Conversione / Pixabay CC0 - geralt, Public Domain

Tutti invocano il cambiamento, ma cos'è?

Cambiare per spostare semplicemente l’indice del potere da un gruppo all’altro non risolve il problema

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Tutti ne parlano. In campo politico se ne fa un uso distorto e continuo. Conoscete qualcuno che non sventoli la bandiera del cambiamento? La cosa che dispiace è che sia diventato un ritornello cantato a turno da chi sta all’opposizione di un certo sistema. Brexit ci ha aperto gli occhi. In questi giorni il panorama inglese ha perso la sua lucidità; il suo aplomb storico è stato scheggiato; la fama di popolo aperto e tollerante, pur tradizionalmente legato alla sua storia attorno alla famiglia reale, è stata profondamente appannata.
Chi ha perso il referendum nel nome del cambiamento, chiedendo l’uscita dell’Europa, è stato preso alla sprovvista, probabilmente si sarebbe accontentato di arrivare ad un punto dalla vittoria. Non era pronto a tale evento e di riflesso nemmeno ad un eventuale governo del Paese. Chi invece ha perso perché ha chiesto la permanenza nel vecchio continente, sempre comunque per accelerare un vero cambiamento strutturale, economico e sociale del Regno Unito, fa fatica ora a chiedere l’attivazione dell’articolo 50 del trattato di Lisbona. Strumento normativo che regola in due anni i passaggi necessari, per accompagnare fuori dall’Europa il Paese titolato a farne richiesta.
Un risultato referendario giocato quindi, da ambo le parti, in nome del tanto sospirato cambiamento. Ma quale è il significato di quest’ultimo? Si potrebbe pensare ad un mutamento generale di un sistema politico, economico e sociale; la sua trasformazione; le tante variazioni che ne conseguono. Va bene! È il gioco della democrazia. Bisogna però stare attenti, perché cambiare per spostare semplicemente l’indice del potere da un gruppo all’altro non risolve il problema, né attenua l’indignazione, la sofferenza, la disaffezione, le ingiustizie che gravano sulla gente.
Cambiare paradossalmente significa unire, almeno in una concezione cristiana della vita sociale o quantomeno tentare di allargare lo spazio dell’incontro e della condivisione, non certo con accordi di vecchia memoria, ma con la necessità di lavorare per unificare la famiglia umana di cui tutti facciamo parte. Quando si chiede di inserire le radici cristiane nella costituzione Europea non significa invadere un campo laico o accarezzare forme telematiche per nuove crociate, ma semplicemente mettere dei paletti ben fermi. Punti essenziali per consentire alle varie articolazioni dell’apparato europeo di lavorare con i cittadini, per diffondere il valore di una visione globale della vita degli uomini, a cominciare dal Paese in cui si vive.
Nessuno può smentire la vocazione universale del cristianesimo che tende all’unità non certo vincolata, ma quale conquista della forza morale e culturale della libertà dei popoli. Al punto 432 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa si legge: ”Il messaggio cristiano offre una visione universale della vita degli uomini e dei popoli sulla terra, che fa comprendere l’unità della famiglia umana”. È sempre nel Compendio della DSC che viene evidenziato come “il messaggio cristiano da sempre è stato decisivo per far capire all’umanità che i popoli tendono ad unirsi non solo in ragione di forme di organizzazione, di vicende politiche, di progetti economici o in nome di un internazionalismo astratto e ideologico, ma perché liberamente si orientano verso la cooperazione, consapevoli di essere membra vive di una comunità mondiale”.
