«Voi mi odiate ed io per dispetto vi amo tutti».
Qualche tempo dopo la chiusura dei manicomi, sulla parete di uno dei ricoveri psichiatrici ormai abbandonati un fotografo catturò con uno scatto questa scritta. Nella presunta follia degli abitanti di quel luogo, è insita una grande verità. Una sfida, quasi una provocazione, per i pazzi di odio. Nel giro di meno di un mese le cronache si sono bagnate di sangue innocente. Prima a Berlino, davanti alle bancarelle del mercato natalizio, poi a Instanbul, nella pista di una discoteca. Le ultime due mattanze di una lunga serie di orrori perpetrati in nome di una religione, ma in realtà molto più probabilmente, di una sua degenerata, egoistica e deviata – quanto pericolosa – interpretazione.
Lo si intravede tra le righe della rivendicazione della strage più recente, consumata in terra turca: i megafoni di Daesh si dicono lieti di aver mutato la gioia in dolore, la letizia in pianto. Non c’è dubbio, ammesso che mai ve ne sia stato: in queste parole non si avverte la presenza di alcun dio, ma solo e soltanto del sigillo del male. Dicono, quelli del Califfato, che il loro agire è ispirato da una vendetta divina. Risponde per noi il Libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte, e non gode per la rovina dei viventi». Ma il contrasto all’odio attraverso il bene non è solo lotta al terrorismo, che di esso è figlio più che padre: al contrario, speranza e amore vanno seminati e coltivati in quei luoghi dove la vita quotidiana e la violenza ordinaria non hanno più confine che le dividano: non soltanto fra le case e nelle strade, ma nei cuori e nelle menti, ormai paralizzati dal terrore del peggio e perciò chiusi in difesa di ciò che non può essere difeso dalla prepotenza e dal terrore. Il contagio di questo virus è globale, trasversale alle identità culturali e religiose, quasi che l’affermazione degli uni sia possibile soltanto con la distruzione degli altri.
È evidente: se non si riuscirà a porre un freno a tale (spicciola) filosofia di vita, che nella sua pratica attuazione si traduce in un attacco ai sentimenti fondamentali della convivenza, avvelenando i pozzi della comunità umana, allora il passaggio dal delirio all’aggressione si riprodurrà su vasta scala, diventando strumento sempre più diffuso. «La pace si costruisce dicendo no coi fatti all’odio», ha ricordato qualche giorno fa Papa Francesco. Il suo invito indica la rotta: nel tempo presente il vento furioso e irrazionale dell’odio s’insinua attraverso le crepe delle paure e degli errori che hanno indebolito la vigilanza sui valori individuali e su quelli comunitari, in primis il rispetto della vita.
Sciocco è stato illudersi di poter respingere aggressività e disprezzo usando la stessa moneta. Che cosa si può fare, di concreto, per fermare l’avanzata del male? Molto. Cominciando con il togliere spazio al degrado delle forme di comunicazione che agevolano la circolazione della prepotenza organizzata. E poi, ad esempio, liberare le città dalla spazzatura consumistica, mediatica, politichese e subculturale. E magari lavorare, in un soprassalto di tenerezza, per ricomporre l’alleanza dei figli con la funzione educativa della scuola e del lavoro e pretendere, per essi, che non vengano più platealmente esposti alle folate dell’ignoranza e della volgarità, ambedue aggressive ed infide.
L’odio è umano, dunque non è invincibile. Ma alla maniera di Cristo, occorre essere testimoni. E come lui artefici della sola rivoluzione necessaria: quella della tenerezza e dell’amore.
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La rivoluzione della tenerezza
Il vento irrazionale dell’odio s’insinua attraverso le crepe degli errori che hanno indebolito la vigilanza sui valori individuali e comunitari… Ma l’odio è umano, dunque non è invincibile