Incontro su "La Protezione dei Minori nella Chiesa" - Foto © Copyright Vatican Media

Card. Luis Antonio Tagle: "L’odore delle pecore: Conoscere il loro dolore e guarire le loro ferite è il cuore del compito del pastore"

Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa”

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Alle ore 9 di questa mattina hanno avuto inizio i lavori dell’Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa”, che si svolgono presso l’Aula nuova del Sinodo in Vaticano fino al 24 febbraio 2019, presieduti dal Santo Padre Francesco.
Partecipano all’Incontro i Presidenti delle Conferenze Episcopali della Chiesa Cattolica, i Capi delle Chiese Orientali Cattoliche, i rappresentanti dell’Unione dei Superiori Generali e dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali, Membri della Curia Romana e del Consiglio di Cardinali.
Dopo la preghiera iniziale, il Santo Padre ha pronunciato il Suo intervento a cui hanno fatto seguito la proiezione di un video, le Relazioni dell’Em.mo Card. Luis Antonio Tagle, di S.E. Mons. Charles Jude Scicluna e i lavori di gruppo.
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L’abuso di minori da parte di sacerdoti ordinati ha inflitto ferite non solo alle vittime ma anche alle loro famiglie, al clero, alla Chiesa, alla società nel senso più ampio, agli stessi abusatori e ai vescovi. Ma è anche vero, e noi lo ammettiamo umilmente e con grande tristezza, che queste ferite sono state inflitte da noi vescovi alle vittime e quindi di fatto all’intero Corpo di Cristo. La mancanza di risposte da parte nostra alla sofferenza delle vittime, fino al punto di respingerle e di coprire lo scandalo al fine di proteggere gli abusatori e l’istituzione ha lacerato la nostra gente, lasciando una profonda ferita nel nostro rapporto con coloro ai quali siamo inviati per servirli. Giustamente, la gente si domanda: “Non è forse vero che proprio voi, che dovreste avere su di voi l’odore delle pecore, siete scappati quando vi siete trovati di fronte al fetore della sporcizia gettata sui bambini e sulle persone vulnerabili che invece avreste dovuto proteggere, perché era troppo acre da sopportare?”.
Le ferite hanno bisogno di essere guarite. Ma in che cosa consiste la guarigione? Come possiamo proprio noi vescovi, che siamo stati partecipi del ferimento, promuovere oggi una guarigione in questo contesto specifico? Il tema della guarigione delle ferite è stato al centro di molti studi interdisciplinari. Non pretendo di conoscere tutti i ritrovati delle scienze umane e sociali sull’argomento, ma credo che abbiamo bisogno di recuperare e conservare una prospettiva di fede ed ecclesiale a guidarci. Ripeto: una prospettiva di fede ed ecclesiale a guidarci, come molte volte ha ribadito Papa Francesco. Per la mia presentazione, in particolare nella prima parte, invito tutti a guardare al Signore risorto e a imparare da Lui, dai suoi discepoli e dal loro incontro.1 Voglio menzionare a questo puto gli studi pubblicati da Roberto Goizueta, Richard Horsley, Barbara Reid, Tomas Halik, Robert Enright e il cardinale Albert Vanhoye, per menzionare solo alcuni autori che mi hanno aiutato nelle mie riflessioni.
L’apparizione del Signore risorto ai Discepoli e a Tommaso (Gv 20:19-28)
Il Vangelo di San Giovanni narra di un’apparizione del Signore risorto ai discepoli la sera del primo giorno della settimana. Le porte erano chiuse a chiave perché i discepoli tremavano dalla paura, chiedendosi se sarebbe toccato presto a loro, di essere arrestati e crocifissi. È proprio in questo momento di assoluta impotenza che Gesù, risorto ma ancora ferito, appare in mezzo a loro. Dopo averli salutati con il messaggio della risurrezione – “la pace sia con voi” – Egli mostra loro le sue mani e il suo fianco, ancora segnati dalle ferite aperte. Solo avvicinandosi alle Sue ferite, avrebbero potuto essere inviati in missione di riconciliazione e perdono, con il potere dello Spirito Santo. In quel momento, Tommaso non era con loro. Ascoltiamo la narrazione dell’incontro tra il Signore risorto e Tommaso. “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!»”.
