Incontro del Santo Padre con i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma - Foto © Servizio Fotografico - Vatican Media

"Non abbiate timore di giocarvi la vita al servizio della riconciliazione tra Dio e gli uomini"

Incontro del Santo Padre con i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma

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Alle ore 11 di questa mattina, nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano, il Santo Padre Francesco ha incontrato i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima. Al suo arrivo in Basilica, il Papa ha confessato alcuni sacerdoti. Dopo l’indirizzo di saluto dell’Em.mo Card. Angelo De Donatis, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, il Santo Padre ha pronunciato la meditazione che riportiamo di seguito:
Meditazione del Santo Padre
Buongiorno a tutti voi.
È sempre bello ritrovarsi qui, ogni anno, all’inizio della Quaresima, per questa liturgia del perdono di Dio. Ci fa bene – fa bene anche a me! – e sento nel cuore una grande pace, ora che ognuno di noi ha ricevuto la misericordia di Dio e l’ha donata agli altri, suoi fratelli. Viviamo questo momento per quello che è realmente, come una grazia straordinaria, un miracolo permanente della tenerezza divina, nel quale ancora una volta la Riconciliazione di Dio, sorella del Battesimo, ci commuove, ci lava con le lacrime, ci rigenera, ci restituisce l’originaria bellezza.
Questa pace e questa gratitudine che dal nostro cuore salgono al Signore ci aiutano a comprendere come la Chiesa intera e ciascuno dei suoi figli viva e cresca grazie alla misericordia di Dio. La Sposa dell’Agnello diventa «senza macchia né ruga» (Ef 5,27) per dono di Dio, la sua bellezza è il punto di arrivo di un cammino di purificazione e di trasfigurazione, cioè di un esodo a cui il Signore permanentemente la invita: «Ecco, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). Non dobbiamo mai cessare di metterci reciprocamente in guardia dalla tentazione dell’autosufficienza e dell’autocompiacimento, quasi fossimo Popolo di Dio per nostra iniziativa o per merito nostro.
Questo ripiegamento su noi stessi è molto brutto e ci farà male sempre: sia l’autosufficienza nel fare o il peccato dello specchio, l’autocompiacimento: “Che bello sono! Che bravo sono!”. Non siamo popolo di Dio per nostra iniziativa, per merito nostro; no davvero, noi siamo e saremo per sempre il frutto dell’azione misericordiosa del Signore: un Popolo di orgogliosi resi piccoli dall’umiltà di Dio, un Popolo di miserabili – non abbiamo paura di dire questa parola: “sono miserabile” – resi ricchi dalla povertà di Dio, un Popolo di maledetti resi giusti da Colui che si fece il “Maledetto” appeso sul legno della croce (cfr Gal 3,13). Non dimentichiamolo mai: «senza di me non potete far nulla!» (Gv 15,5). Lo ripeto, il Maestro ci ha detto: «senza di me non potete far nulla!». E così cambia la cosa, non sono io davanti allo specchio che mi guardo, non sono io il centro delle attività, persino il centro della preghiera, tante volte… No, no, è Lui il centro. Io sono in periferia. È Lui il centro, è Lui che fa tutto, e questo richiede da noi una santa passività – quella che non è santa è la pigrizia, no, quella no – una santa passività davanti a Dio, davanti a Gesù soprattutto, è Lui che fa le cose.
Ecco perché questo tempo di Quaresima è davvero una grazia: ci permette di ricollocarci davanti a Dio lasciando che egli sia tutto. Il suo amore ci rialza dalla polvere (ricordati che senza di me sei polvere, ci ha detto ieri il Signore), il suo Spirito soffiato ancora una volta sulle nostre narici ci dona la vita dei risorti. La mano di Dio, che ci ha creato a immagine e somiglianza del suo mistero trinitario, ci ha fatto molteplici nell’unità, diversi ma inseparabili gli uni dagli altri. Il perdono di Dio, che oggi abbiamo celebrato, è una forza che ristabilisce la comunione a tutti i livelli: tra di noi presbiteri nell’unico presbiterio diocesano; con tutti i cristiani, nell’unico corpo che è la Chiesa; con tutti gli uomini, nell’unità della famiglia umana. Il Signore ci presenta gli uni agli altri e ci dice: ecco tuo fratello, «osso dalle tue ossa, carne dalla tua carne» (cfr Gen 2,23), colui con il quale sei chiamato a vivere la «carità che non avrà mai fine» (1Cor 13,8).
