Lottando contro la mafia, si restituisce speranza al popolo di Dio

Sulla scia del libro a cura dei vescovi calabresi, mons. Vincenzo Bertolone si sofferma sul difficile percorso di purificazione della pietà popolare

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È stato pubblicato in questi giorni per conto delle edizioni Tau il libro La ‘ndrangheta è l’antievangelo, con la prefazione del Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, Monsignor Vincenzo Bertolone. Il volume, curato dai presbiteri calabresi don Filippo Curatola, don Enzo Gabrieli e don Giovanni Scarpino, porta alla luce un secolo di documenti delle Chiese di Calabria nell’impegno di testimoniare il Vangelo, contro ogni forma di religiosità che lo tradisca. Una piccola antologia dei documenti collettivi, con testi a stampa, che la Conferenza Episcopale Calabra ha prodotto in quest’ultimo secolo relativamente alla necessità di purificare la pietà popolare e contro il fenomeno mafioso-‘ndranghetista, che costantemente cerca di infiltrarsi per ottenere consensi e riconoscimenti pubblici.
Il testo riporta in appendice anche i discorsi pronunciati da Giovanni Paolo II nel corso della sua visita pastorale in Calabria dell’ottobre 1984, visti come “annuncio di speranza”, la visita di Benedetto XVI il 9 ottobre 2011 con “l’invito alla fede dei calabresi come antidoto alla criminalità organizzata”, e il recente intervento di Papa Francesco del 21 giugno 2014 a Cassano Jonio, dove ha pronunciato la parola “scomunica” contro ogni forma di criminalità che attenta alla vita. Il tentativo dei Vescovi di Calabria, si legge nella presentazione, è di “ridare un’anima al popolo di Dio”. Perché nessuno in Calabria si faccia “rubare la speranza”. Abbiamo posto tre domande a mons. Bertolone, presidente della Conferenza Episcopale calabra.
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Cosa vuol dire che la Chiesa che non fa eco ma diventa antidoto al veleno mafioso?
Gli uomini e le donne di mafia, di camorra e di ‘ndrangheta affiliate a queste organizzazioni malavitose si collocano, di per sé, fuori dalla Chiesa”, ma spesso continuano a partecipare alla vita della comunità cristiana, soprattutto a livello di religiosità e di devozione popolare, oppure chiedendo di fungere da padrini e madrine, o anche chiedendo i sacramenti per i propri figli… In questo senso, essi “scimmiottano” la vera fede e, quindi, sono come un veleno, come una zizzania, nel campo del buon grano che è la Chiesa. Il buon grano non può far da eco, né da cassa di risonanza di un modo di fare che è pagano, anche se si ammanta di “pizzini biblici” e si vanta del “comparaggio” nei sacramenti dell’iniziazione cristiana.
Bisogna perciò, da parte delle donne e degli uomini di Chiesa, chiedersi il perché della coesistenza della mala pianta – cioè della criminalità organizzata nelle sue varie forme e metamorfosi -, con il buon grano, seminato da quello che Agostino d’Ippona chiamò per primo il padre di famiglia, cioè l’Altissimo. Domandando il perché, la Chiesa aiuta i credenti a non fare mai eco alle pretese e alle richieste mafiose, smascherandone piuttosto la pseudo-religiosità e l’agire pagano. Senza invadere il campo specifico della prevenzione e della repressione penale dei responsabili dei delitti di mafia, dobbiamo, quindi, ricordare che l’adesione formale a un’organizzazione mafiosa è generatrice soltanto di zizzania, quindi foriera di pane avvelenato e di perversione sociale e culturale; tuttavia, non si può mai escludere il dono divino della fede, almeno remota, perfino nel più traviato e pervertito degli esseri umani, e, soprattutto, non si può mai smettere di predicare la conversione dei cuori e annunciare la possibilità di perdono, anche ad un Giuda o ad un traditore del Signore, come lo fu san Pietro. L’antidoto al veleno non soltanto esclude e condanna, ma prova e riprova a lanciare germi di conversione.
Dalla Chiesa del silenzio alla Chiesa che parla, interpella, denuncia…
Quella che, fino alla svolta del Concilio ecumenico Vaticano II, veniva da molti ancora definita “la Chiesa del silenzio” di fronte a certi fenomeni criminali, è diventata la Chiesa che parla, interpella,  invita al rispetto delle leggi degli uomini e di Dio; che ascolta e vede; che compie una nuova evangelizzazione del bene e della pace, che invita alla vita buona del vangelo; che destituisce di senso ogni via o mezzo criminale; che chiama “agire pagano” e “irreligione” la sensibilità mafiosa, stigmatizzandone il perverso e diabolico tentativo di scimmiottare riti e linguaggi religiosi, o addirittura di adulterare processioni, solennità religiose, santuari e aggregazioni di fede. A partire dagli anni Settanta del secolo XX, poi, la Conferenza Episcopale Italiana ha redatto documenti ufficiali – che rilanciano a livello nazionale molteplici aspetti di questi problemi sociali (frattanto divenuti nazionali e globali) -, tra cui brillano certamente due memorabili testi: quello del 1989, che sollecitava tutti a riorganizzare la speranza; e quello del 1991: “Educare alla legalità”, bello, forte, significativo per l’intera Italia. Ma è soprattutto l’omelia pronunciata da san Giovanni Paolo II nel 1993, nel corso della concelebrazione eucaristica nella valle dei templi di Agrigento – alla quale erano presenti persone da tutta la Sicilia – a ribadire l’esigenza evangelica di “una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”. I fenomeni mafiosi, come anche il latifondismo, da quel Pontefice furono fatti risalire alle gravi situazioni di povertà, nelle quali si generano appunto le patologie sociali, compresa la criminalità. Non fa meraviglia, dunque, che parlando a braccio alla fine della celebrazione, come riferirono tutti gli organi di comunicazione dell’epoca, quel grande e santo Papa poté pronunciare il famoso “grido”: “Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”. Ed in questa scia si mettono Papa Benedetto a Palermo ed a Lamezia Terme e Papa Francesco a Sibari ed a Scampia.