Coloro che sono inviati devono essere in contatto con l’umanità ferita
Notate come Gesù ancora una volta li invita a guardare le sue ferite. Addirittura insiste affinché Tommaso metta il suo dito nelle ferite della mano e tocchi la ferita sul costato. Provate a immaginare come dev’essersi sentito Tommaso. Ma nel vedere le ferite del Signore risorto, egli esprime la suprema professione di fede a Dio come Signore e Dio. Vedere e toccare le ferite di Gesù è fondamentale per l’atto e la professione di fede.
Cosa possiamo imparare da questo incontro così intimo? Ripetendo due volte questa azione, l’evangelista chiarisce che coloro che sono inviati a proclamare il nocciolo della nostra fede cristiana, cioè la morte e risurrezione di Cristo, potranno farlo con autenticità soltanto se saranno costantemente in contatto con le ferite dell’umanità. Questa è una delle caratteristiche del nostro ministero. Questo vale per Tommaso e per la Chiesa di tutti i tempi, specialmente ai nostri tempi. Mons. Tomas Halik scrive: “Cristo va da lui, da Tommaso, e gli mostra le sue ferite. Questo significa che la risurrezione non è l’annullamento o la svalutazione della Croce. Le ferite sempre rimangono ferite”. Le ferite di Cristo rimangono le ferite del nostro mondo. E, aggiunge mons. Halik, “il nostro mondo è pieno di ferite. È mia convinzione che quelli che chiudono gli occhi di fronte alle ferite del nostro mondo non hanno il diritto di dire ‘mio Signore e mio Dio’”. Per lui, vedere e toccare le ferite di Cristo nelle ferite dell’umanità è una condizione per vivere una fede autentica. E ancora dice: “Io non posso credere finché non tocco le ferite, la sofferenza del mondo, perché tutte le ferite doloranti, tutte le miserie del mondo e dell’umanità sono le ferite di Cristo! Non ho il diritto di confessare Dio se non prendo sul serio la sofferenza del mio prossimo. Quella fede che vorrebbe chiudere gli occhi davanti alla sofferenza della gente, è soltanto un’illusione”. La fede nasce e ri-nasce soltanto dalle ferite di Cristo crocifisso e risorto, visto e toccato nelle ferite dell’umanità. Solo una fede ferita è credibile (Halik). Come possiamo professare la fede in Cristo se chiudiamo gli occhi davanti a tutte le ferite inflitte dagli abusi?
Cosa è in gioco
Fratelli e sorelle, ecco cosa è in gioco in questo momento di crisi, originato dall’abuso dei bambini e dalla nostra cattiva gestione di questo crimine. La nostra gente ha bisogno che noi ci avviciniamo alle sue ferite, che riconosciamo i nostri peccati se vogliamo dare una testimonianza autentica e credibile della nostra fede nella risurrezione. Questo significa che ciascuno di noi, come pure i nostri fratelli e sorelle che sono a casa, devono assumere personalmente la responsabilità di portare la guarigione a questa ferita inferta al Corpo di Cristo, che devono assumere l’impegno di fare tutto quanto sia in nostro potere e capacità per fare in modo che i bambini, nelle nostre comunità, siano al sicuro e amati. La presenza delle ferite della crocifissione sul Signore risorto rappresenta, per me, una sfida alla logica umana. Se si potesse fare una coreografia della risurrezione, Gesù si sarebbe presentato a casa di Erode o nel portico di Pilato, e avrebbe pronunciato il più grande “Ve l’avevo detto” della storia. Gesù avrebbe avuto il suo trionfo finale eliminando ogni segno di sofferenza, ingiustizia e sconfitta. Avrebbe fatto in modo che tutto questo rimanesse sepolto nel buio del passato e mai tornasse alla luce. Ma non è questo il modo di Gesù Cristo.
