Incontro su "La Protezione dei Minori nella Chiesa" (22/02/2019) - Foto © Copyright Vatican Media

Linda Ghisoni: "Prendere coscienza del fenomeno e rendere conto della propria responsabilità non è una fissazione"

“Communio: agire insieme” – Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa”

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Introduzione
« È un nuovo tradimento che viene dall’interno della Chiesa. Queste persone sono, ai miei occhi, lupi ululanti che penetrano nell’ovile per spaventare ulteriormente e disperdere il gregge, mentre dovrebbero essere proprio loro, i Pastori della Chiesa, a prendersi cura dei più piccoli e proteggerli». In questa testimonianza di una donna vittima di abusi di coscienza, di potere, sessuali da parte di sacerdoti, i “lupi ululanti” sono quei Pastori che hanno negato a priori e che, anche una volta provati i fatti criminali, l’hanno resa oggetto di intimidazioni e annientata nella sua dignità, definendola come «una persona che, al più, potrà passare tra un quadro e il muro».
Ascoltare testimonianze come questa non è un esercizio di commiserazione, è un incontro con la carne di Cristo nella quale sono inferte ferite forse mai rimarginabili, ferite che, come diceva Lei, Santo Padre, non sono prescrivibili. Come potremmo parlare della protezione dei minori nella Chiesa, di responsabilità, accountability e trasparenza, senza avere presenti le vittime e le loro famiglie, gli abusatori, i complici, i negazionisti, coloro che sono ingiustamenti accusati, i negligenti, chi ha insabbiato, chi ha cercato di parlare e agire ma è stato messo a tacere?
In ginocchio: questa sarebbe la postura adeguata per trattare gli argomenti di questi giorni. In ginocchio davanti al Padre misericordioso, che vede lacerato il corpo di Cristo, la sua Chiesa, e ci invia a farci carico, come suo Popolo, delle ferite e a curarle con il balsamo del Suo amore. Non ho nulla da insegnare a Lei, Santità, a Loro, Eminenze, Eccellenze Reverendissime, alle Reverende Madri e ai Reverendi Padri qui convocati; credo piuttosto che insieme, nell’ascolto reciproco e fattivo, ci impegniamo a lavorare affinchè in futuro non desti più tanto clamore un evento come questo meeting, e la Chiesa, Popolo di Dio, si prenda cura, in modo competente, responsabile e amorevole, delle persone coinvolte, di quanto accaduto, affinchè la prevenzione non si esaurisca in un bel programma, ma divenga atteggiamento pastorale ordinario.
1. Situare e fondare opportunamente l’accountability
A fronte dell’abnormità insita in ogni genere di abuso perpetrato nei confronti di minori, si impone, anzitutto, un dovere di conoscenza di quanto accaduto, congiuntamente ad una presa di coscienza del suo significato, al dovere di verità, di giustizia, di riparazione e prevenzione affinché si consegua la non-reiterazione di tali abomini. La conoscenza degli abusi e della loro entità è, evidentemente, il punto di partenza fondamentale, del resto non è possibile prevedere alcun piano di prevenzione se non si conosce ciò da cui occorre rifuggire. Tuttavia la conoscenza dei fatti e la definizione dell’entità del fenomeno, pur necessaria e fondamentale, «da sé non basta» (FRANCESCO, Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018, n. 2): si richiede, per conseguire le esigenze sopra elencate di verità, giustizia, riparazione e prevenzione, l’assunzione della dovuta responsabilità da parte di chi ne è investito e il conseguente dovere di rendere ragione rispetto ad essa, ossia il dovere di accountability.
L’accountability impone un’operazione di valutazione e rendicontazione rispetto a scelte compiute e ad obiettivi individuati e più o meno realizzati. Essa risponde ad esigenze di carattere sociale, ponendo la persona che è investita di responsabilità dinanzi ad una resa dei conti non soltanto con se stessa ma anche nei confronti della società in cui vive e a beneficio della quale è chiamata a svolgere un determinato incarico. Tuttavia l’accountability nella Chiesa, contrariamente a quanto possa sembrare, non risponde in primo luogo a esigenze di carattere sociale e organizzativo. E neppure – sempre in primo luogo – alle necessità di trasparenza, alla quale siamo tutti chiamati a prestare particolare attenzione per ragioni di verità. Tali esigenze, da non trascurare né minimizzare, sono giuste, del resto la Chiesa non può estraniarsi da quanto la sua dimensione istituzionale esige, tuttavia non sono queste esigenze sociali a costituire il fondamento della accountability che è piuttosto da ricercarsi nella natura propria della Chiesa quale mistero di comunione.