In questa scia si collocano,  che certamente non significano silenzio e connivenza, le Lettere pastorali della Conferenza Episcopale Calabra del 2007 e il recentissimo documento Testimoniare la verità del Vangelo-Nota Pastorale sulla ‘ndrangheta (2014), completato con Per una nuova evangelizzazione della pietà popolare (2015), che contiene precisi orientamenti pastorali relativi alle processioni e feste popolari, alle figure dei padrini/madrine nei sacramenti dell’iniziazione cristiana, alle figure dei testimoni nelle nozze sacramentali.
I 50 anni di cammino della Chiesa Calabrese su questo fronte: un cammino di lotta e purificazione. Ci può parlare di questo aspetto?
Esattamente cento anni fa, con la Lettera Pastorale collettiva dei Vescovi calabresi per la Quaresima del 1916, in embrione, ma con chiarezza, si pongono già le basi per una catechesi di purificazione della pietà popolare; fu un primo passo per il rinnovamento di quelli che – seppur riconosciuti come “atti di fede” – tante volte rischiavano anche di scadere nello scandalo o nel ridicolo, depauperando il genuino linguaggio religioso e proponendosi quasi alla stregua di “spettacoli circensi”. Già allora si individuavano abusi e si lamentava la debolezza nell’azione di evangelizzazione, chiedendo ai fedeli di ricentrare la loro fede su Gesù Cristo, sull’interiorizzazione della Parola di Dio, sulla fruttuosa celebrazione dei Sacramenti. Fra i punti deboli, venivano significativamente indicati: le processioni, il ruolo dei padrini, la scarsa formazione del clero e dei fedeli del tempo.
Debolezze, queste, che i Vescovi individueranno anche nei documenti successivi nei quali, gradualmente, ma sempre con più chiarezza, prendono pubblicamente le distanze dalle degenerazioni, soprattutto da ciò che era connotato come fenomeno di tipo mafioso e criminale, o dai tentativi di infiltrazione, come appare a tutto tondo nell’ultimo Direttorio del 2015. Accanto ai richiami e agli inviti alla conversione, la condanna senza appello della Mafia, definita piaga della società (nel 1975), l’antivangelo (nel 2014), e la chiarezza nell’affermare che la ‘ndrangheta nulla ha a che fare con la Chiesa di Cristo (nel 2015).
L’azione pastorale corale dei Vescovi, la presa di posizione pubblica della Conferenza Episcopale Calabra, ma anche di singoli presuli nelle diocesi più colpite dal fenomeno criminale, apriva nuove strade: insieme alla denuncia, l’esame del fenomeno, l’impegno di arginare la criminalità, battendo le vie preventive dell’educazione e della formazione, soprattutto quella della testimonianza cristiana personale e comunitaria. Al cammino comunitario si giunse dopo un percorso graduale, per certi versi anche faticoso, che ha trovato la sua luce e la sua forza proprio nelle indicazioni Conciliari.
È interessante vedere come la storia di quest’impegno ci fa assistere ad un vero e proprio “magistero sociale” di lotta e di purificazione dei Vescovi calabresi: dal I Concilio Plenario Calabro del 1934, nel quale i Vescovi insieme si espressero per una svolta, alla lettera del 19 giugno 1945 (alla fine della II guerra mondiale) allorché si individuò “nel deficit di spiritualità” la causa di tante problematiche valoriali calabresi e nella Croce di Cristo il riferimento per riscoprire “radici comuni” di fede e di cultura, anticipando un dibattito europeo che si svolgerà settanta anni dopo a proposito di radici comuni dell’Europa e dell’Italia.
Va ricordato, inoltre, come i presuli calabresi aderirono con “convinzione e partecipazione” al progetto di una Lettera collettiva dei Vescovi meridionali sui problemi del Mezzogiorno (1948), nella quale monsignor Lanza ebbe il ruolo di protagonista e di estensore, così come accadde anche in occasione del III Congresso Eucaristico regionale di Cosenza, il 25 gennaio 1948, al quale si pervenne dopo una lunga e feconda riflessione, da cui scaturì la Lettera ai fedeli: Eucarestia e ricostruzione morale della società, per la quaresima 1947. Così scrivevano allora i Presuli: “Causa prima dello smarrimento e del pervertimento dell’uomo, e della sua quasi totale decadenza spirituale e rovina materiale, è stato il distacco da Dio. Dio assente significa per l’uomo oscurato, traviamento, morte, miseria”.
In conclusione ritengo che tanto si è scritto e fatto, ma molto resta da fare per formare seminaristi, clero e fedeli ad essere autentici testimoni di Cristo, cioè credenti, coerenti, credibili, (cioè liberi dall’attaccamento al denaro, da ogni forma di compromesso nell’amministrazione dei sacramenti, nella scelta dei padrini, nelle esequie dei mafiosi riconosciuti tali,) che aiuterà i fedeli a coltivare i veri valori umani e cristiani e tutto ciò con la sola disarmante “arma” del vangelo.

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ZENIT Staff

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