Incrocio / Pixabay CC0 - Siegella, Public Domain

Sulla soglia di un esodo, di Antonello Iapicca

Commento al Vangelo della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 15 ottobre 2017

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“Tutte le genti” sono avvolte da una “coltre” di menzogna. Un “velo” copre la “faccia” di “tutti i popoli”. Così Isaia vedeva le grandi civiltà allora conosciute. Nessuno ha saputo mai insegnare la vera sapienza, cioè a saper vivere nella pace sia “essendo ricco” che “essendo povero”. Da sempre si sono cercate “sazietà” e “abbondanza” per sconfiggere la “fame”.  Ma tralasciando di affrontare l’origine del male, ovvero il peccato, che genera la morte.
E il cuore, oggi è più “indigente” che mai, preda dell’angoscia e della solitudine. Il tuo, il mio. Siamo fragili, i nostri figli sono incapaci di reggere l’urto delle difficoltà. Non “possiamo” nulla. Ed entriamo nella sfiducia, nelle depressioni, nella disperazione. Come Israele in Egitto, schiavo del faraone, costretto a fare mattoni per un altro, sempre di più, senza riposo. 
Ma come nella notte di Pasqua quando Dio scese a liberare il suo Popolo, in ogni generazione la Chiesa è uscita fuori a cercare gli uomini schiavi della paura della morte, inoltrandosi ai “crocicchi” della strade. Questo termine in greco indica la fine delle strade urbane, dove esse sboccano nei campi.
In quegli incroci si sedevano i poveri, gli zoppi, gli impuri a chiedere l’elemosina. Proprio come ciascuno di noi. Non ti ha incontrato il Signore proprio lì, agli “di-exodos” della tua storia, sulla soglia di un esodo che avresti voluto iniziare ma non ne avevi la forza? Gli “apostoli” del Signore ci hanno “chiamato” proprio mentre, come il cieco disteso ai crocicchi di Gerico, chiedevamo in elemosina brandelli di vita e felicità, senza riuscire a saziarci.
Non eravamo “degni” di tanto amore. Non facevamo parte della corte del Re; tra di noi nessun dignitario, parente o amico. Eppure è accaduto che la chiamata giungesse proprio a te e a me: “non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto, è debole, è ignobile, – letteralmente di natali incerti, i figli abbandonati – e disprezzato e ciò che è nulla”.
E siamo entrati nella Chiesa, anche perché qualcuno che era “degno” di esserci ha rinunciato. E’ un mistero grande quello della “chiamata”. Essa esprime l’amore infinito e incondizionato di Dio per tutti, “buoni e cattivi”. Ma è un “work in progress”, non garantisce di potersi sedere al banchetto di nozze.
E infatti, proprio quelli che ne avevano diritto per censo o per posizione sociale o per amicizia, non vi sono entrati. Perché mai hanno rifiutato l’invito del Re di partecipare a un avvenimento così importante?
In essi vi era una indifferenza colpevole, che in alcuni si è trasformata in violenza assassina. Segni di una ribellione verso l’autorità del Re, indizi di un golpe che covavano in un cuore indurito nell’incredulità: “il dio di questo mondo aveva accecato la mente incredula, perché non vedessero lo splendore del glorioso vangelo di Cristo che è immagine di Dio”. Un “velo” di orgoglio serrava i loro occhi sull’amore di Dio, impedendo la maturazione della chiamata, che consisteva proprio nell’accogliere l’invito a partecipare alla gioia intima del Re.
“Tutto era pronto”, il Messia era arrivato, ed era quel Figlio che li attendeva alle nozze. Dio aveva ormai compiuto in Lui ogni “sacrificio” per “preparare” il loro cuore alla salvezza. Bastava accogliere Gesù. Ma Israele “non ricercava la giustizia dalla fede, ma come se derivasse dalle opere”.
Avevano da lavorare nei “campi” e “curare i propri affari”, come potevano curarsi di quel Figlio e delle sue nozze? Così hanno perduto la “dignità”, perché “chi non odia suo padre, sua madre, i suoi fratelli e perfino la propria vita non è degno di Gesù”.
Accadeva loro come alle città che avevano rifiutato l’annuncio dei discepoli inviati da Gesù, destinate a una sorte peggiore di quella di Sodoma, immagine di chi non accoglie gli inviati di Dio: finire distrutti tra le “fiamme”, perché “la malizia uccide l’empio”.
Ma un cuore perverso può celarsi anche in quanti sono stati “raccolti” per “riempire la sala di commensali”. Non basta essere entrati nella Chiesa. La parabola di oggi è anche una sintesi di ecclesiologia. E ci aiuta a comprendere molto di quanto si sta discutendo al Sinodo sulla Famiglia.
