Rito Romano
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – 15 ottobre 2017
Is 25,6-10; Sal 22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14
Rito Ambrosiano
Bar 3,24-38;oppure Ap 1,10;21,2-5; Sal 86; 2Tm 2,19-22; Mt 21,10-17
Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani.
1) Bastano le feste umane?
Come la parabola dei vignaioli e quella dei figli invitati a lavorare nella vigna del Signore, così la parabola di oggi che racconta dell’invito del Re per partecipare al banchetto di nozze del Figlio ci è rivelato il grande desiderio del Padre di averci con Sé. Nelle domeniche precedenti siamo stati invitati a stare con lui e lavorare per lui come “vignaioli” e come figli nella Sua “vigna”. Oggi ci è rivolto l’invito a fare festa con lui partecipando al Suo banchetto nuziale, che paragona la fede ad un vero incontro “conviviale” divino.
Sorprendentemente questo invito è rifiutato dai primi destinatari.
Perché accade questo rifiuto? Perché quando c’è una festa umana tutti fanno a gara parteciparvi e quando la festa la “organizza” Dio c’è tante gente che rifiuta, come è testimoniato dal fatto che molti non vanno a Messa, non vanno cioè al banchetto domenicale in cui Cristo si fa cibo e bevanda per ciascuno di noi? Molti, purtroppo, credono di non aver bisogno di questa mensa. Se i nostri occhi conoscono solo la ricchezza materiale, alla quale il mondo ci abitua, non riescono a vedere che nel “pezzetto di pane” e nel “sorso di vino”, che ci vengono offerti, si nasconde il Cielo. Si nasconde Dio che si fa nostro cibo per rivestirci della sua stessa divinità.
Dio è generoso verso di noi, ci offre la sua amicizia, i suoi doni, la sua gioia, ma spesso noi non accogliamo le sue parole, mostriamo più interesse per altre cose, mettiamo al primo posto le nostre preoccupazioni materiali, i nostri interessi. L’invito del re incontra addirittura reazioni aggressive.
Perché facciamo così fatica ad accogliere l’invito a partecipare ad un evento di gioia così importante per la nostra vita o, addirittura, reagiamo in modo ostile?
Per orgoglio e perché si dà la preferenza ai propri interessi, come dice Cristo raccontando che i primi invitati rifiutarono e : “andarono chi ai propri campi, chi ai propri affari”. Lo ha ricordato anche Papa Francesco in un’omelia di alcuni mesi fa: “Dimenticare il passato, non accettare il presente, sfigurare il futuro: questo è quello che fanno le ricchezze e le preoccupazioni”. Sono tanti, troppi, quelli che anche oggi rifiutano l’invito. È la storia della superbia, della autosufficienza umana, che riesce solo a vedere l’angolino del proprio io, illuminato da luci dell’effimero ed incapace di spalancare gli occhi sulla vastità del sole, che è il Regno di Dio.
Ora, più l’uomo è attaccato alle feste umane, meno è disposto ad accogliere un invito che comporta l’abbandono delle feste che hanno sapore dato dalle ricchezze terrene per dirigersi verso una festa che ha sapore di cielo. Ecco perché Cristo dice: È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli (Mt 19, 24). Il ricco, infatti, crede di poter colmare con le ricchezze l’abisso del suo cuore. Il povero di spirito crede che Dio e nella sua povertà si riconosce vicino a Dio. Il povero nella sua umiltà è vicino al cuore di Dio, al contrario i ricchi con la loro superbia che contano solo su se stessi. Lo spirito di questi poveri di Dio fa aprire le loro mani vuote non per afferrare o stringere qualcosa o qualcuno, ma per donare e per ricevere la bontà di Dio che dona.
I mendicanti di Dio, coloro che non hanno nulla o “sentono” di non aver nulla e, come i santi, non hanno paura a mostrare la loro povertà di spirito, ossia un cuore aperto a Dio e custode vero della terra. A questi poveri non pare vero di poter partecipare al banchetto del Re e “corrono” alla festa per rispondere all’invito.
2) La condizione per partecipare alla festa: avere la veste nuziale.
Dio non frena la sua generosità. Lui non si scoraggia, e manda i suoi servi ad invitare molte altre persone, che la mentalità umana ritiene indegne: i poveri, i disgraziati. Tutti possono entrare, ma c’è una condizione che Gesù pone nella parabola di oggi e pone pure a noi, che in Lui abbiamo fede
Lui esige la veste nuziale, che è la carità, l’amore. “Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale, la carità, vivere un profondo amore a Dio e al prossimo” (Papa Francesco). E ciò è nel solco dell’insegnamento di San Gregorio Magno che affermava: “Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr. ibid.,10: PL 76,1288). Tutti noi siamo invitati ad essere commensali del Signore, ad entrare con la fede al suo banchetto, ma dobbiamo indossare e custodire l’abito nuziale: la carità, che è la misura della nostra fede. Non possiamo separare la preghiera, l’incontro con Dion ei Sacramenti, dalla vicinanza al prossimo e, soprattutto, alla sue ferite
Ma perché Cristo parla della veste nuziale? Perché secondo l’uso in vigore in Israele ai tempi della vita terrena di Gesù, lo Sposo donava agli invitati il “kittel”, una veste speciale da indossare per il suo matrimonio. Bastava che gli invitati l’indossassero prendendola prima di entrare nella sala della festa.