Sappiamo che la natura comunionale della Chiesa emerge in particolare grazie al Concilio Vaticano II, sebbene, in verità, né la Costituzione dogmatica Lumen Gentium, né gli altri documenti di carattere ecclesiologico sembrino porre espressamente l’accento sulla ecclesiologia di comunione. Occorrerà attendere il Sinodo straordinario dei Vescovi dell’anno 1985 – convocato per «meditare, approfondire e promuovere l’applicazione degli insegnamenti del Vaticano II a venti anni dalla sua conclusione» (GIOVANNI PAOLO II, Discorso a conclusione della II Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi, 7 dicembre 1985) – affinché si elabori la categoria di comunione quale cifra interpretativa della Chiesa alla luce della rivelazione. Ciò emerge dal riferimento primo, diretto, fondante, alla dimensione sacramentale della Chiesa, ovvero a quel mistero trinitario nel quale la Chiesa riconosce il proprio volto, seppure in forma sacramentale e, pertanto, analogica: «veluti sacramentum», «ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Unicamente poggiando su tale fondamento acquisisce senso compiuto ogni azione nella Chiesa: anche un’azione connotata più spiccatamente da esigenze di carattere sociale quale può sembrare l’accountability, occorre sia ricondotta alla natura propria della Chiesa stessa, ovvero alla sua dimensione comunionale.
Che cosa può significare questo nel nostro ambito specifico? Non di rado avverto insofferenza nella Chiesa per l’attenzione che si dedica alla questione degli abusi sessuali sui minori. Un sacerdote, qualche giorno fa, ha esclamato: «Ancora? Si continua a parlare di abusi! È esagerata l’attenzione che la Chiesa riserva a questo tema». Ma anche una signora praticante mi ha detto candidamente: «Meglio non parlare di questi argomenti, perché altrimenti crescerà sfiducia verso la Chiesa. Parlarne offusca tutto il bene che si fa nelle parrocchie. Se la vedano il Papa, i Vescovi e i preti tra loro». Il parlarne, o non piuttosto gli abusi stessi – di coscienza, di potere, sessuali – offuscano il bene che si vive nelle parrocchie?! A queste persone – e prima ancora a me stessa – dico che prendere coscienza del fenomeno e rendere conto della propria responsabilità non è una fissazione, non è un’azione inquisitoria accessoria per soddisfare mere esigenze sociali, bensì un’esigenza scaturente dalla natura stessa della Chiesa come mistero di comunione fondato nella Trinità, come Popolo di Dio in cammino, che non evita, ma affronta, con sempre rinnovata consapevolezza comunionale, anche le sfide legate agli abusi occorsi al suo interno a danno dei più piccoli minando e spaccando questa comunione.
2. Alcune questioni ecclesiologiche conseguenti
Solo a partire dalla visione di Chiesa come sacramento che manifesta il mistero della comunione trinitaria, è possibile comprendere correttamente la varietà dei carismi, dei doni e ministeri nella Chiesa, la varietà dei ruoli e delle funzioni nel Popolo di Dio.
2.1 Una prima questione cruciale, che discende da quanto detto, è la seguente: i fedeli nella Chiesa non si attribuiscono ruoli e incarichi su base distributiva sociale per esigenze di funzionamento istituzionale: sappiamo bene che il sacerdozio comune dei fedeli, fondato nel battesimo, rende partecipi i cristiani, proprio in virtù del battesimo, del triplice munus di Cristo sacerdote, re e profeta (cf. LG 10). L’onesto riferimento, pertanto, alla Chiesa come comunione, quale Popolo di Dio in cammino, esige ed urge che tutte le componenti di questo Popolo, ciascuna nel modo che le è proprio, vivano conseguentemente i diritti-doveri di cui sono state rese partecipi nel battesimo. Non si tratta di accaparrarsi posti o funzioni o di spartirsi un potere: la chiamata ad essere il Popolo di Dio ci consegna una missione che ciascuno è inviato a vivere secondo i doni ricevuti, non da solo, ma per l’appunto come Popolo.
2.2 Una seconda questione importante nel contesto del nostro discorso inerisce la corretta comprensione del ministero ordinato, specialmente nel rapporto tra Vescovo e presbiteri. Se da un lato ai presbiteri è richiesto che siano uniti al loro Vescovo con sincera carità e obbedienza riconoscendo in lui l’autorità di Cristo quale Pastore supremo, nondimeno i Vescovi, come è scritto nel Decreto Presbyterorum Ordinis al n. 7, debbono prendersi «a cuore, in tutto ciò che possono, il loro [dei presbiteri] benessere materiale e soprattutto spirituale. È ai Vescovi, infatti, che incombe in primo luogo la grave responsabilità della santità dei loro sacerdoti: essi devono pertanto prendersi cura con la massima serietà della formazione permanente del proprio presbiterio (CD 15-16)».
