In queste settimane, i giornali hanno ricordato la tragedia accaduta quarant’anni fa, precisamente il 10 luglio 1976, a Seveso in provincia di Milano. Un incidente nell’azienda chimica ICMESA di Meda, aveva causato la fuoriuscita di una nube di diossina, sostanza molto tossica. La nube, trasportata dal vento, si era depositata sui comuni nei pressi della fabbrica e cioè Meda, Cesano Maderno, Desio e soprattutto Seveso. Non ci furono vittime ma molte persone vennero colpite da una devastante irritazione alla pelle.
Qualche giorno dopo, la notizia dell’incidente divenne ufficiale. Le autorità resero nota l’alta tossicità della diossina e i pericoli che una contaminazione poteva portare. Le zone più colpite furono evacuate, recintate da un cordone di sicurezza. Le abitazioni vennero demolite, i negozi chiusi, il terreno rimosso, gli animali abbattuti. Dal momento che la diossina era un forte diserbante, le piante del territorio più intossicato morirono e seccarono. La zona aveva assunto l’aspetto di una scena da film apocalittico.
Ma ciò che sconvolse soprattutto la popolazione fu l’allarme per le donne in stato interessante. La diossina era anche in grado di causare malformazioni nei feti e perciò tra le donne incinte era scattato il panico.
In Italia, a quel tempo, l’aborto era illegale ma il Governo autorizzò in via straordinaria l’interruzione di gravidanza per chi ne avesse fatto richiesta. Immediatamente nacquero polemiche e l’opinione pubblica si spaccò in due. Fu l’inizio di un dibattito politico e sociale che avrebbe portato, nel 1978, alla emanazione della Legge 194 sull’aborto.
Questo aspetto della tragedia della diossina a Seveso colpì soprattutto un frate camilliano che, proprio in quell’anno, aveva iniziato nel capoluogo lombardo una sua straordinaria missione “tra i poveri più poveri”, di cui nessuno si prendeva cura e che lui invece definiva “i figli più amati da Dio”.
Il nome di quel camilliano era Ettore Boschini. Nato a Roverbella, in provincia di Mantova, nel 1928 è morto nel 2004. A Milano divenne famoso come il “frate dei barboni”. Dopo aver trascorso una ventina d’anni tra i giovani malati dall’ospedale degli Alberoni di Venezia, aveva iniziato nel capoluogo lombardo a dedicarsi interamente agli emarginati, ai senzatetto, i tossicodipendenti, gli alcolizzati che vivevano per strada. Nei pressi della Stazione Centrale, sotto le arcate dei binari in via Sammartini, aveva posto il suo primo centro di accoglienza, per dare ricovero, un letto e un pasto caldo a quelli che la gente chiamava “barboni”
E a Milano, divenne una leggenda. Alla sua morte, la città gli rese grande omaggio. Ai funerali, celebrati dal Cardinale Tettamanzi nella chiesa di Sant’Ambrogio, c’era una folla immensa, costituita prevalentemente dai suoi amici poveri, ma anche dai suoi innumerevoli ammiratori e con essi le più alte autorità civili e religiose. Il cardinale Martini aveva definito fratel Ettore “un gigante della carità”. Giovanni Paolo II gli voleva bene e Madre Teresa fece un viaggio a Milano proprio per poterlo conoscere. E dal febbraio 2013 è in corso il processo diocesano per la sua beatificazione.
Nel 1976, di fronte alla tragedia della diossina, Fratel Ettore decise che a Seveso, in quel regno di morte, bisognava mettere un “segno” celeste, piantare un “seme” di speranza. E fu l’inizio di una straordinaria avventura che non solo in Lombardia ma anche in altre parte d’Italia e del mondo, ancora oggi rappresenta una stupenda realtà di amore, accoglienza e totale affidamento alla Provvidenza e che ha la sua sede principale proprio a Seveso.
