Risponde ex imo corde, Papa Bergoglio, alle 23 domande che la prestigiosa giornalista Stefania Falasca gli rivolge nell’intervista pubblicata oggi dal quotidiano Avvenire. Non la prima e, probabilmente, neppure l’ultima intervista del Pontefice, ma indubbiamente quella che più di ogni altra rivela il pensiero profondo del Papa, troppo spesso svilito a semplici slogan, su temi fondamentali come ecumenismo, misericordia, eredità del Concilio.
Nel colloquio, Francesco traccia un primo bilancio del Giubileo che si conclude domenica, per cui – dice – “non ho fatto un piano, mi sono lasciato portare dallo Spirito”. Poi spiega il suo afflato ecumenico e il motivo della costante ricerca dell’unità fra i cristiani – necessaria per il mondo di oggi lacerato dai conflitti – che “si fa camminando, seguendo Cristo” non progetti o accordi. Replica, quindi, alle critiche di quelle frange chiuse alla novità di Dio di una “protestantizzazione” della Chiesa, le stesse che esprimono ‘dubbi’ sulla Amoris Laetitia: “Non mi toglie il sonno – afferma – io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette”.
A dare valore aggiunto al colloquio è l’amicizia che lega il Papa alla sua interlocutrice iniziata dai tempi del cardinalato a Buenos Aires e rinsaldata negli anni, poi resa pubblica dallo stesso Pontefice con quella prima celebre telefonata fatta “ad una coppia di amici di Roma” (Stefania e il marito Gianni Valente, anch’egli giornalista) pochi minuti dopo la sua elezione sul Soglio di Pietro.
E sempre una telefonata è stata lo stimolo a realizzare questa intervista. La giornalista chiedeva a “padre Bergoglio” una sua chiosa sullo storico viaggio ecumenico a Lund, rimasta inevasa durante la conferenza stampa nel volo di ritorno dalla Svezia. “Mi prese in contropiede dicendomi che avrebbe potuto rispondere subito. ‘Ma adesso?’ gli chiesi, e mi accordò un bonario rinvio”, racconta Falasca in un’appassionata introduzione.
Riporta quindi le risposte del Pontefice che entra subito nelle dinamiche di un periodo ecclesiale intenso quale il Giubileo e si sofferma sui passi ecumenici che hanno costellato i viaggi apostolici in questo Anno Santo straordinario. “La Chiesa è il Vangelo, non è un cammino di idee”, afferma il Santo Padre nella prima risposta, “questo Anno sulla Misericordia è un processo maturato nel tempo, dal Concilio… Anche in campo ecumenico il cammino viene da lontano, con i passi dei miei predecessori. Questo è il cammino della Chiesa. Non sono io. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti, il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior“.
Nessun obiettivo né progetti prestabiliti dietro questo Giubileo, dunque, ma solo la speranza “che tante persone abbiano scoperto di essere molto amate da Gesù e si siano lasciate abbracciare da Lui”. Perché, spiega il Papa, “chi scopre di essere molto amato comincia a uscire dalla solitudine cattiva, dalla separazione che porta a odiare gli altri e se stessi”. “La misericordia è il nome di Dio ed è anche la sua debolezza, il suo punto debole”, rimarca Francesco. “La sua misericordia lo porta sempre al perdono, a dimenticarsi dei nostri peccati. A me piace pensare che l’Onnipotente ha una cattiva memoria. Una volta che ti perdona, si dimentica. Perché è felice di perdonare. Per me questo basta”.
“La Chiesa esiste solo come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio”, soggiunge il Pontefice. Alcuni, tuttavia, “continuano a non comprendere” rimanendo bloccati nella logica del “bianco o nero”; invece “è nel flusso della vita che si deve discernere”, afferma il Santo Padre. Lo ha detto il Concilio ma, come dicono gli storici, “un Concilio, per essere assorbito bene dal corpo della Chiesa, ha bisogno di un secolo”. “Siamo a metà”.
Nell’intervista, il Papa riflette poi sugli incontri ecumenici degli ultimi mesi: “Non sono il frutto dell’Anno della Misericordia” precisa, ma “parte di un percorso che viene da lontano. Non è una cosa nuova. Sono solo passi in più lungo un cammino iniziato da tempo”. Allo stesso modo i dialoghi con i primati e i responsabili delle Chiese cristiane che attraversano il suo pontificato non sono altro che “il cammino che dal Concilio va avanti, s’intensifica”. In questi incontri, “la fratellanza si sente” evidenzia Bergoglio, “c’è Gesù in mezzo. Per me sono tutti fratelli. Ci benediciamo l’un l’altro, un fratello benedice l’altro”.