La risurrezione non è una vittoria illusoria. Mostrando le sue ferite ai discepoli, Gesù ristabilisce la loro memoria. Correttamente, Roberto Goizueta commenta che “le ferite sul corpo glorificato di Cristo rappresentano la memoria incarnata delle relazioni che hanno definito la sua vita e la sua morte”. Le ferite di Gesù sono la conseguenza del suo rapporto amorevole e compassionevole con i poveri, i malati, gli esattori delle tasse, le donne di dubbia reputazione, le persone malate di lebbra, i bambini rumorosi, gli estranei e gli stranieri. Le ferite di Gesù sono la conseguenza del fatto che Egli abbia permesso a se stesso di essere ferito quando ha toccato le ferite degli altri. E’ stato crocifisso perché amava queste persone concrete che a loro volta erano state ferite dalla società e dalla religione. Condividendo la loro debolezza e le loro ferite, divenne un fratello compassionevole piuttosto che un giudice severo. La Lettera agli Ebrei – 5, 8-9 – dice: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”. Le ferite del Signore risorto ricordano ai discepoli quell’amore che è pronto a essere ferito per compassione nei riguardi del genere umano. Le sue ferite sono le ferite degli altri che Lui liberamente ha preso su di sé. Lui non ha inflitto ferite agli altri, ma era pronto ad essere ferito in virtù del suo amore e della sua comunione con loro. Come diceva Frederick Gaiser, “il pastore che guarisce non è mai lontano dai pericoli, mai inattaccabile dai mali e dalle debolezze dalle quali cerca di proteggere il gregge”. Solo le ferite d’amore e di compassione possono guarire.
Non abbiate paura
Fratelli e sorelle, dobbiamo mettere da parte ogni esitazione ad avvicinarci alle ferite della nostra gente, per paura di essere feriti noi stessi. È vero, molte delle ferite che riceveremo sono parte del processo di ricostruzione della memoria al quale dobbiamo sottoporci, come fecero i discepoli di Gesù. Le ferite del Signore risorto ricordarono ai discepoli il tradimento, il loro proprio tradimento e l’abbandono di Gesù quando, per paura, vollero mettere in salvo la propria vita. Scapparono ai primi segnali di pericolo, terrorizzati dal prezzo da pagare per essere suoi discepoli e, nel caso di Pietro, negando addirittura di conoscere il Signore.
Le ferite di Gesù ricordano a loro e anche a noi che le ferite spesso sono inflitte dalla cecità che viene dall’ambizione e dal legalismo e dall’uso improprio del potere che hanno condannato una persona innocente a morire da criminale. Le ferite del Cristo risorto portano la memoria della sofferenza innocente, ma anche della nostra debolezza e della nostra immoralità. Se vogliamo essere operatori della guarigione, dobbiamo rigettare qualsiasi tendenza che appartenga a un pensiero mondano che rifiuta di vedere e toccare le ferite degli altri, quelle ferite che sono le ferite di Cristo nella gente ferita. Le persone ferite dall’abuso e dallo scandalo hanno bisogno che noi siamo, adesso, saldi nella fede. Il mondo ha bisogno di testimonianze autentiche della risurrezione di Cristo che ci avvicinino alle sue ferite come primo atto di fede. Voglio sottolinearlo: è un atto di fede.
