Atto penitenziale - Foto © Copyright Vatican Media

"Abbiamo mostrato pochissima misericordia e per questo riceviamo lo stesso"

Celebrazione Eucaristica nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano a conclusione dell’Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa”

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Alle ore 9.30 di questa mattina [24 febbraio 2019], VII Domenica del Tempo Ordinario, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano, ha luogo la Celebrazione Eucaristica a conclusione dell’Incontro “La Protezione dei Minori nella Chiesa”. Nel corso della Santa Messa, dopo la proclamazione del Vangelo, S.E. Mons. Mark Benedict Coleridge, Arcivescovo di Brisbane, Presidente della Conferenza Episcopale dell’Australia, tiene l’omelia che pubblichiamo di seguito:
Nel Vangelo appena proclamato abbiamo sentito una sola voce, la voce di Gesù. Prima abbiamo sentito la voce di Paolo e alla fine della Messa ascolteremo la voce di Pietro, ma nel Vangelo c’è solo la voce di Gesù. È bene che, dopo tutte le nostre parole, adesso ci siano solo le parole di Cristo: solo Gesù rimane. Come sul Monte della Trasfigurazione (cfr. Lc 9, 36). Egli ci parla del potere, e lo fa in questa splendida Sala Regia che a sua volta parla di potere. Qui vediamo immagini di battaglie, di un massacro religioso, di lotte tra imperatori e papi. Questo è un luogo nel quale si incontrano poteri terreni e celesti, a volte toccati da quelli infernali.
In questa Sala Regia la Parola di Dio ci invita a contemplare il potere come lo abbiamo fatto noi in questi tre giorni passati insieme. Tra l’incontro, la Sala e la Scrittura, quindi, abbiamo una raffinata armonia di voci. In piedi sopra Saulo dormiente, Davide appare come una figura possente, come giustamente afferma Abisai: “Oggi Dio ha messo il nemico nelle tue mani. Lascia che io lo inchiodi al suolo con la mia lancia”. Ma Davide ribatte: “Non ucciderlo! Chi ha mai messo le mani su un consacrato di Dio ed è rimasto impunito?” Davide sceglie di usare il potere non per distruggere ma per salvare il re, il consacrato di Dio. I pastori della Chiesa, come Davide, hanno ricevuto il dono del potere ma il potere di servire, di creare, un potere che è con e per ma non sopra, come dice Paolo, che “Dio ha dato per la vostra edificazione e non per la vostra rovina” (2 Cor 10, 8).
Il potere è pericoloso perché può distruggere; e in questi giorni abbiamo riflettuto su come nella Chiesa il potere possa distruggere quando è separato dal servizio, quando non è un modo per amare, quando diventa potere sopra. Una schiera di consacrati di Dio è stata posta nelle nostre mani dal Signore stesso. Eppure, noi possiamo usare questo potere non per creare ma per distruggere, perfino per uccidere. Nell’abuso sessuale, i potenti mettono le mani sui consacrati di Dio, perfino sui più deboli e sui più vulnerabili tra di loro. Loro dicono “sì” alla richiesta di Abisai: impugnano la lancia. Nell’abuso e nella sua copertura, i potenti si manifestano non come uomini del cielo ma come uomini della terra, come abbiamo sentito dalle parole di San Paolo.
Nel Vangelo, il Signore ordina: “Amate i vostri nemici”. Ma chi è il nemico? Certo, non quelli che hanno sfidato la Chiesa a guardare in faccia gli abusi e la loro copertura, per quello che realmente erano: soprattutto le vittime e i sopravvissuti che ci hanno condotto alla dolorosa verità raccontando le loro storie con così grande coraggio. Ci sono stati momenti, però, in cui abbiamo considerato le vittime e i sopravvissuti come nemici ma non li abbiamo amati, non li abbiamo benedetti. In questo senso, siamo stati i nostri peggiori nemici. Il Signore ci chiede di essere “misericordiosi come è misericordioso il Padre”. Tuttavia anche se noi desideriamo una Chiesa veramente sicura, e anche dopo tutto quello che abbiamo fatto per assicurare questo, non sempre abbiamo scelto la misericordia dell’uomo del cielo.
A volte abbiamo preferito l’indifferenza dell’uomo della terra e il desiderio di tutelare la reputazione della Chiesa e anche la nostra. Abbiamo mostrato pochissima misericordia e per questo riceviamo lo stesso, perché la misura con cui doniamo sarà la misura con cui ci sarà restituito. Non andremo via impuniti, come dice Davide, e la punizione l’abbiamo già avuta. L’uomo della terra deve morire affinché possa nascere l’uomo del cielo; il vecchio Adamo deve cedere il passo all’Adamo nuovo. Questo richiederà una vera conversione senza la quale rimarremo al livello di “pura amministrazione” – come scrive il Santo Padre nella Evangelii Gaudium (n. 25) – quella “pura amministrazione” che non arriva al cuore della crisi degli abusi. Solo questa conversione ci aiuterà a vedere che le ferite di coloro che sono stati abusati sono le nostre ferite, che il loro destino è il nostro, che non sono i nostri nemici ma ossa delle nostre ossa, carne della nostra carne (cfr. Gen, 2, 23). Loro sono noi e noi siamo loro.