Chiunque arrivava alla soglia della stanza del banchetto riceveva un mantello bianco, un abito di festa donato gratuitamente, che indicava l’aver risposto liberamente “sì” all’invito del re. Anche il vestito di nozze basta accettarlo e indossarlo, non va meritato né comprato.
L’interpretazione spirituale di ciò è che, se si vuole entrare nella festa, occorre mettere una veste intessuta di “sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”. Solo se ci rivestiamo della carità di Dio possiamo entrare da Lui e vivere in comunione con Lui.
Come il matrimonio, anche la consacrazione verginale è alleanza e festa nuziale, ma stretta con Dio in modo esclusivo ed assoluto, senza la mediazione di un’altra persona. Per questo essa è una primizia vita celeste e rende il religioso o la religiosa già appartenenti al mondo futuro, e fa di essi, per tutti, un “segno escatologico”, un ‘indicazione della meta verso cui l’intera umanità redenta da Cristo è in cammino.
Lei è infatti la sposa che Lui attira a sé, unendola con un vincolo di amore eterno. Alle vergini consacrate è dato di vivere già durante la vita terrena un anticipo delle nozze eterne e di essere, in certo modo, nel tempo quello che tutti sono chiamati a diventare nell’eternità.
La grazia del matrimonio rende sacra la “vita ordinaria”: trasfigurando l’amore umano, lo orienta ad un fine soprannaturale e lo apre a una dimensione interpersonale che lo libera da quella che potrebbe essere una ricerca egoistica di piacere personale, istintivo e passionale.
La vita consacrata è un carisma “ eccezionale”, nel senso che è come un passo oltre, è come una presa di possesso di una realtà che nella norma è ancora e soltanto una promessa. Non si tratta però di un privilegio che forma delle differenze, ma di una chiamata che impegna ad essere maggiormente, anzi esclusivamente, dediti a Dio e, di conseguenza, al prossimo.
Inoltre la vergine consacrata svolge anche il ruolo di mettere in evidenza il valore dell’amore delle nozze umane. Queste, infatti, benché abbiano un fine terreno ben preciso, sono ultimamente in ordine alle nozze divine per una festa senza fine.
Tra i doni dello Spirito alla santa Chiesa di Dio si deve riconoscere l’Ordo Virginum: “È motivo di gioia e di speranza vedere che torna oggi a fiorire l’antico Ordine delle Vergini, testimoniato nelle comunità cristiane fin dai tempi apostolici. Consacrate dal Vescovo diocesano, esse acquisiscono un particolare vincolo con la Chiesa, al cui servizio si dedicano; pur restando nel mondo, esse costituiscono una speciale immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura, quando finalmente la Chiesa vivrà in pienezza l’amore per Cristo Sposo” (S. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica “Vita Consecrata”, n.7, 25 marzo 1996).
«La castità “per il regno dei cieli” (Mt 19,12) libera in maniera speciale il cuore umano, così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini» (Concilio Vaticano II, Decreto Perfectae caritatis, n. 12).
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Lettura Patristica
San Gregorio Magno (540 – 604)
Hom. 38, 3.5-7.9.11-14
1. Gli inviti di Dio
“Il regno dei cieli è simile a un re che fece le nozze per suo figlio” (Mt 22,2)…
Dio Padre fece le nozze per Dio Figlio quando lo congiunse alla natura umana nel grembo della Vergine… Mandò dunque i suoi servi perché invitassero gli amici a queste nozze. Li mandò una volta, e li mandò di nuovo perché fece diventare predicatori dell’incarnazione del Signore prima i profeti, poi gli apostoli. Due volte, dunque, mandò i servi a invitare, infatti, per mezzo dei profeti disse che ci sarebbe stata l’incarnazione dell’Unigenito, e poi per mezzo degli apostoli disse che essa era avvenuta. Ma siccome quelli che erano stati invitati per primi al banchetto di nozze non vollero venire, nel secondo invito si dice: Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e i miei animali ingrassati sono stati macellati, e tutto è pronto (Mt 22,4)…
E (il Vangelo) continua: “Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari” (Mt 22,5). Andare nel proprio campo è darsi smodatamente alle fatiche terrene; andare ai propri affari è cercare con ogni cura guadagni mondani. Poiché chi è intento alle fatiche terrene e chi è dedito alle azioni di questo mondo finge di non pensare al mistero dell’incarnazione del Signore e di non vivere secondo esso, si rifiuta di venire alle nozze del re come uno che va al campo o agli affari. Spesso anche – e ciò è più grave – alcuni non solo respingono la grazia di colui che chiama, ma la perseguitano. Per questo (il Vangelo) soggiunge: “Altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re, venendo a sapere queste cose, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e dede alle fiamme la loro città (Mt 22,6-7). Uccise gli assassini, perché fece perire i persecutori. Diede alle fiamme la loro città, perché nella fiamma dell’eterna geenna è tormentata non solo la loro anima, ma anche la carne nella quale abitarono…