Roberto Goizueta sostiene che la negazione delle ferite e della morte porta alla morte degli altri e di noi stessi. Oggi nel cuore della gente, ma anche nel nostro stesso cuore, c’è una grande paura che induce l’umanità dei nostri giorni a evitare di toccare le ferite del nostro mondo, semplicemente perché ha paura di guardare in faccia le nostre proprie ferite, la propria mortalità, debolezza, immoralità e vulnerabilità. Ernest Becker osserva che tendiamo a evitare il dolore e la sofferenza perché ci ricordano dolorosamente che siamo vulnerabili. Siamo stati ingannati a credere che avere tanto denaro, la giusta polizza assicurativa, la più assoluta sicurezza, le telecamere a circuito chiuso, l’ultimo modello di automobile e gadget e l’appartenenza a club che procurano il ringiovanimento e la salute possano renderci immortali. Purtroppo con questo eliminiamo anche le persone ferite tra di noi, eliminandole dalle strade quando ci sono visite di personalità importanti o nascondendo le loro baracche dietro a pannelli dipinti. In termini pungenti Goizueta afferma: “Se noi rinneghiamo la morte, la infliggiamo ad altri. Se rinneghiamo la morte, noi infliggiamo la morte. Ma la infliggiamo anche a noi stessi.
La paura del dolore e della vulnerabilità che ci porta a evitare rapporti umani veri, a evitare quel vero amore che sempre implica la resa e la vulnerabilità di fronte all’altro, in definitiva uccide la nostra – la nostra! – vita interiore, la nostra capacità di sentire qualsiasi cosa – né dolore né gioia, né amore”. La nostra capacità di amare potrebbe morire. Il terrore delle ferite ci isola e ci rende indifferenti alle necessità degli altri. La paura induce le persone ad assumere atteggiamenti violenti e irrazionali. La paura induce le persone a difendersi anche quando non c’è nessun pericolo. Coloro che seminano il terrore negli altri e nella società in realtà hanno paura di se stessi. In Gesù risorto sappiamo che guardando e toccando le ferite di coloro che soffrono, noi in realtà tocchiamo le nostre stesse ferite e tocchiamo Gesù. Diventiamo fratelli e sorelle gli uni delle altre. Riconosciamo la nostra colpa comune nell’infliggere ferite al genere umano e alla creazione. Sentiamo la chiamata alla riconciliazione. Osserviamo la presenza paziente del Signore risorto nel nostro mondo spaccato.
Accompagnamento continuo nella solidarietà
A proposito della seconda e ultima parte del mio contributo: una proposta psicologica alla luce della fede; alla luce della fede, e una proposta psicologica. In questa parte mi appoggio fortemente al dr. Robert Enright, professore all’Università di Wisconsin-Madison negli Stati, pioniere nello studio socioscientifico del perdono. Noi collaboriamo con lui in un programma sul perdono nelle Filippine. E infatti, proprio ora è in corso un seminario con gli Educatori delle Scuole cattoliche a Manila sul tema “Dolore, ferite e perdono”. Secondo lui, uno dei punti che dobbiamo valutare è: una volta ottenuta giustizia, come possiamo aiutare le vittime a guarire dagli effetti degli abusi? La giustizia è necessaria, ma da sola non basta per guarire il cuore dell’uomo. Se vogliamo rendere un servizio alle vittime e a tutte le persone ferite dalla crisi, dobbiamo prendere sul serio la loro ferita di risentimento e dolore e la loro necessità di guarigione. Il risentimento è una malattia che lentamente ma inesorabilmente infetta le persone finché uccide il loro entusiasmo e la loro energia. Con l’aumentare dello stress, sono inclini a fortissime crisi di ansia e depressioni, a una bassissima autostima e a conflitti interpersonali che vengono dalla frattura interiore che hanno subito.
