- Il filo dall’alto
Nel delineare i tratti, o le virtù, che devono brillare nella vita dei rinati dallo Spirito, dopo aver parlato della carità e dell’umiltà, san Paolo, nel capitolo 13 della Lettera ai Romani, arriva a parlare anche dell’obbedienza:
“Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordinamento voluto da Dio” (Rm 13, 1 ss).
Il seguito del brano, che parla della spada e dei tributi, come pure il confronto con altri testi del Nuovo Testamento sullo stesso argomento (cf Tt 3, 1; 1 Pt 2, 13-15), indicano con tutta chiarezza che l’Apostolo non parla qui dell’autorità in genere e di ogni autorità, ma solo dell’autorità civile e statale. San Paolo tratta di un aspetto particolare dell’obbedienza che era particolarmente sentito nel momento in cui scriveva e, forse, dalla comunità cui scriveva.
Era il momento in cui stava maturando, in seno al giudaismo palestinese, la rivolta zelota contro Roma che si concluderà, pochi anni dopo, con la distruzione di Gerusalemme. Il cristianesimo era nato dal giudaismo; molti membri della comunità cristiana, anche di Roma, erano ebrei convertiti. Il problema se obbedire o no allo stato romano si poneva, indirettamente, anche per i cristiani.
La Chiesa apostolica era davanti a una scelta decisiva. San Paolo, come del resto tutto il Nuovo Testamento, risolve il problema alla luce dell’atteggiamento e delle parole di Gesù, specialmente della parola sul tributo a Cesare (cf Mc 12, 17). Il Regno predicato da Cristo “non è di questo mondo”, non è, cioè, di natura nazionale e politica. Può, perciò, vivere sotto qualsiasi regime politico, accettandone i vantaggi (come era la cittadinanza romana), ma insieme anche le leggi. Il problema viene, insomma, risolto nel senso dell’obbedienza allo stato.
L’obbedienza allo stato è una conseguenza e un aspetto di un’obbedienza ben più importante e comprensiva che l’Apostolo chiama “l’obbedienza al Vangelo” (cf Rm 10, 16). Il severo ammonimento dell’Apostolo mostra che pagare le tasse e in genere compiere il proprio dovere verso la società non è solo un dovere civile, ma anche un dovere morale e religioso. E’ una esigenza del precetto dell’amore del prossimo. Lo stato non è una entità astratta; è la comunità di persone che lo compongono. Se io non pago le tasse, se deturpo l’ambiente, se trasgredisco le regole del traffico, io danneggio e mostro di disprezzare il prossimo. Su questo punto noi italiani (e forse non solo noi) dovremmo rivedere e aggiungere qualche domande ai nostri esami di coscienza tradizionali.
Tutto ciò, come si vede, è molto attuale. Ma noi non possiamo limitare il discorso sull’obbedienza a questo solo aspetto dell’obbedienza allo stato. San Paolo ci indica il posto in cui si colloca il discorso cristiano sull’obbedienza, ma non ci dice, in questo solo testo, tutto quello che si può dire di tale virtù. Egli tira qui le conseguenze di principi posti in precedenza, nella stessa Lettera ai Romani e anche altrove, e noi dobbiamo andare alla ricerca di tali principi per fare un discorso sull’obbedienza che sia utile e attuale per noi oggi.
Dobbiamo andare alla scoperta dell’obbedienza “essenziale”, dalla quale scaturiscono tutte le obbedienze particolari, compresa quella alle autorità civili. C’è infatti un’obbedienza che riguarda tutti – superiori e sudditi, religiosi e laici –, che è la più importante di tutte, che regge e vivifica tutte le altre, e questa obbedienza non è l’obbedienza dell’uomo all’uomo, ma l’obbedienza dell’uomo a Dio.
Dopo il Concilio Vaticano II qualcuno scrisse: “Se c’è un problema dell’obbedienza oggi, esso non è quello della docilità diretta allo Spirito Santo – alla quale, anzi, ognuno mostra di appellarsi volentieri – ma è piuttosto quello della sottomissione a una gerarchia, a una legge e a un’autorità umanamente espresse”. Sono convinto anch’io che sia così. Ma è proprio per rendere possibile di nuovo questa obbedienza concreta alla legge e all’autorità visibile che dobbiamo ripartire dall’obbedienza a Dio e al suo Spirito.