Per questi sette anni di cammino diocesano di conversione pastorale, che ci separano dal Giubileo del 2025 (siamo arrivati al secondo) vi ho proposto il libro dell’Esodo come paradigma. II Signore agisce, allora come oggi, e trasforma un “non-popolo” in Popolo di Dio. Questo è il suo desiderio e il suo progetto anche su di noi. Ebbene, cosa fa il Signore quando deve constatare con tristezza che Israele è un popolo «dalla dura cervice» (Es 32,9), «incline al male» (Es 32,22) come nell’episodio del vitello d’oro? Comincia un’opera paziente di riconciliazione, una pedagogia sapiente, in cui Egli minaccia e consola, fa prendere consapevolezza delle conseguenze del male compiuto e decide di dimenticare il peccato, punisce colpendo il popolo e risana la ferita che ha inferto. Proprio nel testo di Esodo 32-34, che proporrete in Quaresima alla meditazione delle vostre comunità, il Signore sembra aver preso una decisione radicale: «Io non verrò in mezzo a te» (Es 33,3).
Quando il Signore si chiude, si allontana. Noi abbiamo esperienza di questo, nei momenti brutti, di desolazione spirituale. Se qualcuno di voi non conosce questi momenti, gli consiglio di andare a parlare con un buon confessore, con un padre spirituale, perché qualcosa ti manca nella vita; non so cos’è ma non avere desolazione… non è normale, direi che non è cristiano. Noi abbiamo di questi momenti. Non camminerò più alla tua testa; manderò il mio angelo (cfr Es 32,34) a precederti nel cammino, ma io non verrò. Quando il Signore ci lascia soli, senza la sua presenza, e noi siamo in parrocchia, stiamo lavorando e ci sentiamo impiegati ma senza la presenza del Signore, nella desolazione… Non solo nella consolazione, nella desolazione. Pensate a questo.
D’altra parte il popolo, forse per impazienza o sentendosi abbandonato (perché Mosè tardava a scendere dal monte), aveva messo da parte il profeta scelto da Dio e aveva chiesto ad Aronne di costruire un idolo, immagine muta di Dio, che camminasse alla sua testa. Il popolo non tollera l’assenza di Mosè, è in desolazione e non tollera e cerca subito un altro Dio per essere comodo. A volte, quando noi non abbiamo desolazione, può darsi che abbiamo degli idoli. “No, sto bene, con questo che ho mi arrangio…”. Non viene mai la tristezza dell’abbandono di Dio. Cosa fa il Signore quando noi lo “tagliamo fuori” – con gli idoli – dalla vita delle nostre comunità, perché convinti di bastare a noi stessi? In quel momento l’idolo sono io: “No, mi arrangio… Grazie… Non preoccuparti, mi arrangio”. E non si sente quel bisogno del Signore, non si sente la desolazione dell’assenza del Signore.
Ma il Signore è furbo! La riconciliazione che Egli vuole offrire al popolo sarà una lezione che gli Israeliti si ricorderanno per sempre. Dio si comporta come un amante rifiutato: se proprio non mi vuoi, allora me ne vado! E ci lascia da soli. È vero, noi possiamo cavarcela soli, per un po’ di tempo, sei mesi, un anno, due anni, tre anni, anche di più. A un certo punto questo scoppia. Se noi andiamo avanti da soli, scoppia questa autosufficienza, questo autocompiacimento della solitudine. E scoppia male, scoppia male. Penso a un caso di un sacerdote bravo, bravo, religioso, l’ho conosciuto bene. Era brillante. Se c’era un problema in qualche comunità, i superiori pensavano a lui per risolvere il problema: un collegio, un’università, era bravo, bravo. Ma era devoto di “santo specchio”: guardava tanto sé stesso. E Dio è stato buono con lui. Un giorno gli ha fatto sentire che era solo nella vita, che aveva perso tanto. E non ha osato dire al Signore: “Ma io ho sistemato questa cosa, quell’altra, quell’altra…”. No, subito si accorto che era solo. E la grazia più grande che può dare il Signore, per me è la grazia più grande: quell’uomo pianse. La grazia del pianto. Ha pianto per il tempo perduto, ha pianto perché il santo specchio non gli aveva dato quello che lui si aspettava da sé stesso. E ha incominciato da capo, umilmente. Quando il Signore se ne va, perché noi lo cacciamo via, bisogna chiedere il dono delle lacrime, piangere l’assenza del Signore. “Tu non mi vuoi, allora me ne vado”, dice il Signore, e col tempo succede quello che è successo a questo sacerdote.