Questa conversione, infatti, è una rivoluzione copernicana. Come sapete, Copernico dimostrò che non è il sole che gira intorno alla terra, ma la terra che gira intorno al sole. Per noi, la rivoluzione copernicana consiste nella scoperta che le persone abusate non ruotano intorno alla Chiesa, ma che è la Chiesa che ruota intorno a loro. Scoprendo questo possiamo iniziare a vedere con gli occhi loro e a sentire con le loro orecchie; una volta fatto questo, il mondo e la Chiesa cominciano ad avere un altro aspetto. Questa è la conversione necessaria, la vera rivoluzione e la grande grazia che può aprire alla Chiesa una nuova stagione di missione. Signore, quando è stato che ti abbiamo visto abusato e non siamo venuti ad aiutarti? Ma Lui ci risponderà: “In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto questo a uno di questi ultimi miei fratelli e sorelle, non l’avete fatto a me (Mt 25, 44-45)”. In loro, gli ultimi tra i fratelli e le sorelle, vittime e sopravvissuti, incontriamo Cristo crocifisso, l’indifeso dal quale sgorga il potere dell’Onnipotente, il debole attorno al quale la Chiesa ruoterà per sempre, l’indifeso le cui cicatrici splendono come il sole. In questi giorni siamo stati sul Calvario – sì, perfino in Vaticano e nella Sala Regia, noi ora siamo su una montagna oscura.
Ascoltando i sopravvissuti, abbiamo sentito Gesù piangere nel buio (cfr. Mc 15, 34). Ma qui è nata la speranza dal suo cuore ferito, e la speranza diventa preghiera mentre la Chiesa universale si riunisce intorno a noi nella sala del Cenacolo: preghiamo che il buio del Calvario conduca la Chiesa in tutto il mondo alla luce della Pasqua, all’Agnello che è il nostro sole (cfr. Apocalisse 21, 23). E alla fine, resta solo la voce del Signore risorto che ci spinge a non stare lì a fissare la tomba vuota, mentre nella nostra perplessità ci domandiamo cosa dobbiamo fare. Né possiamo rimanere nel Cenacolo dove Egli ci dice “la pace sia con voi” (Gv, 20, 19). Egli soffia su di noi (cfr Gv 20, 22) e il fuoco di una nuova Pentecoste ci tocca (cfr At 2,2). Lui – che è la pace – spalanca le porte del Cenacolo e le porte del nostro cuore. Dalla paura nasce un’audacia apostolica, dal più profondo scoramento la gioia del Vangelo. Davanti a noi c’è una missione, una missione che non richiede solo parole, ma azioni reali e concrete. Faremo tutto quanto è in nostro potere per portare ai sopravvissuti agli abusi giustizia e guarigione; li ascolteremo, crederemo in loro e cammineremo con loro; faremo in modo che tutti coloro che hanno commesso abusi non siano mai più in grado di offendere; chiameremo a rendere conto chi ha nascosto gli abusi; renderemo più severi i procedimenti di selezione e di formazione dei leader della Chiesa; educheremo tutto il nostro popolo a ciò che richiede la tutela; faremo ogni cosa in nostro potere per garantire che gli orrori del passato non si ripetano e che la Chiesa sia un posto sicuro per tutti, una madre amorevole in particolare per i giovani e per le persone vulnerabili; non agiremo da soli ma collaboreremo con tutte le persone coinvolte nel bene dei giovani e delle persone vulnerabili; continueremo ad approfondire la nostra conoscenza sugli abusi e sui suoi effetti, sul perché siano potuti accadere nella Chiesa e su cosa si debba fare per sradicarli.
Tutto questo richiederà tempo, ma noi non ne abbiamo per sempre e non possiamo permetterci di fallire. Se riusciremo a fare questo ed altro, non solo conosceremo la pace del Signore risorto, ma diventeremo la sua pace in una missione fino ai confini della terra. Eppure, potremo diventare la pace soltanto se prima saremo diventati il sacrificio. A questo diciamo sì a una sola voce, mentre su questo altare poniamo i nostri fallimenti, i nostri tradimenti, tutta la nostra fede, speranza e amore in quell’unico sacrificio di Gesù, vittima e vincitore, che “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate» (Apocalisse 21, 4).

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ZENIT Staff

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