L’obbedienza a Dio è come “il filo dall’alto” che regge la splendida tela del ragno appesa a una siepe. Scendendo dall’alto mediante il filo che egli stesso produce, il ragno costruisce la sua tela, perfetta e tesa a ogni angolo. Tuttavia quel filo dall’alto che è servito a costruire la tela non viene troncato una volta terminata l’opera, ma resta. Anzi, è esso che, dal centro, sorregge tutto l’intreccio; senza di esso tutto si affloscia. Se si spezza uno dei fili laterali (io ne ho fatto una volta la prova), il ragno accorre e ripara velocemente la sua tela, ma appena viene tagliato quel filo dall’alto si allontana: non c’è più nulla da fare.
Avviene qualcosa di simile a proposito della trama delle autorità e delle obbedienze in una società, in un ordine religioso e nella Chiesa. Ognuno di noi vive in una fitta tela di dipendenze: dalle autorità civili, da quelle ecclesiastiche; in queste ultime, dal superiore locale, dal vescovo, dalla Congregazione del clero o dei religiosi, dal Papa. L’obbedienza a Dio è il filo dall’alto: tutto è costruito su di essa, ma essa non può essere dimenticata neppure dopo che è finita la costruzione. In caso contrario, tutto si ripiega su se stesso e non si capisce più perché si deve obbedire.
- L’obbedienza di Cristo
È relativamente semplice scoprire la natura e l’origine dell’obbedienza cristiana: basta vedere in base a quale concezione dell’obbedienza Gesù è definito, dalla Scrittura, “l’obbediente”. Scopriamo subito, in questo modo, che il vero fondamento dell’obbedienza cristiana non è un’idea di obbedienza, ma è un atto di obbedienza; non è il principio astratto di Aristotele secondo cui “l’inferiore deve sottostare al superiore”, ma è un evento; non si trova nella “retta ragione”, ma nel kerigma, e tale fondamento è che Cristo “si è fatto obbediente fino alla morte” (Fil 2, 8); che Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì e reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 8-9).
Il centro luminoso, da cui prende luce tutto il discorso sull’obbedienza nella Lettera ai Romani, è Rm 5, 19: “Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”. Chi conosce il posto che occupa, nella Lettera ai Romani, la giustificazione, può conoscere, da questo testo, il posto che vi occupa l’obbedienza!
Cerchiamo di conoscere la natura di quell’atto di obbedienza su cui è fondato il nuovo ordine; cerchiamo di conoscere, in altre parole, in che è consistita l’obbedienza di Cristo. Gesù, da bambino, obbedì ai genitori; poi, da grande, si sottomise alla legge mosaica, al Sinedrio, a Pilato. San Paolo però non pensa a nessuna di queste obbedienze; pensa invece all’obbedienza di Cristo al Padre.
L’obbedienza di Cristo è considerata l’esatta antitesi della disobbedienza di Adamo: “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5, 19; cf 1 Cor 15, 22). Ma a chi disobbedì Adamo? Non certo ai genitori, all’autorità, alle leggi. Disobbedì a Dio. All’origine di tutte le disobbedienze c’è una disobbedienza a Dio e all’origine di tutte le obbedienze c’è l’obbedienza a Dio.
L’obbedienza ricopre tutta la vita di Gesù. Se san Paolo e la Lettera agli Ebrei mettono in luce il posto dell’obbedienza nella morte di Gesù, san Giovanni e i Sinottici completano il quadro, mettendo in luce il posto che l’obbedienza ebbe nella vita di Gesù, nel suo quotidiano. “Mio cibo – dice Gesù nel Vangelo di Giovanni – è fare la volontà del Padre” e “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 4, 34; 8, 29). La vita di Gesù è come guidata da una scia luminosa formata dalle parole scritte per lui nella Bibbia: “Sta scritto… Sta scritto”. Così vince le tentazioni nel deserto. Gesù desume dalle Scritture il “si deve” (dei) che regge tutta la sua vita.
