Shalom, Papa Francesco. La comunità ebraica della Capitale ha accolto con affetto l’arrivo del Pontefice di oggi pomeriggio nella Sinagoga di Roma. Mentre all’esterno i controlli si svolgevano serratissimi (ai limiti dell’esasperazione), in un Ghetto blindato già da giorni, all’interno applausi misurati riecheggiavano tra i matronei splendidamente dipinti del Tempio Maggiore, accompagnando la passeggiata di Bergoglio con il Rabbino capo Riccardo Di Segni.
Passeggiata durata circa 20 minuti; lunga per volontà dello stesso Francesco che, diversamente dai suoi predecessori, ha espresso il desiderio di salutare uno ad uno i presenti in Sinagoga: dalle autorità e il direttorio della Comunità ebraica romana, fino ai feriti dell’attentato palestinese del 1982 e i sopravvissuti all’Olocausto, seduti nelle prime file, che il Papa ha stretto a sé con un abbraccio.
Le note cadenzate dei Salmi, intonate dal Coro del Tempio Maggiore, hanno poi intervallato i quattro discorsi pronunciati dalla Tevà, il ‘pulpito’ da cui si legge la Torà. Il primo è stato quello appassionato di Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma (comunità che vanta una presenza nella Capitale di oltre 22 secoli), la quale, ricordando le immense figure di Giovanni Paolo II e Elio Toaff (“Che Dio li abbia in gloria!”), ha affermato: “Oggi scriviamo ancora una volta la storia”.
Poi ha lanciato un appello ad una reciproca collaborazione per “combattere i mali del nostro tempo”: razzismo, terrorismo, lotte fratricide e anche antisionismo che “è la forma più moderna di antisemitismo”. In particolare, in riferimento alla intifada dei coltelli che ha bagnato di sangue le strade di Gerusalemme e non solo nei mesi scorsi, la Dureghello ha affermato: “La pace non si conquista seminando il terrore con i coltelli in mano, non si conquista versando sangue nelle strade… Tutti noi dobbiamo dire al terrorismo di fermarsi… Il terrorismo non ha mai giustificazione”.
Sulla stessa scia Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, rimarcando il grande contributo del Papa per il dialogo ebraico-cristiano, ha ribadito che “in questo difficile momento cristiani ed ebrei sono accomunati dallo stesso destino”, costretti “a difendersi da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di Dio per spargere il terrore compiendo i più atroci crimini contro l’umanità”.
Infine il rabbino capo Di Segni che ha aperto il suo intervento con una premesse: “Nella tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, consuetudine fissa”. La visita del terzo Papa in Sinagoga è quindi “decisamente il segno concreto di una nuova era”, ha detto il rabbino. Anche da parte sua un’esortazione a non limitarsi solo a “denunciare gli orrori” ma a “lavorare e collaborare nel quotidiano” per estirpare la piaga del terrorismo e dell’odio religioso.
Invito accolto dal Santo Padre che ha esordito portando un “saluto fraterno di pace di questa Chiesa e dell’intera Chiesa cattolica” e ricordando il suo rapporto filiale con la comunità ebraica di Buenos Aires: “Ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche”, ha detto.
Bergoglio ha quindi rilevato gli “autentici rapporti di amicizia” e “l’impegno comune” costruiti negli ultimi 50 anni, a partire dal Concilio Vaticano II ma soprattutto con l’impulso dato da Giovanni Paolo II. Il pensiero è andato quindi alla storica visita nella Sinagoga del 16 ottobre 1986, durante la quale il Pontefice polacco “coniò la bella espressione ‘fratelli maggiori’”.
E infatti “voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede”, ha ribadito dopo 30 anni Francesco. “Tutti quanti – ha aggiunto – apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme come ebrei e cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali”.
Anche nel dialogo interreligioso – ha proseguito il Santo Padre – “è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore” e “che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare”, perché “nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare”.
Legame rinvigorito dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate che – ha sottolineato il Papa – “ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo”, tracciando “una via” e definendo le reciproche relazioni “per la prima volta, in maniera esplicita”. “Naturalmente – ha precisato Francesco – essa non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni”.
L’ultima è stata il documento stilato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, un ulteriore passo avanti per colmare le lacune ancora esistenti circa “la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico” che “merita di essere sempre più approfondita”.
Ricordando poi l’udienza ecumenica del 28 ottobre 2015, dedicata proprio alla Nostra Aetate, il Vescovo di Roma ha ribadito il netto ‘sì’ “alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo”, e il ‘no’ “ad ogni forma di antisemitismo e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano”. “Ebrei e cristiani – ha affermato – devono sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune, sul quale basarsi e continuare a costruirsi un futuro”.
Insieme alle questioni teologiche, non si possono poi perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare: quella dell’ecologia integrale che è ormai “una priorità”, ma anche i diversi conflitti, le guerre, le violenze ed ingiustizie che “aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia”.
“La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche”, ha sottolineato Papa Francesco. “La vita è sacra quale dono di Dio. Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: poveri, malati, emarginati, indifesi”. Dunque “là dove la vita è in pericolo”, ebrei e cristiani sono chiamati ancora di più a proteggerla, nella certezza che “nè la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio”.
La voce del Papa è divenuta più grave nel ricordare infine le violenze e persecuzioni che il popolo ebraico, ha dovuto sperimentare nella sua storia, culminate poi con lo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. “Sei milioni di persone solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio”, ha detto.
E con voce commossa ha rammentato quel drammatico 16 ottobre 1943, in cui oltre mille uomini, donne e bambini romani furono deportati ad Auschwitz. “Oggi desidero ricordarli in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime, non devono essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro”. “La Shoah – ha affermato il Papa, guardando dritto negli occhi i sopravvissuti all’Olocausto seduti lì di fronte – ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace”.
Di qui la gratitudine “per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi 50 anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia”; insieme l’invito alla comune preghiera “per un futuro buono, migliore”. “Shalom alechem!”.
Il testo integrale del discorso del Santo Padre è disponibile qui.