Di conseguenza, nonostante le resistenze, anche per giochi di potere interni ed esterni, esisterà sempre “l’esigenza obiettiva all’attuazione, in grado sufficiente, del bene comune universale, e cioè del bene comune dell’intera famiglia umana”. Non può che essere così in Europa e nei singoli Stati di appartenenza. Si dovrebbe tenere fermo il concetto dell’unità, quale principio assoluto del vero cambiamento. Unità vera, sostanziale, comunione tra genti, pur diversi, ma “complici dichiarati” nel costruire il bene comune. Cambiare significa anche avere una direzione, come in modo molto chiaro ha scritto in questi giorni Mauro Magari sul Corriere della Sera.
Non può alcun tipo di populismo costruire un sentiero sicuro verso l’unità dei popoli, ma non può farlo nemmeno chi vorrebbe “far propria” la trasformazione naturale delle cose e di quel cambiamento che spesso “accade” e “ci viene addosso”, senza l’ombra di una guida, una mediazione, una idea gigante. Un archetipo capace di stupire nella sostanza e non solo nella forma, l’ansia di rinnovamento che c’è in ogni comunità.
Bisogna volare alto, ma per farlo diventa improcrastinabile uscire dai patti di comparaggio; dalle lotte di potere fino a se stesso; da una visione miope della storia, nel tempo in cui, sottolineava sempre il giornalista del Corriere, il terrorismo islamico costruisce uno Stato; la Cina rafforza il suo centralismo; la crisi finanziaria investe l’intero Paese; le grandi migrazioni non vengono comprese nella loro grande portata politica, economica e sociale; alcuni Paesi alzano nuovi muri, nonostante i proclami di libertà e di integrazione.
Il livello della scienza di governo forse, in generale, si è abbassato, perché privo di idealità e di lunghe prospettive, con una vocazione prettamente algebrica. Cambiare quindi non è dividere o sorpassare l’altro per marcarne comunque le distanze. Fino a quando le misure adottate risponderanno a questi criteri, i popoli avranno una serie di contraccolpi da gestire sempre più difficoltosi, anche se nessuno potrà mai fermare la visione universale che spinge i popoli a tendere verso quell’unità che è parte integrante dell’essere umanità. Così chiude il punto della DSC sopra citato: “L’unità della famiglia umana è esistita in ogni tempo, giacché essa ha come membri gli esseri umani che sono tutti uguali per dignità naturale”. Il cambiamento andrà sempre in questa direzione.
Infine è bene ricordare che nel Vangelo cambiamento significa “conversione”, in greco metanoia ( cambiamento di mente). Qui il valore del suo significato evangelico rafforza il concetto di unità della famiglia umana. Una solida comunione tra persone e mondi  diversi si realizza infatti con l’apertura del cuore dell’uomo nuovo in Cristo e con una mente pronta a spalancarsi a spazi e visioni prima mai considerati. Mons. Di Bruno aggiunge con poche parole che cambiamento “è passare dalla mente di Dio alla mente di Cristo; dalla Parola Antica di Dio alla Parola nuova di Cristo; dall’Alleanza fondata sulla Legge a quella costruita sul Vangelo; dall’aspersione del sangue di una capra a bere il sangue di Cristo che è sangue di Dio”. Questo è il cambiamento evangelico, la conversione, la metanoia.

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Egidio Chiarella

Egidio Chiarella, pubblicista-giornalista, ha fatto parte dell'Ufficio Legislativo e rapporti con il Parlamento del Ministero dell'Istruzione, a Roma. E’ stato docente di ruolo di Lettere presso vari istituti secondari di I e II grado a Lamezia Terme (Calabria). Dal 1999 al 2010 è stato anche Consigliere della Regione Calabria. Ha conseguito la laurea in Materie Letterarie con una tesi sulla Storia delle Tradizioni popolari presso l’Università degli Studi di Messina (Sicilia). E’ autore del romanzo "La nuova primavera dei giovani" e del saggio “Sui Sentieri del vecchio Gesù”, nato su ZENIT e base ideale per incontri e dibattiti in ambienti laici e religiosi. L'ultimo suo lavoro editoriale si intitola "Luci di verità In rete" Editrice Tau - Analisi di tweet sapienziali del teologo mons. Costantino Di Bruno. Conduce su Tele Padre Pio la rubrica culturale - religiosa "Troppa terra e poco cielo".

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