La grandezza dell’obbedienza di Gesù, oggettivamente si misura “dalle cose che patì” e soggettivamente dall’amore e dalla libertà con cui obbedì. In lui rifulge in grado sommo l’obbedienza filiale. Anche nei momenti più estremi, come quando il Padre gli porge il calice della passione da bere, sulle sue labbra non si spegne mai il grido filiale: “Abbà! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, esclamò sulla croce (Mt 27, 46); ma aggiunse subito, secondo Luca: “Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito” (Lc 23, 46). Sulla croce, Gesù “si abbandonò al Dio che lo abbandonava” (qualsiasi cosa si intenda con questo abbandono del Padre). Questa è l’obbedienza fino alla morte; questa è “la roccia della nostra salvezza”.
- L’obbedienza come grazia: il battesimo
Nel capitolo quinto della Lettera ai Romani, san Paolo ci presenta Cristo come il capostipite degli obbedienti, in opposizione ad Adamo che fu il capostipite dei disobbedienti. Nel capitolo successivo, il sesto, l’Apostolo rivela in che modo noi entriamo nella sfera di questo avvenimento, e cioè attraverso il battesimo. San Paolo pone anzitutto un principio: se tu ti poni liberamente sotto la giurisdizione di qualcuno, sei tenuto poi a servirlo e a obbedirgli:
“Non sapete voi che, se vi mettete sotto l’obbedienza di qualcuno per servirlo, siete servi di colui sotto la cui obbedienza vi siete messi:
sia del peccato per la morte, sia dell’obbedienza per la giustizia?” (Rm 6, 16).
Ora, stabilito il principio, san Paolo ricorda il fatto: i cristiani si sono, in realtà, liberamente messi sotto la giurisdizione di Cristo, il giorno che, nel battesimo, lo hanno accettato come loro Signore: “Voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore all’insegnamento nella forma in cui vi è stato trasmesso, e così, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia” (Rm 6, 17). Nel battesimo è avvenuto un cambiamento di padrone, un passaggio di campo: dal peccato alla giustizia, dalla disobbedienza all’obbedienza, da Adamo a Cristo. La liturgia ha espresso tutto ciò, attraverso l’opposizione: “Rinuncio-Credo”.
L’obbedienza è dunque, per la vita cristiana, qualcosa di costitutivo; è il risvolto pratico e necessario dell’accettazione della signoria di Cristo. Non c’è signoria in atto, se non c’è, da parte dell’uomo, obbedienza. Nel battesimo noi abbiamo accettato un Signore, un Kyrios, ma un Signore “obbediente”, uno che è diventato Signore proprio a causa della sua obbedienza, uno la cui signoria è, per così dire, sostanziata di obbedienza. L’obbedienza qui non è tanto sudditanza quanto piuttosto somiglianza; obbedire a un tale Signore è somigliargli, perché è proprio per la sua obbedienza fino alla morte che egli ha ottenuto il nome di Signore che è al di sopra di ogni altro nome (cf. Fil 2, 8-9).
Scopriamo, da ciò, che l’obbedienza, prima che virtù, è dono, prima che legge, è grazia. La differenza tra le due cose è che la legge dice di fare, mentre la grazia dona di fare. L’obbedienza è anzitutto opera di Dio in Cristo, che poi viene additata al credente perché, a sua volta, la esprima nella vita con una fedele imitazione. Noi non abbiamo, in altre parole, solo il dovere di obbedire, ma abbiamo ormai anche la grazia di obbedire!
L’obbedienza cristiana si radica, dunque, nel battesimo; per il battesimo tutti i cristiani sono “votati” all’obbedienza, ne hanno fatto, in certo senso, “voto”. La riscoperta di questo dato comune a tutti, fondato sul battesimo, viene incontro a un bisogno vitale dei laici nella Chiesa. Il concilio Vaticano II ha enunciato il principio della “universale chiamata alla santità” del popolo di Dio (LG, 40)e, siccome non si dà santità senza obbedienza, dire che tutti i battezzati sono chiamati alla santità è come dire che tutti sono chiamati all’obbedienza, che c’è anche una universale chiamata all’obbedienza.