Tutti, nessuno escluso: Kirill, Hieronymos, Tawadros, Daniele di Romania, Ilia e, naturalmente, Bartolomeo, l’amato fratello ortodosso con il quale Francesco condivide la maggiore “sintonia spirituale”. Con lui il Papa ha compiuto l’indimenticabile viaggio a Lesbo in mezzo agli “scartati” d’Europa, i rifugiati. Nell’isola greca, racconta, “mentre insieme salutavamo tutti, c’era un bambino verso il quale mi ero chinato. Ma al bambino non interessavo, guardava dietro di me. Mi volto e vedo perché: Bartolomeo aveva le tasche piene di caramelle e le stava dando a dei bambini, tutto contento. Questo è Bartolomeo, un uomo capace di portare avanti tra tante difficoltà il Grande Concilio ortodosso, di parlare di teologia ad alto livello, e di stare semplicemente con i bambini. Quando veniva a Roma occupava a Santa Marta la stanza in cui io sto ora. L’unico rimprovero che mi ha fatto è… che ha dovuto cambiarla”.
Un ecumenismo, dunque, fatto di piccoli gesti ma che è sempre un dono di Dio, sottolinea Papa Francesco. “Sappiamo anche che le ferite delle nostre divisioni, che lacerano il corpo di Cristo, non possiamo guarirle da noi stessi. Quindi non si possono imporre progetti o sistemi per tornare uniti”, dice con particolare riferimento all’incontro in Svezia del 31 ottobre per il 500° della Riforma.
Grazie ad esso c’è stata una “purificazione della memoria” di Lutero che “voleva fare una riforma che doveva essere come una medicina”, poi, però, “le cose si sono cristallizzate, si sono mescolati gli interessi politici del tempo, e si è finiti nel cuius regio eius religio, per cui si doveva seguire la confessione religiosa di chi aveva il potere”. Con i luterani, annota il Santo Padre, c’è un lavoro concreto di servizio ai poveri da svolgere, in attesa che vengano chiarite le questioni teologiche. “Non si tratta di mettere da parte qualcosa. Servire i poveri vuol dire servire Cristo, perché i poveri sono la carne di Cristo. E se serviamo i poveri insieme, vuol dire che noi cristiani ci ritroviamo uniti nel toccare le piaghe di Cristo”.
Solo “camminando, per opera di Colui che seguiamo, possiamo scoprirci uniti”, “scopriamo di trovarci uniti anche nella nostra comune missione di annunciare il Vangelo”, aggiunge il Papa. E ribadisce che “ogni proselitismo tra cristiani è peccaminoso”; come diceva infatti Benedetto XVI: “La Chiesa non cresce mai per proselitismo ma ‘per attrazione’”. “Il proselitismo tra cristiani quindi è in se stesso un peccato grave… La Chiesa non è una squadra di calcio che cerca tifosi”.
D’altro canto, a chi teme l’intento di “protestantizzare la Chiesa” o “svendere la dottrina cattolica”, Bergoglio risponde: “Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio. Quanto alle opinioni, bisogna sempre distinguere lo spirito col quale vengono dette. Quando non c’è un cattivo spirito, aiutano anche a camminare. Altre volte si vede subito che le critiche prendono qua e là per giustificare una posizione già assunta, non sono oneste, sono fatte con spirito cattivo per fomentare divisione. Si vede subito che certi rigorismi nascono da una mancanza, dal voler nascondere dentro un’armatura la propria triste insoddisfazione. Se guardi il film Il pranzo di Babette c’è questo comportamento rigido”.
In un tempo così difficile come il nostro “lo scandalo va superato” perché la divisione è una contro-testimonianza. Questa unità si può realizzare “facendo le cose insieme con gesti di fratellanza” e ricordando il comune battesimo che libera “dalla tentazione del pelagianesimo, che vuole convincerci che ci salviamo per forza nostra, con i nostri attivismi”.
Per Francesco il vero “cancro” nella Chiesa è “il darsi gloria l’un l’altro”: “Se uno non sa chi è Gesù, o non lo ha mai incontrato, lo può sempre incontrare; ma se uno sta nella Chiesa, e si muove in essa perché proprio nell’ambito della Chiesa coltiva e alimenta la sua fame di dominio e affermazione di sé, ha una malattia spirituale, crede che la Chiesa sia una realtà umana autosufficiente, dove tutto si muove secondo logiche di ambizione e potere”.
“Questa tentazione di costruire una Chiesa autoreferenziale, che porta alla contrapposizione e quindi alla divisione, ritorna sempre”, osserva il Papa. È “l’abitudine peccatrice della Chiesa di guardare troppo se stessa, come se credesse di avere luce propria”. Perciò i Padri della Chiesa parlavano di un “mysterium lunae”, ovvero il fatto che la Chiesa, come la luna, “dà luce ma non brilla di luce propria”. “Quando la Chiesa, invece di guardare Cristo, guarda troppo se stessa vengono anche le divisioni”, chiosa il Papa. “È quello che è successo dopo il primo millennio. Guardare Cristo ci libera da questa abitudine, e anche dalla tentazione del trionfalismo e del rigorismo. E ci fa camminare insieme nella strada della docilità allo Spirito Santo, che ci porta all’unità”. Non bisogna però essere “impazienti, sfiduciati, ansiosi”: è un cammino “che richiede pazienza nel custodire e migliorare quanto già esiste, che è molto di più di ciò che divide”.