Torniamo all’Esodo. L’effetto è quello sperato: «Il popolo udì questa triste notizia e tutti fecero lutto: nessuno più indossò i suoi ornamenti» (Es 33,4). Agli Israeliti non è sfuggito che nessuna punizione è tanto pesante come questa decisione divina che contraddice il suo nome santo: «Io sono colui che sono!» (Es 3,14): espressione che ha un senso concreto, non astratto, traducibile forse “io sono colui che è e sarà qui, accanto a te”. Quando ti accorgi che Lui se ne è andato, perché tu l’hai cacciato via, è una grazia sentire questo. Se non ti accorgi, c’è la sofferenza. L’angelo non è una soluzione, anzi sarebbe il testimone permanente dell’assenza di Dio. Per questo la reazione del popolo è la tristezza. Questa è un’altra cosa pericolosa, perché c’è una tristezza buona e una tristezza cattiva. Lì bisogna discernere, nei momenti di tristezza: com’è la mia tristezza, da dove viene? E a volte è buona, viene da Dio, dall’assenza di Dio, come in questo caso; altre volte è un autocompiacimento, anch’essa, non è vero? Cosa proveremmo noi se il Signore Risorto ci dicesse: continuate pure le vostre attività ecclesiali e le vostre liturgie, ma non sarò più io ad essere presente e ad agire nei vostri sacramenti? Dal momento che, quando prendete le vostre decisioni, vi basate su criteri mondani e non evangelici (tamquan Deus non esset) allora mi faccio totalmente da parte… Tutto sarebbe vuoto, privo di senso, non sarebbe altro che “polvere”. La minaccia di Dio apre il varco all’intuizione di cosa sarebbe la nostra vita senza di Lui, se davvero Egli sottraesse per sempre il suo Volto. È la morte, la disperazione, l’inferno: senza di me non potete far nulla. II Signore ci mostra ancora una volta, sulla carne viva dello smascheramento della nostra ipocrisia, cosa sia realmente la sua misericordia.
A Mosè Dio rivela sul monte la sua Gloria e il suo Nome santo: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Nel “gioco di amore” portato avanti da Dio, fatto di assenza minacciata e di presenza ridonata – «Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo» (Es 33,14) – Dio realizza la riconciliazione con il suo Popolo. Israele viene fuori da questa esperienza dolorosa, che lo segnerà per sempre, con una maturità nuova: è più consapevole di chi è il Dio che lo ha liberato dall’Egitto, è più lucido nel comprendere i veri pericoli del cammino (potremmo dire: ha più timore di sé stesso che dei serpenti del deserto!). È buono questo: avere un po’ di paura di noi stessi, della nostra onnipotenza, delle nostre furbizie, dei nostri nascondimenti, del nostro doppio gioco… Un po’ di paura. Se fosse possibile, avere più paura di questo che dei serpenti, perché questo è un vero veleno. E il popolo, così, è più unito intorno a Mosè e alla Parola di Dio che egli annuncia. L’esperienza del peccato e del perdono di Dio è ciò che ha permesso ad Israele di diventare un po’ di più il Popolo che appartiene a Dio.
Abbiamo fatto questa Liturgia penitenziale e abbiamo fatto l’esperienza dei nostri peccati; e dire il peccato è una cosa che ci apre alla misericordia di Dio, perché di solito il peccato si nasconde. Noi nascondiamo il peccato non solo a Dio, non solo al prossimo, non solo al sacerdote, ma a noi stessi. La “cosmetica” è andata tanto avanti, in questo: siamo specialisti nel truccare le situazioni. “Sì, ma non è per tanto, si capisce…”. E un po’ d’acqua per lavarsi dalla cosmetica fa bene a tutti, per vedere che non siamo tanto belli: siamo brutti, brutti anche nelle nostre cose. Ma senza disperarci, perché c’è Dio, clemente e misericordioso, che è sempre dietro di noi. C’è la sua misericordia che ci accompagna.