Un corretto rapporto tra Vescovo e presbiteri conduce a una presa in carico reale, dal punto di vista materiale e spirituale, dei sacerdoti da parte del Vescovo, sul quale incombe in primo luogo la responsabilità della loro santità. Occorre che il ministero sacerdotale, ad ogni livello, avvalendosi di una solida formazione, sia vissuto per quello che è, come dedizione e servizio a Cristo e alla Chiesa lavando i piedi, secondo quanto Gesù ha fatto agli apostoli, pur deludendo molti dei suoi contemporanei perché non esercitava il potere che si attendevano: il ministero sacerdotale vissuto in quanto tale preserva da ogni tentazione di accarezzare il potere, di autoreferenzialità e autocompiacimento, di principato e di sfruttamento degli altri per coltivare il proprio piacere a qualsiasi livello, anche sessuale. Quanti sacerdoti, quanti Vescovi ci edificano con il loro ministero, con la loro vita di preghiera, di dedizione e servizio, stabilendo relazioni sane, libere all’interno del Popolo di Dio. A questi sacerdoti diciamo il nostro grazie, incoraggiandoli e sostenendoli nella vita di santità, di servizio nella vigna del Signore a cui sono chiamati!
2.3 Ulteriore nota da rimarcare, che discende dalla visione di Chiesa comunione, Popolo di Dio in cammino, è l’esigenza di interazione tra i vari carismi e ministeri. La Chiesa si rende visibile e operante nella sua natura comunionale se ciascun battezzato vive e compie ciò che gli è proprio, se la diversità di carismi e ministeri si esprime nel necessario coionvolgimento di ciascuno, pur nel rispetto delle differenze. Il citato documento conciliare del 1965 dedicato ai presbiteri stabiliva non soltanto che «i presbiteri devono riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa», ma li esortava altresì ad essere «pronti ad ascoltare il parere dei laici, tenendo conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter assieme riconoscere i segni dei tempi». E chiosava: «Non esitino ad affidare ai laici degli incarichi al servizio della Chiesa, lasciando loro libertà d’azione e un conveniente margine di autonomia, anzi invitandoli opportunamente a intraprendere con piena libertà anche delle iniziative per proprio conto» (PO 9). Si evidenzia, a partire dalla communio che costituisce la Chiesa, un necessario contributo diversificato di tutti, non per reclamare il protagonismo di qualcuno, ma per rendere visibile la ricchezza multiforme della Chiesa nel rispetto del proprium di ognuno, contro la pretesa che il carisma della sintesi sia la sintesi dei carismi.
2.4 Infine occorre che il coinvolgimento di tutto il Popolo di Dio sia necessariamente dinamico: i laici, i consacrati non sono chiamati ad essere meri esecutori di quanto disposto dai chierici, ma tutti servitori nell’unica vigna, in cui ciascuno contribuisce con il proprio apporto essendo egli stesso coinvolto nel discernimento che lo Spirito suggerisce alla Chiesa. Indubbiamente il ministero ordinato, nel suo grado più alto, quello episcopale, porta su di sé la responsabilità di prendere la decisione ultima, in forza della potestà che gli viene riconosciuta, tuttavia non può agire da solo o limitando a pochi la sua azione di discernimento. Sarà vitale per i Vescovi avvalersi del contributo, del consiglio e discernimento di cui tutti nella sua Chiesa, inclusi i laici, sono capaci, non soltanto per se stessi e per le scelte personali, ma come Chiesa e per il bene della Chiesa nell’hic et nunc in cui sono chiamati a vivere. È sempre il fondamento comunionale della Chiesa ad indicarci la via e il metodo, in questo caso un dinamismo di coinvolgimento di tutto il Popolo di Dio che comporta di vivere, camminando insieme, la sinodalità come processo condiviso, in cui ciascuno ha una parte diversa, responsabilità diversificate, ma tutti costituiscono l’unica Chiesa.
«Infatti – come leggiamo nella costituzione apostolica Episcopalis Communio del 15 settembre 2018 – la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale (LG 12). […] Un Vescovo che vive in mezzo ai suoi fedeli ha le orecchie aperte per ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7) e la “voce delle pecore”, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il Vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo» (EC 5).
