 2004, tr. it., Milano,Feltrinelli 2007.

4 ) Il fenomeno è stato individuato e denunciato per primo da Amartya Sen -di cui si veda Missing women – revisited, in “British Medical Journal”  2003, 1297-1298.