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La verità senza misericordia, diventa ideologia

Papa Francesco parla di un cattolicesimo come “indumento senza cuciture” e vola molto più alto di coloro che vogliono collocarlo tra conservatori o progressisti

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Nelle critiche, insistenti, che settori minoritari ma molto agguerriti del mondo cattolico muovono al Pontefice tornano costantemente le accuse di “buonismo”, di ottimismo irenico, di cedimento agli avversari della fede, di smobilitazione del dogma e della verità a favore della prassi e della testimonianza. Il tutto condito dal rilievo critico sul “pauperismo populistico” di un Papa che si porterebbe dietro ideologie terzomondistiche e liberazionistiche. Insomma Francesco sarebbe l’ultima espressione della teologia politica progressistica del post-’68 latinoamericano.
Donde la “reazione” dei cattolici veri, degli autentici custodi dell’ortodossia, che, a fronte del grave pericolo che incomberebbe nella Chiesa, trovano oggi in Donald Trump e Vladimir Putin i veri “defensores fidei”, i novelli Costantini dell’ora presente. Ciò che colpisce in questi critici del romano Pontefice è la totale ignoranza della sua vita.  Come ha scritto Austen Ivereigh, in quella che è forse la miglior biografia del Papa:
Il radicalismo di Francesco non va confuso con la dottrina o l’ideologia progressiste. E’ un atteggiamento radicale perché è missionario e mistico. Francesco è istintivamente e visceralmente contrario ai “partiti” nella Chiesa, ed è convinto che il papato affondi le sue radici nel cattolicesimo tradizionale del santo popolo fedele di Dio, e in particolare nei poveri.
Non scenderà mai a compromessi sulle questioni scottanti che dividono la Chiesa dall’Occidente laico, un divario che i progressisti amerebbero colmare modernizzando la dottrina. Tuttavia egli non è nemmeno, come risulta altrettanto evidente, un papa della destra cattolica: non userà il pontificato per combattere battaglie politiche e culturali che ritiene debbano essere combattute a livello diocesano, ma se ne servirà per attirare e insegnare; né ritiene necessario ripetere all’infinito ciò che è già noto, anzi desidera porre l’accento su quanto è stato in parte dimenticato: la paterna bontà e la clemenza misericordiosa di Dio.
E mentre i cattolici conservatori vorrebbero parlare più di temi etici che di temi sociali, è felice di fare proprio l’opposto, ossia recuperare un cattolicesimo come “indumento senza cuciture”(Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Mondadori 2014, p. 439)..
L’“inversione” che Francesco opera nella Evangelii gaudium tra l’essenziale dell’Annuncio rispetto alle conseguenze dei valori etici non significa, allora, l’abbandono del primato della Verità in favore di una Misericordia senza contenuti. La dissociazione tra Verità e Misericordia è contro il pensiero del Papa.
Nel testo del 2011 Noi come cittadini noi come popolo il cardinal Bergoglio scriveva: «La riflessione astratta corre il rischio di perdersi in elucubrazioni su oggetti astratti o avulsi, impegnata in una ricerca asettica della verità, dimenticando che l’obiettivo di ogni riflessione umana è l’essere reale in quanto tale e, pertanto, uno, da cui non possono disgiungersi le tre categorie fondamentali dell’essere che i filosofi chiamano i trascendentali: la verità, la bontà, la bellezza. Sono inseparabili» (Jaca Book, p. 49).
Ogni accusa al Papa, da parte dei novelli defensores fidei, di contrapporre la Misericordia alla Verità è, pertanto, fuori luogo. Non si tratta di contrapporre ma di manifestare la Verità come Misericordia. E questo non in una formula astratta ma a partire da un giudizio storico sul momento presente. Nell’intervista ad Andrea Tornielli Il nome di Dio è misericordia  Francesco afferma: «Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia. La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita. Non aspetta che i feriti bussino alla porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati. Dissi allora [nel 2013] che questo sia un kairós, la nostra epoca è un kairós di misericordia, un tempo opportuno» (Piemme, p. 22).
Questa valutazione non sorge dal buonismo di un Papa inguaribilmente ottimista ma, al contrario, da un giudizio che si nutre di un quadro drammatico, riflesso della odierna condizione umana. Come afferma nella conversazione con Tornielli: “Perché è un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde. Non sa come curarle o crede che non sia proprio possibile curarle. E non ci sono soltanto le malattie sociali e le persone ferite dalla povertà, dall’esclusione sociale, dalle tante schiavitù del terzo millennio.