Queste riflessioni ci invitano a rifuggire da due posizioni erronee. Un Vescovo non può pensare che le questioni riguardanti la Chiesa possano da lui essere risolte agendo da solo oppure esclusivamente tra pari, secondo il ritornello: «Solo un Vescovo può sapere cosa è bene per i Vescovi», oppure, in maniera analoga, «Solo un prete sa cosa sia bene per i preti, solo un laico per i laici, solo una donna per le donne», e così via.
Parimenti possiamo affermare che è erroneo, a mio modo di vedere, sostenere che il coinvolgimento dei laici in quanto tali in questioni che toccano i ministri ordinati sia garanzia di maggiore correttezza, in quanto sarebbero “terzi” rispetto agli eventi. Da qualche parte si invoca: «Costituiamo una commissione di laici perché è più credibile di una commissione di preti, che tendono a essere meno oggettivi, a coprire e difendere aprioristicamente». Da donna laica debbo onestamente constatare che indistintamente tra i sacerdoti, tra i religiosi, come tra i laici vi possono essere e vi sono persone non libere, disposte a coprire aprioristicamente, asservite a qualcuno invece di essere al servizio amorevole, intelligente e libero della Chiesa e fedeli alla loro propria vocazione. Tornare alla natura comunionale della Chiesa, dove si realizzano le diversità di carismi e ministeri non significa appiattimento ma comporta ricchezza e forza, aiuta a trovare le ragioni per evitare questi slogan estremi e improduttivi.
3. Spunti per alcune attuazioni pratiche
Avendo presenti i fondamenti e le questioni brevemente richiamate, questo incontro ci offre l’opportunità di conoscere quanto si sta attuando nella Chiesa, quanto è da implementare, consapevoli che se è vero che questo meeting convocato dal Papa non costituisce il punto di arrivo di un percorso concluso, validato e perfetto, è altrettanto vero che esso non è neppure il punto di partenza, quasi che si possano ignorare gli interventi magisteriali, normativi, pastorali sinora promossi e le numerose azioni che ne sono scaturite.
3.1 Primo spunto è pertanto la conoscenza e lo studio di quelle che sono le pratiche già rodate ed efficaci promosse in seno ad altri contesti ecclesiali, ad altri episcopati. Mi riferisco a pratiche che contemplino il coinvolgimento di persone competenti che rappresentano tutto il Popolo di Dio in quanto ogni battezzato, animato dallo Spirito, è idoneo ad esprimere un sensus fidei dal quale la Chiesa non può prescindere. In questo contesto è bene riconoscere il lavoro di coloro i quali, negli anni recenti, hanno dedicato intelligenza, cuore e mani a questa causa ascoltando le vittime, elaborando protocolli, linee guida, revisioni e quant’altro, avvalendosi di competenze specifiche attinte da tutto il Popolo di Dio. Tenuto conto della diversità dovuta ai vari contesti culturali e sociali in cui è presente la Chiesa, non vi sia una businnes class in alcune chiese particolari e una economy class in altre, ma l’unica Chiesa di Cristo si esprima dovunque, garantendo a tutti, dappertutto, strumenti, procedure, criteri che, al di là delle necessarie peculiarità locali, tutelino i minori perseguendo la verità, la giustizia, promuovendo la riparazione e la prevenzione in tema di abusi sessuali.