Cari fratelli, è questo il senso della Quaresima che vivremo. Negli esercizi spirituali che predicherete alle persone delle vostre comunità, nelle liturgie penitenziali che celebrerete, abbiate il coraggio di proporre la riconciliazione del Signore, di proporre il suo amore appassionato e geloso. Il nostro ruolo è come quello di Mosè: un servizio generoso all’opera di riconciliazione di Dio, uno “stare al gioco” del suo amore. È bello il modo in cui Dio coinvolge Mosè, lo tratta davvero come suo amico: lo prepara prima che scenda dalla montagna avvertendolo della perversione del popolo, accetta che egli faccia da intercessore per i suoi fratelli, lo ascolta mentre gli ricorda il giuramento che Lui, Dio, ha fatto ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Possiamo immaginare che Dio abbia sorriso quando Mosè lo ha invitato a non contraddirsi, a non fare brutta figura agli occhi degli egiziani e a non essere da meno dei loro dei, ad aver rispetto del suo Nome santo. Lo provoca con la dialettica delle responsabilità: “Il tuo popolo, che tu, Mosè, hai fatto uscire dall’Egitto”, perché Mosè risponda sottolineando che no, il popolo appartiene a Dio, è Lui che lo ha fatto uscire dall’Egitto… E questo è un dialogo maturo, con il Signore.
Quando vediamo che il popolo che noi serviamo nella parrocchia, o dovunque, si è allontanato, noi abbiamo questa tendenza di dire: “È la mia gente, è il mio popolo”. Sì, è il tuo popolo, ma vicariamente, diciamo così: il popolo è Suo! E allora andare a rimproverarlo: “Guarda il tuo popolo cosa sta facendo”. Questo dialogo con il Signore. Ma il cuore di Dio ha esultato di gioia quando ha udito le parole di Mosè: «Se tu perdonassi il loro peccato […] Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32). E questa è una delle cose più belle del sacerdote, del prete che va davanti al Signore e mette la faccia per il suo popolo. “È il tuo popolo, non il mio, e tu devi perdonare” – “No, ma…” – “Io me ne vado! Io con te non parlo più. Cancellami”. Ci vogliono dei “pantaloni”, per parlare così con Dio! Ma noi dobbiamo parlare così, come uomini, non come pusillanimi, come uomini! Perché questo significa che io sono consapevole del posto che ho nella Chiesa, che non sono un amministratore, messo lì per portare avanti ordinatamente qualcosa. Significa che io credo, che io ho fede. Provate a parlare così, con Dio. Morire per il popolo, condividere il destino del popolo qualunque cosa succeda, fino a morirne.
Mosè non ha accettato la proposta di Dio, non ha accettato la corruzione. Dio fa finta di volerlo corrompere. Non ha accettato: “No, in questo non ci sto. Io sto con il popolo. Con il tuo popolo”. La proposta di Dio era: «Lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te farò una grande nazione» (Es 32,10) – ecco la “corruzione”. Ma come? Dio è il corruttore? Sta cercando di vedere il cuore del suo pastore. Non vuole salvare sé stesso, Mosè: ormai egli è una cosa sola con i suoi fratelli. Magari ognuno di noi arrivasse a questo punto, magari! È brutto quando un sacerdote va dal vescovo a lamentarsi della sua gente: “Ah, non si può, questa gente non capisce niente, e così, e cosà…, si butta via il tempo…”. È brutto! Cosa manca a quell’uomo? Tante cose mancano, a quel sacerdote! Mosè non fa questo. Non vuole salvare sé stesso, perché lui è una sola cosa con i suoi fratelli. Qui il Padre ha visto il volto del Figlio. La luce dello Spirito di Dio ha invaso il volto di Mosè e ha tratteggiato sul suo volto i lineamenti del Crocifisso Risorto, rendendolo luminoso. E quando noi andiamo lì a lottare con Dio – anche il nostro padre Abramo lo aveva fatto, quella lotta con Dio –, quando andiamo lì facciamo vedere che assomigliamo a Gesù, che dà la vita per il suo popolo. E il Padre sorride: vedrà in noi lo sguardo di Gesù che è andato alla morte per noi, per il popolo del Padre, noi. Il cuore dell’amico di Dio si è ormai pienamente dilatato, diventando grande – Mosè, l’amico di Dio – simile al cuore di Dio, molto più grande del cuore umano (cfr 1Gv 3,18). Davvero Mosè è diventato l’amico che parla con Dio faccia a faccia (cfr Es 33,11). Faccia a faccia!