Prima di sollevare il punto di chiedere alle vittime di perdonare, come parte della loro guarigione, dobbiamo chiarire che non stiamo suggerendo loro di lasciare perdere tutto, giustificare l’abuso e semplicemente andare avanti. No. Assolutamente no. Senza dubbio, sappiamo anche che quando le vittime arrivano al momento del perdono nei riguardi di chi ha fatto loro del male, avviene una guarigione veramente profonda e il comprensibile risentimento che nasce nel loro cuore si pacifica. Noi sappiamo che il perdono è una via potente e anche scientificamente dimostrata strada che aiuta a eliminare il dolore, il sentimento nel cuore dell’uomo. Noi, Chiesa, dobbiamo continuare a camminare insieme con le persone profondamente ferite dall’abuso costruendo fiducia, dando amore incondizionato e ripetutamente chiedendo perdono nella piena consapevolezza del fatto che in realtà quel perdono non ci spetta di diritto ma che potremo riceverlo soltanto se ci viene elargito come un dono e una grazia nel processo di guarigione. In ultimo, siamo preoccupati per il fatto che in alcuni casi vescovi e superiori religiosi siano tentati – a volte forse addirittura sotto pressione – di scegliere tra la vittima e l’abusatore. Chi dobbiamo aiutare? A chi dare aiuto? La riflessione su giustizia e perdono ci porta alla risposta: a tutti e due. Per quanto riguarda le vittime, dobbiamo aiutarle a manifestare le loro ferite profonde e a guarirne. Per quanto riguarda gli abusatori, è necessario applicare la giustizia, aiutarli a guardare in faccia la verità senza razionalizzazioni, e allo stesso tempo a non trascurare il loro mondo interiore, le loro ferite. A volte siamo tentati a pensare in termini di “o/oppure”: ci sforziamo di ottenere giustizia, oppure cerchiamo di offrire perdono. Dobbiamo spostarci sulla dimensione di “entrambi/e”, ponendoci deliberatamente queste domande: come possiamo amministrare la giustizia e favorire il perdono di fronte a queste ferite dell’abuso sessuale? Come possiamo prevenire un perdono distorto in modo che non sia equiparato al lasciar scappare via l’ingiustizia, andare avanti e lasciar perdere il male? Come possiamo mantenere un’ottica attenta del perdono come offerta di una sorprendente misericordia e di amore incondizionato nei riguardi di chi ha fatto il male, e al tempo stesso impegnarci per la giustizia? Come possiamo rinnovare la Chiesa mediante una decisa correzione di un preciso errore e camminare insieme alle vittime, pazientemente e costantemente chiedendo perdono, sapendo che questo dono può guarirle ancora meglio?
Conclusione
Prima di leggere il paragrafo conclusivo, vorrei leggere una parte della “Lettera al popolo di Dio pellegrino in Cile”, che Papa Francesco ha scritto il 31 maggio 2018, al no. 2: “Senza questa visione di fede, qualsiasi cosa potremmo dire o fare andrebbe a vuoto. Questa certezza è imprescindibile per guardare al presente senza evasività ma con audacia, con coraggio ma saggiamente, con tenacia ma senza violenza, con passione ma senza fanatismo, con costanza ma senza ansietà, e così cambiare tutto quello che oggi può mettere a rischio l’integrità e la dignità di ogni persona. Infatti, le soluzioni di cui c’è bisogno richiedono che si affrontino i problemi senza farsene irretire o, peggio ancora, ripetere quegli stessi meccanismi che vogliono eliminare”.
Imparando dal Signore risorto e dai suoi discepoli, guardiamo e tocchiamo le ferite delle vittime, delle famiglie, dei chierici colpevoli e innocenti, della Chiesa e della società. Osservando Gesù ferito dal tradimento e dall’abuso di potere, riconosciamo le piaghe delle persone ferite da coloro che avrebbero dovute proteggerle. In Gesù sperimentiamo la misericordia che tutela la giustizia e celebra il grande dono del perdono. Speriamo che la Chiesa diventi una comunità di giustizia che viene dalla comunione e dalla compassione, una Chiesa capace di procedere in una missione di riconciliazione con il mondo ferito, nello Spirito Santo. Una volta ancora, il Signore crocifisso e risorto è in mezzo a noi, in questo momento, ci mostra le sue ferite e proclama: “La pace sia con voi!”. Preghiamo di crescere nella nostra fede in questo grande mistero. Grazie.
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1 Gli Studi pubblicati da Roberto Goizueta, Richard Horsley, Barbara Reid, Tomas Halik, Robert Enright e dal cardinale Albert Vanhoye, per nominare solo alcuni autori, mi sono stati di aiuto nelle mie riflessioni

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ZENIT Staff

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