Anche il relativismo ferisce tanto le persone: tutto sembra uguale, tutto sembra lo stesso. Questa umanità ha bisogno di misericordia. Pio XII, più di mezzo secolo fa, aveva detto che il dramma della nostra epoca era l’aver smarrito il senso del peccato, la coscienza del peccato. A questo si aggiunge oggi anche il dramma di considerare il nostro male, il nostro peccato, come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito e perdonato. Manca l’esperienza concreta della misericordia. La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista la possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva” (pp. 30-31).
E’ in questo quadro che si precisa la visione del Papa. Ad un’umanità ferita, peccatrice, immersa nella palude nichilistica, solo l’esperienza della Misericordia può restituire la speranza, il desiderio di vivere.
Che una parte minoritaria del cattolicesimo contemporaneo non comprenda ciò, che non comprenda il Primerea, il primato della Grazia sulla Legge, è l’indice del congelamento della fede in una ideologia cattolica.
La divisione che solca il cattolicesimo odierno è tra chi è ossessionato dalla perdita degli “spazi” di influenza e chi, invece, confida in una libera testimonianza dettata dai “tempi” di Dio. Il processo di ideologizzazione è qui esattamente inverso a quello degli anni ’70 del ‘900. Allora l’ideologia della fede riguardava la sinistra cattolica affascinata dal marxismo. Oggi il processo di congelamento riguarda la destra “cristianista”.
Dobbiamo il termine alla penna del filosofo Remi Brague il quale nel suo volume Europe, la voie romaine scriveva, a proposito di coloro che volevano salvare l’Occidente cristiano, che «La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”, ma di spingere al massimo le conseguenze della loro fede in Cristo. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Queste persone erano dei Cristiani, e non, come potremmo definirli, dei “cristianisti”» (Il futuro dell’Occidente, Rusconi 1998, p. 148).
La distinzione di Brague, tra cristiani e cristianisti, coglie perfettamente la situazione odierna. Il “cristianismo” è la malattia senile del cristianesimo. E’ il clericalismo che ammorba il cattolicesimo odierno. Il nuovo “clericus” è ossessionato dal mondo secolarizzato, incapace di sostenere la sfida si chiude e chiude tutte le porte. Per questo diffida di un Papa che chiede di uscire dal recinto; lo vede come un fattore di destabilizzazione che aumenta l’insicurezza in un tempo di crisi. Il nuovo chierico non vuole uscire, vuole chiudere le porte. Non si tratta di “incontrare” i pagani nel mare aperto del mondo ma di procedere a ranghi serrati, come una falange, con ordine e disciplina. Ciò che costoro vogliono sono parole definitive che chiariscano in modo indubitabile la contrapposizione tra “noi” e “loro”.
Così dalla crisi di un cattolicesimo impaurito, che vede il Papa come l’alieno di un altro mondo, sorge un’ideologia rassicurante, del tutto analoga all’Action française di Charlea Maurras che infiammò, fino alla condanna di Pio XI, il cattolicesimo francese degli anni ’20 del ‘900. Anche allora un blocco d’ordine, guidato da un leader laico, si raccolse attorno ad alcuni “valori” cristiani nella difesa della Tradizione. Criticando idealmente questa prospettiva uno dei grandi educatori italiani contemporanei, don Luigi Giussani, scriveva: «Anche l’Action française nazionalistica di Charles Maurras, agli inizi del secolo, voleva riformare il mondo in nome dei valori cristiani, ma non era fede. La fede è solo questo: l’apertura energica ad una presenza, alla presenza di Cristo» (Un avvenimento di vita, cioè una storia, Il Sabato 1993, p. 171).
A conferma di ciò aggiungeva: “Fino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio ed accoglienza ovunque. Ma quando il cristianesimo è annunciare nella realtà quotidiana, sociale, storica, la presenza permanente di Dio diventato uno tra noi – Gesù Cristo presente nella sua Chiesa – oggetto di esperienza come la presenza di un amico, di un padre, di una madre, orizzonte totale che plasma la vita, ultimo amore, centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la realtà tutta, senso e scaturigine di ogni azione, allora esso non ha patria” (p. 169).
Non è difficile cogliere nella seconda posizione – un cristianesimo “senza patria” – la posizione odierna del Papa, così come nella prima i duri paladini dei “valori cristiani”.
E’ una dialettica, tra un cattolicesimo “cristianista” e un cristianesimo “cattolico”, da cui la Chiesa dovrà uscire se non vuol avvitarsi in una contrapposizione sterile quanto dannosa.
 

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Massimo Borghesi

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