Questo è quando il vescovo o il padre spirituale domanda a un sacerdote se prega: “Sì sì, io… sì, io con la ‘suocera’ mi arrangio – la ‘suocera’ è il breviario – sì, mi arrangio, faccio le Lodi, poi…”. No, no. Se tu preghi, cosa vuol dire? Se tu metti la faccia per il tuo popolo davanti a Dio. Se tu vai a lottare per il tuo popolo con Dio. Questo è pregare, per un sacerdote. Non è fare le prescrizioni. “Ah, Padre, ma allora il breviario non va più?”. No, il breviario va, ma con questo atteggiamento. Tu sei lì, davanti a Dio e il tuo popolo dietro di te. E Mosè è anche il custode della Gloria di Dio, dei segreti di Dio. Ha contemplato la Gloria di spalle, ha udito il suo vero Nome sulla montagna, ha compreso il suo amore di Padre.
Cari fratelli, è un privilegio enorme il nostro! Dio conosce la nostra “vergognosa nudità”. Mi ha colpito tanto quando ho visto l’originale della [Vergine] Odigitria di Bari: non è come adesso, un po’ vestito con le vesti che mettono sull’icona i cristiani orientali. È la Madonna con il bambino nudo. Mi è piaciuto tanto che il Vescovo di Bari mi ha fatto avere una di queste, me l’ha regalata, e l’ho messa lì, davanti alla mia porta. E a me piace – lo dico per condividere un’esperienza – mi piace al mattino, quando mi alzo, quando passo davanti, dire alla Madonna che custodisca la mia nudità: “Madre, tu conosci tutte le mie nudità”. Questa è una cosa grande: chiedere al Signore – dalla mia nudità – chiedere che custodisca la mia nudità. Lei le conosce tutte. Dio conosce la nostra “vergognosa nudità”, eppure non si stanca di servirsi di noi per offrire agli uomini la riconciliazione.
Siamo poverissimi, peccatori, eppure Dio ci prende per intercedere per i nostri fratelli e per distribuire agli uomini, attraverso le nostre mani per nulla innocenti, la salvezza che rigenera. II peccato ci deturpa, e ne facciamo con dolore l’umiliante esperienza quando noi stessi o uno dei nostri fratelli sacerdoti o vescovi cade nel baratro senza fondo del vizio, della corruzione o, peggio ancora, del crimine che distrugge la vita degli altri. Sento di condividere con voi il dolore e la pena insopportabili che causano in noi e in tutto il corpo ecclesiale l’onda degli scandali di cui i giornali del mondo intero sono ormai pieni. È evidente che il vero significato di ciò che sta accadendo è da cercare nello spirito del male, nel Nemico, che agisce con la pretesa di essere il padrone del mondo, come ho detto nella liturgia eucaristica al termine dell’Incontro sulla protezione dei minori nella Chiesa (24 febbraio 2018). Eppure, non scoraggiamoci!
II Signore sta purificando la sua Sposa e ci sta convertendo tutti a sé. Ci sta facendo sperimentare la prova perché comprendiamo che senza di Lui siamo polvere. Ci sta salvando dall’ipocrisia, dalla spiritualità delle apparenze. Egli sta soffiando il suo Spirito per ridare bellezza alla sua Sposa, sorpresa in flagrante adulterio. Ci farà bene prendere oggi il capitolo 16 di Ezechiele. Questa la storia della Chiesa. Questa è la mia storia, può dire ognuno di noi. E alla fine, ma attraverso la tua vergogna, tu continuerai a essere il pastore. Il nostro umile pentimento, che rimane silenzioso tra le lacrime di fronte alla mostruosità del peccato e all’insondabile grandezza del perdono di Dio, questo, questo umile pentimento è l’inizio della nostra santità.