- L’obbedienza come “dovere”: l’imitazione di Cristo
Nella prima parte della Lettera ai Romani, san Paolo ci presenta Gesù Cristo come dono da accogliere con la fede, mentre nella seconda parte – quella parenetica – ci presenta Cristo come modello da imitare con la vita. Questi due aspetti della salvezza sono presenti anche all’interno delle singole virtù o frutti dello Spirito. In ogni virtù cristiana, c’è un elemento misterico e un elemento ascetico, una parte affidata alla grazia e una parte affidata alla libertà. Ora è venuto il momento di considerare questo secondo aspetto e cioè la nostra fattiva imitazione dell’obbedienza di Cristo. L’obbedienza come dovere.
Appena si prova a ricercare, attraverso il Nuovo Testamento, in che cosa consiste il dovere dell’obbedienza, si fa una scoperta sorprendente e cioè che l’obbedienza è vista quasi sempre come obbedienza a Dio. Si parla, certamente, anche di tutte le altre forme di obbedienza: ai genitori, ai padroni, ai superiori, alle autorità civili, “a ogni umana istituzione” (1 Pt 2, 13), ma assai meno spesso e in maniera molto meno solenne. Il sostantivo stesso “obbedienza” è usato sempre e solo per indicare l’obbedienza a Dio o, comunque, a istanze che sono dalla parte di Dio, eccetto in un solo passo della Lettera a Filemone (v. 21) dove esso indica l’obbedienza all’Apostolo.
San Paolo parla di obbedienza alla fede (Rm 1, 5; 16, 26), di obbedienza all’insegnamento (Rm 6, 17), di obbedienza al Vangelo (Rm 10, 16; 2 Ts 1, 8), di obbedienza alla verità (Gal 5, 7), di obbedienza a Cristo (2 Cor 10, 5). Troviamo lo stesso identico linguaggio anche altrove nel Nuovo Testamento (cf. At 6, 7; 1 Pt 1, 2. 22).
Ma è possibile e ha senso parlare oggi di obbedienza a Dio, dopo che la nuova e vivente volontà di Dio, manifestatasi in Cristo, si è compiutamente espressa e oggettivata in tutta una serie di leggi e di gerarchie? È lecito pensare che esistano ancora, dopo tutto ciò, delle “libere” volontà di Dio da raccogliere e da compiere? Sì, senza dubbio! Se la vivente volontà di Dio si potesse racchiudere e oggettivare esaurientemente e definitivamente in una serie di leggi, norme e istituzioni, in un “ordine” istituito e definito una volta per sempre, la Chiesa finirebbe per pietrificarsi.
La riscoperta dell’importanza dell’obbedienza a Dio è una conseguenza naturale della riscoperta della dimensione pneumatica – accanto a quella gerarchica – della Chiesa e del primato, in essa, della parola di Dio. L’obbedienza a Dio, in altre parole, è concepibile solo quando si afferma, come fa il Concilio Vaticano II che lo Spirito Santo “guida la Chiesa alla verità tutta intera, la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti, con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo Sposo”(LG, 4).
Solo se si crede in una “Signoria” attuale e puntuale del Risorto sulla Chiesa, solo se si è convinti nell’intimo che anche oggi – come dice il salmo – “parla il Signore, Dio degli dei, e non sta in silenzio” (Sal 50, 1), solo allora si è in grado di comprendere la necessità e l’importanza dell’obbedienza a Dio. Essa è un prestare ascolto al Dio che parla, nella Chiesa, attraverso il suo Spirito, il quale illumina le parole di Gesù e di tutta la Bibbia e conferisce a esse autorità, facendone canali della vivente e attuale volontà di Dio per noi.
Ma come nella Chiesa istituzione e mistero non sono contrapposti ma uniti, così ora dobbiamo mostrare che l’obbedienza spirituale a Dio non distoglie dall’obbedienza all’autorità visibile e istituzionale, ma, al contrario, la rinnova, la rafforza e la vivifica, al punto che l’obbedienza agli uomini diventa il criterio per giudicare se c’è o meno, e se è autentica, l’obbedienza a Dio. Avviene esattamente come per la carità. Il primo comandamento è amare Dio, ma il suo banco di prova è amare il prossimo. “Chi non ama il proprio fratello che vede –scrive san Giovanni – , come può amare Dio che non vede?” (1 Gv 4, 20). Lo stesso si deve dire dell’obbedienza: se non obbedisci al superiore che vedi come puoi dire di obbedire a Dio che non vedi?
