La pillola di Erode (I)

di Cesare Cavoni*

ROMA, domenica, 30 agosto 2009 (ZENIT.org).- La pillola abortiva RU486 resta sotto i riflettori dei media e nel dibattito politico dopo la sua recente approvazione da parte dell’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco.

Da settembre, salvo sorprese, le donne che decideranno di sottoporsi ad aborto potranno quindi scegliere attraverso quale metodo farlo; se attraverso la via chirurgica o per mezzo dell’RU486.

Di fatto questa pillola, a cui se ne associa un’altra, antiulcera, che provoca l’espulsione del feto-figlio, sembra contrastare nettamente con la legge 194 sull’aborto che prevede il ricovero della donna. Nel caso dell’RU486, infatti, non si sa con certezza quando si verificherà l’aborto, se in tre o più giorni. Se la donna decide di lasciare l’ospedale prima dell’aborto nessuno può obbligarla a restare. Ecco quindi aggirata la legge 194 ed ecco riportato l’aborto in una dimensione, privata, di estrema solitudine e di rischio sia fisico che psicologico.

Ma va detto anche che nel nome della terapia, l’RU 486 porta davanti agli occhi di tutti un elemento, peraltro poco o nulla rilevato, come una specie di lettera rubata, a nostro avviso terrificante: per la prima volta constatiamo la messa a punto di un farmaco il cui obiettivo non è di curare una malattia, bensì di porre fine ad una vita umana. O, meglio, sembrerebbe che la gravidanza venga annoverata, più o meno esplicitamente nel sentire comune, come una patologia, nella misura in cui una donna, non scegliendola, è costretta a subirla. L’aborto, allora, potrebbe configurarsi, secondo questa visione, come la liberazione da una malattia o, più propriamente, da un male di vivere.

Un farmaco è, tuttavia, per definizione un mezzo che viene utilizzato per lenire, se non per debellare, una malattia.

L’altra parola magica che si lega a questo concetto è sperimentazione.  E, nel caso specifico dell’RU 486, da decenni si sperimentano sulle donne farmaci tossici di cui non si conoscono o non si percepiscono fino in fondo i rischi a breve, medio e lungo termine. Di norma, si può agire così quando non vi siano ragionevoli alternative, quando cioè non usare una terapia sperimentale avrebbe come unica alternativa la morte della persona. Ma in questo caso – non trattandosi di malattia – il termine “sperimentale” cade per definizione. 

Un altro motivo che ci porta a raccontarvi qualcosa sull’RU 486 consiste in un secondo elemento, anch’esso storico e inedito: a consentire ricerche e sperimentazioni, a decretare la necessità che occorresse investire su questa molecola, è stata l’azione tempestiva e anticipatrice dei mezzi di comunicazione. Senza la stampa, l’RU 486 sarebbe rimasta nei cassetti dei ricercatori. Senza i media non avremmo assistito ad alcuna sperimentazione. Senza la stampa i Governi (specie quello americano e quello francese) non sarebbero mai intervenuti nella vicenda. Senza i titoli a nove colonne, che andavano annunciando una rivoluzione farmacologica senza pari in seguito all’invenzione degli anticoncezionali, i ricercatori che posero mano all’RU 486 non avrebbero probabilmente avuto credito per proseguire nelle proprie ricerche.

Sono stati i media in generale, infatti – prima ancora che vi fossero evidenze scientifiche ragguardevoli, che si sapesse a cosa mirasse la nuova pillola, e che gli stessi ricercatori si entusiasmassero per le proprie scoperte -, a proporre qualcosa che non conoscevano, e che nessuno conosceva, come una rivoluzione positiva della quale la società avrebbe avuto bisogno e presto avrebbe fruito.

Una ragione ulteriore a fondamento della riflessione risiede nel panorama in certo modo “sconsolante” dei media, soprattutto italiani, che sui rischi legati agli effetti collaterali di questa sostanza hanno quasi sempre taciuto o tirato via. Ecco perché l’analisi parte dai media italiani, i quali avrebbero dovuto ricostruire la storia di questo farmaco, metterne in evidenza pregi e difetti e non sposare tesi precostituite senza, peraltro, degnarsi di vagliare appropriatamente una materia così complessa e delicata, riguardante non solo la salute delle donne ma anche i cambiamenti a cui la nostra società viene sottoposta attraverso il controllo della generazione umana. In Italia, con l’eccezione dei quotidiani Il Foglio e Avvenire, era ed è impossibile far arrivare all’opinione pubblica un’informazione corretta e articolata sull’RU 486.

Infine, un ultimo motivo. Il destino dell’RU 486 non è affatto compiuto. E questo sia nel caso essa sparisca dalla faccia della terra sia che venga adottata da tutte le donne del mondo. La ragione è semplice, anche se non immediatamente percepibile: il suo obiettivo primario non era, forse non è mai stato, quello di favorire un aborto farmacologico, considerato meno invasivo; al contrario, fin dalle prime ricerche sugli ormoni, era addirittura, ed è tuttora, quello di giungere alla messa a punto di una pillola che agisca prima della contraccezione e prima di un aborto, in sostanza permettendo alle donne di inibire il ciclo mestruale e di riprenderlo solo nel momento in cui scelgano di avere un figlio.