Non abbiate timore di giocarvi la vita al servizio della riconciliazione tra Dio e gli uomini: non ci è data alcun’altra segreta grandezza che questo donare la vita perché gli uomini possano conoscere il suo amore. La vita di un prete è spesso segnata da incomprensioni, sofferenze silenziose, talvolta persecuzioni. E anche peccati che soltanto Lui conosce. Le lacerazioni tra fratelli della nostra comunità, la non-accoglienza della Parola evangelica, il disprezzo dei poveri, il risentimento alimentato da riconciliazioni mai avvenute, lo scandalo suscitato dai comportamenti vergognosi di alcuni confratelli, tutto questo può toglierci il sonno e lasciarci nell’impotenza. Crediamo invece nella paziente guida di Dio, che fa le cose a suo tempo, allarghiamo il cuore e mettiamoci al servizio della Parola della riconciliazione. Quello che oggi abbiamo vissuto in questa Cattedrale proponiamolo nelle nostre comunità. Nelle liturgie penitenziali che vivremo nelle parrocchie e nelle prefetture, in questo tempo di Quaresima, ognuno chiederà perdono a Dio e ai fratelli del peccato che ha minato la comunione ecclesiale e ha soffocato il dinamismo missionario. Con umiltà – che è una caratteristica propria del cuore di Dio, ma che noi facciamo così fatica a fare nostra – confessiamo gli uni agli altri che abbiamo bisogno che Dio ci riplasmi la vita. Siate voi i primi nel chiedere perdono ai vostri fratelli. «Accusare sé stessi è un inizio sapienziale, legato al timore di Dio» (ibid.).
Sarà un bel segno se, come abbiamo fatto oggi, ognuno di voi si confesserà da un confratello anche nelle liturgie penitenziali in parrocchia, davanti agli occhi dei fedeli. Avremo il volto luminoso, come Mosè, se con occhi commossi parleremo agli altri della misericordia che ci è stata usata. È la strada, non ce n’è un’altra. Così vedremo il demonio dell’orgoglio cadere come la folgore dal cielo, se avverrà il miracolo della riconciliazione nelle nostre comunità. Sentiremo di essere un po’ di più il Popolo che appartiene al Signore, in mezzo al quale Dio cammina. Questa è la strada. E vi auguro buona Quaresima!
Adesso vorrei aggiungere una cosa che mi è stato chiesto di fare. Uno dei modi concreti per vivere una Quaresima di carità è contribuire generosamente alla campagna “Come in cielo, così in strada”, con la quale la nostra Caritas diocesana intende rispondere a tutte le forme di povertà, accogliendo e sostenendo chi ha bisogno. So che ogni anno rispondete con generosità a questo appello, ma quest’anno vi chiedo un impegno maggiore affinché tutta la comunità e tutte le comunità siano davvero coinvolte in prima persona.
Card. De Donatis:
Una parola per la consegna, adesso, di questo libricino: Papa Francesco ce lo regala. volumetto che ci accompagnerà nella Quaresima, come seconda lettura, come abbiamo fatto l’anno scorso: la stessa dimensione del breviario così saremo aiutati ad averlo vicino. E quindi i prefetti distribuiscono a tutti questi volumi, magari lo potete portare anche per chi non è presente. Grazie. Io, a nome di tutti dico un grazie veramente con tutto il cuore a Lei, che è venuto oggi qui, come ogni anno. Quello che Le posso dire a nome di tutti, oltre il grazie, che continuiamo a sostenerLa con la nostra preghiera quotidiana.
Papa Francesco:
Ho bisogno di questo, ho bisogno della preghiera. Pregate per me. Una delle cose che mi piace di questo [libretto] è la ricchezza dei Padri: tornare ai Padri. Poco tempo fa, in una parrocchia di Roma è stato presentato un libro, “Bisogno di paternità” credo che si chiami, sono tutti testi dei Padri secondo diverse tematiche: le virtù, la Chiesa… Tornare ai Padri ci aiuta tanto perché è una grande ricchezza. Grazie.

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ZENIT Staff

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