Sull’accoglienza dell’altro si misura la propria dignità

La sfida al razzismo si vince attingendo ai principi delle nostre radici greco-romane, giudaico-cristiane e illuministico-liberali

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L’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, il profugo nigeriano ucciso per aver reagito alle offese razziste di un “ultrà” che aveva insultato la sua Sposa, ha fatto puntare i fari dei “media” sul fenomeno sciagurato del razzismo, purtroppo ancora presente in alcune subculture del nostro Paese, alimentato – come ha osservato l’ex ministra ed europarlamentare Cécile Kyenge – da chi cavalca “il malessere sociale del Paese per lucrarne elettoralmente”, ricorrendo a messaggi di vero e proprio odio razziale. Se molti hanno ribadito con forza che questo tipo di sentimenti xenofobi e di comportamenti violenti non appartiene in alcun modo all’identità morale del nostro popolo, l’urgenza di motivare una simile tesi è quanto mai viva, soprattutto in un tempo in cui la reazione emotiva alle stragi terroristiche come quella del 14 luglio a Nizza potrebbe indurre a identificare il male semplicemente con l’altro da noi.
La triplice anima che pervade la nostra storia e la nostra cultura – quella greco-romana, quella ebraico-cristiana e quella illuministico-liberale – concorda nel vedere nel razzismo l’espressione di una fosca ignoranza, di un’ideologia impazzita e di un’umanità incapace di libertà e di apertura al nuovo. La “filoxenìa” – l’amore dello straniero – fa parte anzitutto del cuore greco, che batte anche nelle terre d’Occidente, pervase dallo spirito pratico dei Latini: come osserva Marino Niola, in questa cultura “solo l’altro, con la sua differenza, consente di scorgere il profilo della nostra identità sullo sfondo oscuro della differenza…” (Hospes. Il volto dello straniero da Leopardi a Jabès, a cura di Alberto Folin, Marsilio, Venezia 2003, 256).
Di conseguenza, l’ospitalità è la regola, concepita come il dovere “di accogliere e onorare lo straniero, perché ciascuno di noi è a sua volta uno straniero in cerca di ospitalità” (255). Questo principio è evidenziato dall’ambivalenza stessa del linguaggio: il greco xénos, come il latino hospes, sta a dire tanto lo straniero, quanto l’ospite. Siamo tutti stranieri sulla terra, paroikoi, “abitatori di tende”, come ricorda Cacciari (Hospes, 108). Perciò, ciascuno ritrova se stesso in quanto scopre l’altro, riconoscendo se stesso come altro dall’altro: l’io si afferma in quanto è rivolto ad altri e accoglie l’altro. Si può dire, allora, che “il razzista è colui che nega se stesso per quello che è” (E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, SE, Milano 1991,25).
È questa la convinzione che pervade la tradizione ebraico-cristiana: tutti debitori di noi stessi all’altro, possiamo affermare che lo straniero, se accolto ci genera alla verità di noi stessi, se rifiutato evidenzia la nostra alienazione.
La ragione profonda di questa forza salutare esercitata dall’altro sull’io e sul noi sta nel fatto che la vita è tutta una lotta con la morte, dove la sola arma efficace per andare avanti è l’apertura all’altro, significata dalla potenza del domandare: “Il mio nome – scrive ancora Jabès – è una domanda e la mia libertà è nella mia propensione alle domande” (Il libro delle interrogazioni,  Marietti, Genova 19953, 103). È per questo che per l’ebraismo il precetto dei precetti è l’ascolto (cfr. Dt 6,4), il fare spazio all’avvento d’altri, e per la tradizione cristiana è doveroso lasciarsi abitare dalla Parola del divino Altro, dopo aver camminato a lungo nei sentieri del Silenzio: «Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima” (S. Giovanni della Croce, Sentenze. Spunti di amore, n. 21, in Opere, Roma 19672, 1095).
Credere è lasciare che la Parola, schiudendo i sentieri dell’Altro, contagi il cuore e la mente della forza pervasiva dell’incontro accogliente con la trascendenza di Dio e l’alterità del fratello. In questa linea si situeranno parimenti la tradizione dell’umanesimo moderno e lo spirito illuministico-liberale che da esso muove: la dignità di ogni essere umano va riconosciuta e difesa, al punto che ogni negazione del rispetto dovuto all’altro è tradimento della propria identità.
Sebbene la follia ideologica dei vari totalitarismi moderni abbia ridotto quest’esigenza etica del rispetto al solo mondo degli affiliati alla propria idea, questa forma di perversione è stata smascherata dai fallimenti di tutte le ideologie, di destra e di sinistra. Sull’accoglienza dell’altro si misura la propria dignità e quella della società che siamo chiamati a costruire insieme. Ogni forma di razzismo è negazione di tutto questo, e va bollata come inciviltà, barbarie, mancanza etica di gravissimo peso. La sfida dell’accoglienza dell’altro e del diverso mostra così la ragione ultima per cui il comandamento fondamentale non può che essere unico e duale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-39).
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[Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 17 Luglio 2016, pp. 1 e 16]

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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