L’obbedienza a Dio avviene, in genere, così. Dio ti fa balenare in cuore una sua volontà su di te; è una “ispirazione” che di solito nasce da una parola di Dio ascoltata o letta in preghiera. Tu ti senti “interpellato” da quella parola o da quella ispirazione; senti che essa ti “chiede” qualcosa di nuovo e tu dici “sì”. Se si tratta di una decisione che avrà delle conseguenze pratiche non puoi agire soltanto sulla base della tua ispirazione. Devi depositare la tua chiamata nelle mani dei superiori o di coloro che hanno, in qualche modo, un’autorità spirituale su di te, credendo che, se è da Dio, egli la farà riconoscere dai suoi rappresentanti.
Ma che fare quando si profila un conflitto tra le due obbedienze e il superiore umano chiede di fare una cosa diversa o opposta a quella che credi esserti comandata da Dio? Basta chiedersi che cosa fece, in questo caso, Gesú. Egli accettò l’obbedienza esterna e si sottomise agli uomini, ma così facendo non rinnegò, ma compì l’obbedienza al Padre. Proprio questo, infatti, il Padre voleva. Senza saperlo e senza volerlo – a volte in buona fede, altre volte no -, gli uomini, come avvenne allora per Caifa, Pilato e le folle, divengono strumenti perché si compia la volontà di Dio, non la loro.
Anche questa regola non è, tuttavia, assoluta. Non parlo qui dell’obbligo positivo di disubbidire quando l’autorità – come in certi regimi dittatoriali – comanda ciò che è manifestamente immorale e criminale. Rimanendo nell’ambito religioso, la volontà di Dio e la sua libertà può esigere dall’uomo – come avvenne per Pietro di fronte all’ingiunzione del Sinedrio – che egli obbedisca a Dio, piuttosto che agli uomini (cf At 4, 19-20). Ma chi si mette su questa strada deve accettare, come ogni vero profeta di morire a se stesso (e spesso anche fisicamente), prima di vedere realizzata la sua parola. Nella Chiesa cattolica la vera profezia è stata sempre accompagnata dall’obbedienza al papa. Don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani sono alcuni esempi recenti.
Obbedire solo quando ciò che il superiore dice corrisponde esattamente alle nostre idee e alle nostre scelte, non è obbedire a Dio, ma a se stessi; non è fare la volontà di Dio, ma la propria volontà. Se in caso di disparere, anziché mettere in discussione se stessi, si mette subito in questione il superiore, il suo discernimento e la sua competenza, non siamo più degli obbedienti ma degli obbiettori.
- Una obbedienza aperta sempre e a tutti
L’obbedienza a Dio è l’obbedienza che possiamo fare sempre. Di obbedienze a ordini e autorità visibili, capita di farne solo ogni tanto, tre o quattro volte in tutto nella vita, parlando di obbedienze di una certa serietà. Di obbedienze a Dio, invece, ce ne sono tante. Più si obbedisce, più si moltiplicano gli ordini di Dio, perché egli sa che questo è il dono più bello che può fare, quello che fece al suo diletto Figlio Gesù. Quando Dio trova un’anima decisa a obbedire, allora egli prende in mano la sua vita, come si prende il timone di una barca, o come si prendono in mano le redini di un carro. Egli diventa sul serio, e non solo in teoria, “Signore” cioè colui che “regge”, che “governa” determinando, si può dire, momento per momento, i gesti, le parole di quella persona, il suo modo di impiegare il tempo, tutto.
Ho detto che l’obbedienza a Dio è qualcosa che si può fare sempre. Devo aggiungere che è anche l’obbedienza che possiamo fare tutti, sia sudditi che superiori. Si è soliti dire che bisogna saper obbedire per poter comandare. Non è solo un principio di buon senso; c’è una ragione teologica in ciò. Significa che la vera fonte dell’autorità spirituale risiede più nell’obbedienza che nel titolo o nell’ufficio che uno ricopre. Concepire l’autorità come obbedienza significa non contentarsi della sola autorità, ma aspirare anche a quell’autorevolezza che viene dal fatto che Dio è dietro di te e appoggia la tua decisione. Significa avvicinarsi a quel tipo di autorità che si sprigionava dall’agire di Cristo e spingeva la gente a chiedersi meravigliata: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità” (Mc 1, 27).