La Chiesa accoglie tutti, ma per adempiere alla missione che le ha dato il Signore, di essere cioè un sacramento di salvezza. Dio “chiama” misteriosamente senza tener conto delle qualità morali. Ma “chiama” perché i “chiamati” siano formati e trasformati in “eletti”, perché diventino “sale, luce e lievito” per il mondo. Nella libertà di ciascuno: per questo “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”.
Vi è in questa affermazione di Gesù l’eco del cammino che conduceva i catecumeni al battesimo. La “chiamata” aveva rivelato in essi la “scelta” di Dio e generato il desiderio della vita di Cristo.
La “chiamata” aveva però bisogno di farsi carne trasfigurata, candida come la “veste battesimale” lavata nel sangue di Cristo, immagine della nuova natura ricevuta nel catecumenato e che li rendeva “degni” di partecipare al banchetto di nozze dell’Agnello che li aveva redenti.
L’eucarestia, infatti, era l’ultimo atto dell’iniziazione cristiana: con essa i neofiti erano accolti nell’intimità di Cristo. Attualizzava ciò che il sacramento significava, che cioè si erano uniti indissolubilmente a Cristo: “spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni” e avevano “rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore”.
Come d’uso in Israele ai tempi di Gesù, lo Sposo aveva donato loro il “kittel”, una veste speciale da indossare per il suo matrimonio, intessuta di “sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza”.
Solo rivestiti della “giustizia” di Dio i cristiani possono compiere la loro missione. Essi sono più che invitati. Nel seno materno della Chiesa sono preparati per divenire la Sposa di Cristo! La “veste” immacolata, infatti, significa che sono ormai “alter Christus”, e li rende testimoni della luce pasquale. In ogni pensiero, gesto e parola, incarnano la risurrezione di Cristo: per questo “possono tutto in Colui che dà loro forza”.
E lo annunciano come una Buona Notizia a chi, oggi, ha visto il suo matrimonio sgretolarsi a causa del peccato. Non c’è situazione nella quale Cristo risorto non abbia potere! Non c’è incomprensione, tradimento, chiusura alla vita, che non possa sanare dal profondo.
Per tutti è pronta una veste nuziale, la Grazia del battesimo, come quella del matrimonio o del presbiterato. Ma per riceverla è necessaria una comunità, come le piccole “sinagoghe” nelle quali i “servi” hanno “raccolto” i “chiamati”. Un luogo dove, a poco a poco, lasciarsi togliere il lievito vecchio dell’ipocrisia perché cada il “velo” che impedisce di contemplare con fede lo Sposo, la causa del rifiuto di Israele e di chi, allo stesso modo, indurisce il suo cuore nell’orgoglio.
Non a caso il banchetto nuziale della parabola, avveniva alla fine delle nozze; dopo la liturgia nuziale, si prolungavano, infatti, per sette giorni, nei quali lo sposo e la sposa restavano soli in una stanza per consumare il matrimonio. Alla fine essa usciva finalmente senza “velo”: non doveva più temere il “disonore”, era “degna” dello Sposo, gli apparteneva.
Anche noi, nella comunità cristiana, “a volto scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”.
Guai allora se, “visitati dal Re”, siamo “trovati senza “l’abito nuziale”. Significherebbe che, nonostante i tanti segni e prodigi compiuti da Dio in nostro favore, non siamo ancora preparati per indossare la “veste di lino fino, splendente e puro”. E forse è proprio così, non appaiono in noi “le opere giuste dei santi”, ma siamo scandalo per il mondo che ha diritto di vedere Cristo riflesso nella vita della sua Sposa.
Ma se il Re ci scopre senza carità, non temiamo! Nonostante tutto siamo ancora suoi “amici”. Non chiudiamoci nell’orgoglio come Giuda, ma “ammutoliamo” umilmente come Giobbe. Cerchiamo un cammino nella Chiesa, accorriamo all’iniziazione cristiana post-battesimale che si inaugura proprio in questo tempo in tante parrocchie; lasciamoci accogliere in una comunità dove siano “legati mani e piedi” del nostro uomo vecchio perché, crocifisso con Cristo, sia “gettato” nella “notte” del sepolcro.
Solo così potremo risorgere con Lui a vita nuova, e ricevere la “veste nuziale”, la Grazia che ci fa cristiani: sposi cristiani, genitori cristiani, preti cristiani, vittoriosi sul peccato. E’ questa la risposta della Chiesa ai gravi problemi in discussione al Sinodo: la comunità cristiana che cammina nella fede per far riscoprire ai cristiani il proprio battesimo. Esso è la fonte alla quale tornare e attingere perché la vita eterna zampilli ogni giorno e risani e ricrei quello che il demonio vorrebbe distruggere.

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Antonello Iapicca

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