Quando accadde l’incidente della diossina, fratel Ettore, seguiva con apprensione le vicende della gente sfollata, dei negozi e delle case chiuse. Ma si sentiva ferito soprattutto dal provvedimento governativo a favore dell’aborto. Lo vedeva come un attentato alla vita, come una gigantesca bestemmia contro Dio. “Bisogna che a Seveso ci sia un segno della Madonna”, disse a se stesso. E cominciò a pensare a un grande progetto.
Un giorno del 1980, ricevette una telefonata da una signora che si chiamava Adalgisa Pontiggia. Voleva vendere la casa di famiglia di Seveso che, a causa della tragedia della diossina era stata abbandonata. Il terreno della proprietà era stato bonificato ma lo stesso la signora Adalgisa e le sue cinque sorelle non avevano nessuna intenzione di tornarvi a vivere. La signora frequentava l’ambiente camilliano, conosceva fratel Ettore e la sua missione a favore dei poveri. Così gli offrì di comprare la casa. Si trattava di una bella proprietà: un edificio a due piani circondato da oltre un ettaro di terreno. “Non si preoccupi del prezzo – gli aveva detto – ci mettiamo d’accordo”.
Ad Ettore non sembrava vero. La sua opera caritativa a Milano era cresciuta molto e aveva bisogno di ulteriore spazio per accogliere i suoi poveri. Non gli era sfuggita la particolarità del luogo dove si trovava la casa: nella parte bassa di Seveso, la più colpita dalla nube di diossina. Portare lì la carità, l’amore per i fratelli più bisognosi, per la vita, rappresentava un segno preciso. Non solo per sanare lo spirito dei cittadini ferito dal disastro chimico ma anche per portare la presenza della Madonna, presenza concreta attraverso le opere di misericordia, lì dove maggiormente si era insultata la vita, dove è stato usato il pretesto della diossina per favorire l’aborto.
Ricevuta quella notizia, Fratel Ettore era partito in pellegrinaggio per Fatima. Desiderava chiedere aiuto alla Madonna. A Fatima prese anche le misure della cappella sorta sul luogo dove la Vergine era apparsa nel 1917, perchè nella nuova casa di Seveso, voleva riprodurre nelle dimensioni esatte la cappella delle apparizioni che si trova a Fatima.
La cifra stabilita per l’acquisto della casa di Seveso era di 156 milioni di lire. Soldi che fratel Ettore, sempre povero come i suoi assistiti, non aveva. Ma la sua fiducia nella Provvidenza non conosceva limiti. Per prima cosa si precipitò a casa dell’allora sindaco di Seveso, Francesco Rocca, e gli mise in mano un rotolo di cambiali. “La banca vuole delle garanzie – gli disse -. Tu sei il sindaco, hai una casa di proprietà: chi meglio di te può fare da garante?”.
Il sindaco esitava ma Ettore era fermo: “Non temere. La Madonna ci è vicina. Firma le cambiali, la Provvidenza ci aiuterà. Vedrai! Tra un mese le cambiali saranno pagate alla banca. Vuoi che la Madonna non mantenga l’obbligo di darci una mano?”.
Al sindaco non restò che firmare. E una ventina di giorni dopo, puntuale il denaro arrivò in banca, proveniente da un anonimo benefattore.
Quel luogo a Seveso oggi si chiama “Casa Betania delle Beatitudini”. Ed è la Casa Madre dell’Opera di fratel Ettore. Opera più viva che mai diffusa anche all’estero. Guidata da suor Teresa Martino, che di fratel Ettore è stata per anni la più stretta collaboratrice ed ora ha preso il suo posto.
A Casa Betania vivono persone che altrimenti sarebbero in mezzo ad una strada, anziani e malati, accuditi e amati come nella più affettuosa delle famiglie. E proprio lì, all’interno della chiesetta dove si trova la ricostruzione della cappella di Fatima, c’è anche la tomba di fratel Ettore, meta ogni giorno di visite da parte di persone da lui beneficate, gente che lo ricorda, che lo ha conosciuto e aiutato quando era in vita e che prega per il riconoscimento ufficiale della sua santità.
Fratel Ettore (foto Roberto Allegri)
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