Che cosa ha spinto Pietro e Andrea, e Giacomo e Giovanni a lasciare barca, reti e padre e seguire subito il Signore, senza alcun indugio? Subito. Non v’è stato tempo per riordinare le idee, fare due calcoli, neanche per soppesare pro e contro di una scelta. Lasciare e seguire.
Gesù, e questo è bastato. Lui passava, Lui li ha visti, Lui li ha chiamati. Per questo hanno lasciato tutto per seguirlo. Solo nelle sue parole, infatti, c’è una forza così dirompente da cambiare la vita nello spazio di un istante. Solo nei suoi occhi vi è la Misericordia infinita capace di strappare alle reti la nostra vita.
Sono tantissime, infatti, quelle con le quali ogni giorno cerchiamo di sfangarla. Le gettiamo per carpire un affetto, un po’ di considerazione, guadagnare un posto di lavoro, fare carriera. E reti di contatti, cellulari pieni di sms, brevi messaggi come reti gettate dal vuoto profondo dell’incomunicabilità.
La rete, non si chiama così quel pozzo senza fondo che, attraverso lo schermo di un computer, ci afferra sino a precipitarci nell’illusione d’essere in contatto col mondo intero? Internet, la rete, metafora della nostra vita, una piroetta virtuale che sfiora la realtà senza viverla realmente.
Sempre connessi per dimenticare d’essere disconnessi dall’essenziale, dal vero, dal bello, dal buono. Sempre connessi eppure soli, con il cuore lontano dall’unico link autentico, la Croce di Cristo, come tralci staccati dalla vite, dalla fonte della vita vera.
Siamo immersi nell’illusione che basti un click o un touch per parlare, relazionarsi, forse anche amare; un secondo e i desideri si realizzano. Tutto sottomesso a un polpastrello, dimenticando la fatica e il sudore dell’amore autentico, il sacrificio del donarsi, i chiodi che trafiggono il link eterno, l’amore che non può essere che crocifisso.
Network, links, chat, maglie di una rete che ci rapisce il cuore, sottrae il tempo, evapora i profili, scolora le relazioni in una menzogna travestita di vuota pienezza. E’ l’immagine della vita senza Cristo, nella quale ci si dibatte come pesci indifesi, pescati irrimediabilmente e sottratti all’acqua autentica della volontà divina.
Anche noi siamo pesci fuor d’acqua, figli di un Popolo avvolto nelle tenebre; siamo cresciuti anche noi a Cafarnao, nella “Galilea delle genti”, la regione estrema e borderline, compromessa con i traffici dei pagani, “reti” commerciali che avevano sbiadito la purezza della religione dei Padri, lontana dall’autorità del Tempio. Come la nostra vita passata accanto a Zebedeo, immagine della nostra origine carnale, debole e schiava della rete di peccati.
Proprio qui, anche oggi, Gesù viene a rifugiarsi; possiamo “converti
Quello che per noi è da fuggire è per Lui un rifugio, il fondamento del suo Regno. Quella casa che vorremmo chiudere e da cui vorremmo traslocare è la dimora che Gesù ha sognato e desiderato da sempre.
Cafarnao infatti significa “Villaggio del conforto, della consolazione“. Anche se per noi è solo noia e dolore, Gesù sa vedere nella nostra vita il seme della consolazione. Lui sa che, prendendovi dimora, tutto può cambiare.
Come la “casa della consolazione” ha ospitato il Consolatore, così la nostra stessa vita abitata da Lui, salvata e perdonata, diviene annuncio per ogni uomo: le tenebre che hanno visto la luce divengono luce per le tenebre del mondo. Il Vangelo, infatti, è annunziato solo da chi ha sperimentato nella carne la stessa sorte di coloro ai quali è inviato.
E’ questa la vera inculturazione del Vangelo: scendere nella vita di chi giace nelle tenebre, obbligato a trascinare un “giogo” pesantissimo. Per chi è preso nelle maglie della “rete” del demonio servono “pescatori di uomini” pescati a loro volta da Colui che si è lasciato imprigionare dalla morte per distruggerla. Servono apostoli liberati da Cristo, l’unico che ha saputo introdursi nella fitta rete di inganni spezzandone le maglie una ad una con il suo amore. Testimoni che hanno imparato come si pesca un uomo che sta annegando…
Gesù anche oggi “passa lungo il Mare di Galilea”, ed è Pasqua! Ci guarda e ci dice: “Seguitemi, vi farò pescatore di uomini”. Ovvero, “venite con me a passare oltre la morte; camminate dietro a me verso la libertà autentica per gettarvi nel mare della morte per salvare questa generazione”.
Tutto ha inizio dalla chiamata che è personale proprio perché detta al plurale: solo Gesù, infatti, scorge accanto a noi il fratello che abbiamo da sempre dimenticato; Lui sa che siamo nati per amare, anche se oggi non ne siamo capaci.
Non a caso chiama due coppie di fratelli, profetizzando lo sguardo con cui ci avrebbe raccolti e chiamati insieme con le persone che non immaginiamo. I l frutto del peccato di Adamo ed Eva, infatti, è stato l’omicidio di Abele: “sono forse il guardiano di mio fratello?” disse Caino. Come ciascuno di noi, quando irrompe l’invidia e la gelosia ci soffoca. Gesù “passa” e chiama Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù riconciliando quello che la carne e il peccato avevano diviso.
Gesù “passa” e ridona ordine e dignità alla nostra storia, combatte con il nostro uomo vecchio con la forza del suo sguardo e della sua parola. Solo quando saremo liberi potremo farci schiavi di tutti, al punto di offrirci come “pescatori di uomini”.
Il suo amore fa nuove tutte le cose. Senza disprezzare nulla di ciò che siamo, come Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo che, pescatori, hanno continuato ad esserlo, ma con un’altra qualità, un altro senso: la loro vita sino ad allora messa al servizio di se stessi, era ora “gettata” come una rete al servizio della felicità dell’altro.
Così, nella chiamata di Gesù, quello che siamo, carattere, parole, debolezze, capacità, tutto si trasfigura, acquisisce un senso che colma e sazia. “Convertirsi” è proprio questo: lasciare che la Parola di Gesù “converta” carne, mente e anima al suo amore, portando a perfezione tutto quello che ci appartiene.
Reti / Pixabay CC0 - 931527, Public Domain
Lasciare e seguire
Commento al Vangelo della III Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 22 gennaio 2017