3.2 Nelle Linee guida nazionali sia inserito uno specifico capitolo che determini motivi e procedure di accountability, affinché i Vescovi e i Superiori religiosi stabiliscano una procedura di verifica ordinaria del compimento di quanto previsto e una motivazione delle azioni intraprese o meno, così da non trovarsi a dover giustificare successivamente le ragioni di un determinato comportamento, assoggettandolo alle esigenze del momento, magari legato ad un’azione difensiva. Prevedere una procedura ordinaria di verifica non andrebbe fraintesa quale sfiducia verso il Superiore o il Vescovo, ma considerata piuttosto come ausilio che gli consente di mettere a fuoco, anzitutto a se stesso e nel momento migliore, ossia quando tutti gli elementi sono chiari e compresenti, le ragioni di una determinata azione compiuta o omessa. Dire che anche il Vescovo deve sempre rendere ragione del suo operato a qualcuno non significa sottoporlo a un controllo o rivestirlo di sfiducia a priori, ma innestarlo nella dinamica della comunione ecclesiale dove tutte le membra agiscono in modo coordinato, secondo i propri carismi e ministeri. Se un sacerdote rende ragione alla comunità, al presbiterio e al suo Vescovo del proprio operato, un Vescovo a chi rende ragione? A quale accountability è soggetto? Individuare una realtà di responsabilizzazione non solo non lo indebolisce nella autorevolezza, ma lo valorizza come pastore di un gregge, nella sua funzione propria che non è separata dal popolo per il quale è chiamato a dare la vita. Potrà anche accadere, come per ciascuno di noi, che dal “rendere ragione” scaturisca la consapevolezza di un errore, diventi evidente che una strada intrapresa è sbagliata, magari perché sul momento si pensava – sbagliando – di agire per il bene. Ciò non costituirà un giudizio da cui difendersi per recuperare credito, una macchia sulla propria onorabilità, un’insidia alla propria potestà ordinaria, propria e immediata (cf CD 8a). Al contrario, ciò sarà la testimonianza di un cammino fatto insieme, che solo insieme può trovare il discernimento di una verità, di una giustizia, di una carità. La logica della comunione non sopporta una accusa e una difesa, ma un concorrere (“con-correre” appunto, dunque solo in comunione) al bene di tutti. Anche l’accountability pertanto è una forma, oggi ancor più necessaria, di questa logica di comunione. L’avvio, in sede locale, su base diocesana o regionale, di consigli che operino in maniera corresponsabile con i Vescovi e Superiori religiosi, supportandoli in questo compito con competenza e fungendo da luogo di verifica e discernimento rispetto alle iniziative da intraprendersi, pur senza sostituirsi a loro né ingerire in decisioni che ricadono sotto la diretta responsabilità giurisdizionale del Vescovo o del Superiore, può costituire un esempio e un modello di una sana collaborazione di laici, religiosi, chierici nella vita della Chiesa.
3.3 È auspicabile che nel territorio di ciascuna Conferenza episcopale siano create Commissioni consultive indipendenti per consigliare e assistere i Vescovi e i Superiori religiosi e promuovere un livello uniforme di responsabilità nelle diverse Diocesi. Tali commissioni siano composte da laici, senza che si escludano religiosi e chierici. Non si tratterebbe, nel caso, di persone che giudicano i Vescovi, ma di fedeli che prestano il loro consiglio e assistenza ai Pastori, anche valutandone con criteri evangelici l’operato, e che altresì informano i fedeli tutti del territorio riguardo alle procedure appropriate. Tali Commissioni consultive nazionali, a loro volta, mediante relazioni e riunioni periodiche tra loro, potranno contribuire ad assicurare una maggiore uniformità di pratiche e un confronto sempre più efficace, in modo che le Chiese particolari imparino l’una dall’altra in spirito di reciproca fiducia e comunione, con lo scopo di assumersi e condividere fattivamente la preoccupazione per i più piccoli e vulnerabili.
3.4 Sarà da considerare la opportunità di un ufficio centrale – non di accountability che è invece da valutarsi in sede locale – che promuova la formazione di questi organismi in una identità propriamente ecclesiale, solleciti e verifichi con cadenza regolare il corretto funzionamento di quanto avviato a livello locale, con una attenzione alla correttezza anche dal punto di vista ecclesiologico, in modo che i carismi e ministeri in campo siano tutti adeguatamente rappresentati e ciascuno possa contribuire con il proprio specifico apporto preservando altresì la libertà di ciascuno.
3.5 Occorrerà rivedere l’attuale normativa sul segreto pontificio, in modo che esso tuteli i valori che intende proteggere, ossia la dignità delle persone coinvolte, la buona fama di ciascuno, il bene della Chiesa, ma nello stesso tempo consenta lo sviluppo di un clima di maggiore trasparenza e fiducia, evitando l’idea che il segreto venga utilizzato per nascondere problemi anziché per proteggere i beni in gioco.
3.6 Saranno inoltre da affinare criteri per una corretta comunicazione in un tempo come il nostro in cui le esigenze della trasparenza devono contemperarsi con quelle della riservatezza: infatti una ingiustificata riservatezza, così come una incontrollata divulgazione, rischiano di generare cattiva comunicazione e di non rendere un servizio alla verità. Accountability è anche sapere comunicare. Se infatti non si comunica, come si può rendere conto ad altri? E dunque quale comunione può esserci tra noi?
Conclusione
Le considerazioni appena accennate riguardo possibili azioni da compiere come Chiesa, come Popolo di Dio in comunione e con corresponsabilità, non costituiscono se non una sollecitazione alla riflessione e al confronto trasversale, soprattutto nei lavori di gruppo, al fine di suscitare approfondimenti e applicazioni concrete. Infatti, come ci esorta la Lettera al Popolo di Dio, oggi «siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura».

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ZENIT Staff

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