Si tratta in realtà di un’autorità diversa, di un potere reale ed efficace, non soltanto nominale o d’ufficio, un potere intrinseco, non estrinseco. Quando un ordine viene dato da un genitore o da un superiore che si sforza di vivere nella volontà di Dio, che ha pregato prima e non ha interessi personali da difendere, ma solo il bene del fratello o del proprio bambino, allora l’autorità stessa di Dio fa da contrafforte a tale ordine o decisione. Se sorge contestazione, Dio dice al suo rappresentante ciò che disse un giorno a Geremia: “Ecco io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo […]. Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te” (Ger 1, 18 s). Sant’Ignazio d’Antiochia dava questo saggio consiglio a un suo discepolo e collega di episcopato, san Policarpo: “Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio”[1].
Questa via dell’obbedienza a Dio non ha nulla, per sé, di mistico e di straordinario, ma è aperta a tutti i battezzati. Essa consiste nel “presentare le questioni a Dio” (cf Es 18, 19). Io posso decidere da solo di fare o non fare un viaggio, un lavoro, una visita, una spesa e poi, una volta deciso, pregare Dio per la buona riuscita della cosa. Ma se nasce in me l’amore dell’obbedienza a Dio, allora farò diversamente: chiederò prima a Dio con il mezzo semplicissimo che tutti abbiamo a disposizione – e che è la preghiera – se è sua volontà che io faccia quel viaggio, quel lavoro, quella visita, quella spesa, e poi farò, o non farò, la cosa, ma essa sarà ormai, in ogni caso, un atto di obbedienza a Dio, e non più una mia libera iniziativa.
Normalmente, è chiaro che non udrò, nella mia breve preghiera, nessuna voce e non avrò nessuna risposta esplicita sul da farsi, o almeno non è necessario che l’abbia perché ciò che faccio sia obbedienza. Così facendo, infatti, ho sottoposto la questione a Dio, mi sono spogliato della mia volontà, ho rinunciato a decidere da solo e ho dato a Dio una possibilità per intervenire, se vuole, nella mia vita. Qualunque cosa ora deciderò di fare, regolandomi con i criteri ordinari di discernimento, sarà obbedienza a Dio. Così si cedono le redini della propria vita a Dio! La volontà di Dio penetra, in questo modo, sempre più capillarmente nel tessuto di una esistenza, impreziosendola e facendo di essa un “sacrificio vivente, santo e a Dio gradito” (Rm 12, 1).
Anche questa volta terminiamo con le parole di un salmo che ci permette di trasformare in preghiera l’insegnamento datoci dall’Apostolo. Un giorno che era pieno di gioia e di riconoscenza per i benefici del suo Dio (“Ho sperato, ho sperato nel Signore ed egli su di me si è chinato […]; mi ha tratto dalla fossa della morte…”), in un vero stato di grazia, il Salmista si domanda cosa può fare per rispondere a tanta bontà di Dio: offrire olocausti, vittime? Capisce subito che non è questo che Dio vuole da lui; è troppo poco per esprimere quello che ha nel cuore. Allora ecco l’intuizione e la rivelazione: quello che Dio desidera da lui è una decisione generosa e solenne di compiere, d’ora in poi, tutto quello che Dio vuole da lui, di obbedirgli in tutto. Allora egli esclama:
“Ecco io vengo.
Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere.
Mio Dio questo io desidero,
la tua legge è nel profondo del mio cuore”.
Entrando nel mondo, Gesù ha fatto sue queste parole dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5 ss). Ora tocca a noi. Tutta la vita, giorno per giorno, può essere vissuta all’insegna delle parole: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”. Al mattino, nell’iniziare una nuova giornata, poi nel recarci a un appuntamento, a un incontro, nell’iniziare un nuovo lavoro: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”.
Noi non sappiamo cosa, quel giorno, quell’incontro, quel lavoro ci riserverà; sappiamo una cosa sola con certezza: che vogliamo fare, in essi, la volontà di Dio. Noi non sappiamo cosa riserva a ciascuno di noi il nostro avvenire; ma è bello incamminarci verso di esso con questa parola sulle labbra: “Ecco, io vengo, o Dio, a fare la tua volontà!”.
[1] S. Ignazio d’Antiochia, Lettera a Policarpo 4, 1.