Sarebbe interessante e auspicabile, oltre che necessario, che qualcuno, prima o poi, decidesse di scrivere una storia della contraccezione.  Una storia “non guidata”, nella sua compilazione, da interessi se non esclusivamente scientifici. Ne uscirebbe un quadro inedito, e rattristante, in cui le donne si accorgerebbero, forse, di quale tipo di sperimentazione è stata condotta sulla loro pelle.

Allo stesso modo sarebbe interessante rendersi conto di come e quanto i media hanno fatto da grancassa ad una divulgazione di notizie riguardo alla contraccezione. Notizie che hanno avuto il

“merito” non di informare correttamente le donne, bensì di propagandare ciò che un certo sistema industriale farmaceutico, in un dato momento, voleva che venisse propagandato. Tuttavia, in attesa che qualcuno trovi inchiostro “non sponsorizzato” per mettersi all’opera, ci sembra altrettanto interessante delineare fatti, pareri e notizie sull’RU 486, che fino ad oggi sono stati esenti da polemiche e dibattiti sulla pillola abortiva. C’è un convitato di pietra nella storia di questa pillola, un protagonista senza memoria del quale non si capisce per quale motivo conduca ogni sforzo nel favorire la commercializzazione e l’uso della stessa. Il convitato di pietra è la stampa.

L’RU 486, mentre negli Stati Uniti e in Europa, dove è in uso, continua a far parlare di sé quasi unica mente per le potenti controindicazioni e le morti che ha provocato, in Italia è invece al centro di un dibattito scientifico e politico, dal momento che non è ancora in vendita e che dal 2002, dopo varie traversie, è stata oggetto di una sperimentazione. Per chi conosce, seppur per grandi linee, la storia di questo farmaco, la cui denominazione tecnica è mifepristone, tutta la disputa italiana può apparire come un deja-vu dai contorni anacronistici. Per chi, invece, ignora le diatribe del passato a livello internazionale che lo hanno visto protagonista, la discussione su di esso può apparire come un’innovazione, se non una rivoluzione, a cui tendere per modificare lo sguardo della società italiana in relazione all’aborto. L’obiettivo dei sostenitori dell’RU 486 è, ed è sempre stato, quello di introdurre un’alternativa all’aborto chirurgico. O almeno: questo è ciò che essi, per anni, hanno ripetuto in una monocorde litania “scientifica” e in un’ampia e articolata opera di convincimento socio-politico-culturale. Questo è ciò che i media hanno sempre messo in evidenza: bisognava, cioè, sostituire l’aborto chirurgico svincolando la donna dalla costrizione di un potere medico di tipo paternali stico, nonché dalla crudezza e dalla pericolosità – così veniva detto – dell’aborto chirurgico stesso.  Quantomeno, l’auspicio di un’ampia rappresentanza di media, scienza e politica era di mettere le donne in condizione di poter scegliere.

Ecco, il criterio del
la scelta aiuta a capire meglio la piega che la storia dell’RU 486 ha preso nel corso del tempo. Scegliere cioè se, come e quando avere una gravidanza. Mai come in questo caso la parola planning (“pianificazione”) diventa calzante: pianificare la propria vita e decidere il momento in cui mettere al mondo un figlio.  In realtà l’obiettivo dei soste nitori dell’RU 486 era ed è quello di demedicalizzare, togliere il più possibile dalla competenza e dall’influenza del medico l’aborto volontario, per trasformarlo in un fatto del tutto privato e personale; magari senza più essere costretti a chiamarlo “aborto”, appunto, cioè senza più esprimere il concetto utilizzando la parola corrispondente, foriera solo di dolore e di tristezza, perché quell’esperienza veniva considerata sì un diritto, sì una scelta, ma talmente dura che il solo nominarla generava sgomento. Si capisce in questo senso la locuzione the early option pill (“la pillola dell’opzione precoce”), usata per propagandare la nuova metodica. Questo da un parte.

Chi volesse approfondire l’argomento può leggere il volume di Cesare Davide Cavoni e Dario Sacchini “La vera storia della pillola abortiva RU486”, edito da Cantagalli.

* Cesare Cavoni, giornalista professionista per l’emittente televisiva della Conferenza Episcopale Italiana SAT2000, dove conduce da anni trasmissioni di scienza e bioetica, è Laureato in Letterature Comparate alla Sapienza di Roma, master in Bioetica presso l’Istituto Giovanni Paolo II dell’Università Lateranense, Perfezionato in Bioetica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dottorando di ricerca in Bioetica sempre presso la Cattolica, docente di Bioetica e Mass media per i corsi di perfezionamento in Bioetica dell’università di Roma e Campobasso.

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La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata domenica, 6 settembre.

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ZENIT Staff

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