Ecco che con la stessa qualità dei commensali è detto chiaramente che in queste nozze del re è raffigurata la Chiesa del tempo presente, nella quale si riuniscono insieme ai buoni anche i cattivi. Essa è composta da figli diversi; tutti infatti li genera alla fede, ma non tutti, con un cambiamento di vita, li conduce alla libertà della grazia spirituale, per l’impedimento posto dal peccato. Finché viviamo quaggiù, è necessario che ce ne andiamo mescolati per la via del secolo presente. Saremo separati quando saremo giunti. I soli buoni, infatti, saranno in cielo, e i soli cattivi saranno all’inferno. Ora questa vita che è posta fra il cielo e l’inferno, per il fatto che è in posizione intermedia riceve cittadini da entrambe le parti; tuttavia quelli che ora la santa Chiesa riceve promiscuamente, alla fine del mondo li dividerà. Se dunque siete buoni, mentre restate in questa vita, sopportate pazientemente i cattivi. Infatti chi non sopporta i cattivi, attesta a se stesso di non essere buono a motivo della sua impazienza…
Chiunque, essendo commensale alle nozze, non ha questa (veste), sia pieno di ansia e di paura quando, all’arrivo del re, verrà gettato fuori. Ecco infatti come vien detto: “Il re entrò per vedere i commensali e vide là un tale che non indossava l’abito nuziale“. Noi, fratelli carissimi, siamo quelli che sono commensali alle nozze del Verbo, avendo già la fede della Chiesa, nutrendoci al banchetto della Sacra Scrittura e godendo che la Chiesa sia unita con Dio. Considerate, vi prego, se siete venuti a queste nozze con la veste nuziale, esaminate attentamente i vostri pensieri. Soppesate i vostri cuori nei particolari, se non avete odio contro nessuno, se nessuna invidia vi infiamma contro la felicità altrui, se non vi studiate di danneggiare nessuno con occulta malizia.
Ecco che il re entra nella sala delle nozze e osserva la veste del nostro cuore, e a chi non trova rivestito di carità subito dice adirato: “Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale?” (Mt 22,12). È cosa degna di nota, fratelli carissimi, il fatto che chiama costui amico e tuttavia lo condanna, come se lo chiamasse amico e nemico allo stesso tempo: amico per la fede, nemico nelle opere. “Ed egli ammutolì (Mt 22,12)“, cioè – e non se ne può parlare senza dolore – nell’ultimo severo giudizio verrà a mancare ogni possibilità di scusa, perché Colui che rimprovera dall’esterno sarà anche voce della coscienza che accusa l’anima dall’interno…
Coloro pertanto che ora si lasciano spontaneamente legare dal vizio, allora saranno controvoglia legati dai tormenti. È giusto poi dire che saranno gettati nelle tenebre esteriori. Noi chiamiamo tenebra interiore la cecità del cuore, e (chiamiamo) invece tenebra esteriore la notte eterna della dannazione. Ogni dannato dunque non viene mandato nelle tenebre interiori ma in quelle esteriori, poiché è gettato controvoglia nella notte della dannazione colui che volontariamente cade nella cecità del cuore. Si dice anche che là sarà pianto e stridor di denti, sì che stridano là i denti di coloro che qui godevano nella voracità, e piangano là gli occhi di coloro che qui si davano a concupiscenze illecite; e così saranno sottoposte a tormenti tutte quelle membra che qui servirono a qualche vizio.
Subito dopo che è stato espulso costui, nel quale è raffigurata tutta la schiera dei malvagi, viene una sentenza generale, che dice: “Molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 20,16). È tremendo, fratelli carissimi, ciò che abbiamo ascoltato! Ecco che noi, chiamati per mezzo della fede, siamo già venuti alle nozze del re celeste, crediamo e professiamo il mistero della sua incarnazione, ci nutriamo con il cibo del Verbo divino, ma il re deve ancora venire a giudicare. Sappiamo che siamo stati chiamati: non sappiamo però se saremo eletti. Sicché è necessario che tanto più ciascuno di noi si abbassi nell’umiltà in quanto non sa se sarà eletto. Alcuni infatti nemmeno iniziano a fare il bene, altri non perseverano affatto nel bene che avevano iniziato a fare. Uno è stato visto condurre quasi tutta la vita nel peccato, ma verso la fine di essa si converte dal suo peccato attraverso i lamenti di una rigorosa penitenza; un altro sembra condurre già una vita da eletto, e tuttavia verso la fine della sua esistenza gli capita di cadere nella nequizia dell’errore. Uno comincia bene e finisce meglio; un altro si dà alle male azioni fin da piccolo e finisce nelle medesime dopo essere diventato sempre peggiore. Tanto più ciascuno deve temere con sollecitudine, quanto più ignora ciò che lo aspetta, poiché – bisogna dirlo spesso e non dimenticarselo mai – “molti sono chiamati, ma pochi eletti“.
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.