Gianfranco Amato (Foto: Ateneo Pontificio Regina Apostolorum)

“La famiglia è il cuore della politica, non serve una mera logica assistenziale”

Gianfranco Amato racconta le sue battaglie in favore dei valori non negoziabili: un impegno “scomodo” per il quale la tiepidezza è controproducente

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Nell’ambito del XV Corso Estivo di Bioetica, che si sta concludendo all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, è intervenuto tra gli altri in qualità di relatore, l’avvocato Gianfranco Amato.
Presidente Nazionale dell’Organizzazione Giuristi per la Vita, l’avvocato Amato è stato insignito lo scorso anno del Premio Internazionale per l’impegno sociale, intitolato a Rosario Livatino. Per l’occasione ZENIT ha raccolto la sua testimonianza.
Avvocato Amato, partendo proprio dal riconoscimento da lei ricevuto lo scorso anno, cosa significa per Lei battersi per i valori legati alla vita, alla giustizia, alla verità ma anche alla fede?
Significa, innanzitutto, avere il coraggio di proclamare la Verità, seguendo l’ammonimento di San Paolo ai Filippesi, ossia «in nullo perterriti ab adversariis», senza farsi intimorire dagli avversari, anche quando la Verità è scomoda alle orecchie del Potere. Anzi proprio quando è scomoda occorre gridare più forte e con maggiore convinzione.
Significa, poi, stare ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, calzati con lo zelo evangelico, muniti dello scudo della fede, dell’elmo della salvezza e della spada dello Spirito, cioè della parola di Dio. Tutto ciò nella piena consapevolezza che la battaglia in difesa della vita, della giustizia, della verità e della fede non è ingaggiata contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.
Il premio a cui Lei fa riferimento è conferito a coloro che si battono, con sacrificio e rischio personale, per un impegno sociale improntato ai valori della vita, della giustizia, della verità e della fede, in difesa della legalità, del rispetto delle regole, della divulgazione di un’informazione libera e corretta. Quel premio mi è stato conferito il 21 settembre 2015 – data della barbara uccisione del giudice Rosario Livatino per cui è in corso un processo di beatificazione – nell’ambito del XXI Memorial “Rosario Livatino, Antonino Saetta e Gaetano Costa”, con la seguente motivazione: «Perché alla luce di un martirio in nome della giustizia, si operi sempre nel timore di DIO, nel rispetto dell’uomo, con amore, dignità, solidarietà, scrupolo e serietà per un reale impegno sociale che affermi Valori e Ideali limpidissimi, affinché davanti a DIO PADRE possiamo un giorno dire “abbiamo amato la giustizia e difeso il giusto, l’indifeso e il povero, cercato la pace, amato tutti, reso migliore il mondo di come l’abbiamo trovato”». Ecco, credo che la motivazione del premio spieghi perfettamente il motivo del mio impegno.
Lei collabora con molte testate giornalistiche cattoliche ed è autore di diverse pubblicazioni, come riesce a conciliare la sua anima di autore con quella di avvocato?
In realtà quella che da ormai tre anni è diventata per me una missione, mi occupa a tempo pieno, e non mi consente quasi più, di fatto, l’esercizio della professione. Ho rinunciato a molto, ma ho sperimentato la grazia del «centuplum» evangelico. Del resto, tutto quello che noi abbiamo ricevuto, lo abbiamo avuto in dono, e dobbiamo essere pronti a restituirlo quando ci viene richiesto, secondo l’insegnamento che ci è stato dato: «Gratis accepistis, gratis date!». Ogni mattina, appena sveglio, sono solito recitare la preghiera ignaziana del “Suscipe, Domine, universam meam libertatem“. Le parole di quell’orazione rappresentano perfettamente lo spirito con cui affronto la giornata.
Poco più di un anno fa, a giugno, si è svolto il Family Day qui a Roma e replicato il gennaio scorso, quali ricordi porta ancora con se di queste giornate?
Due sentimenti. Il primo è la commozione nel vedere un popolo capace di alzare la testa davanti all’arroganza del Potere, e difendere principi e valori con la forza ideale di chi, sulla Verità, non cede neppure di uno iota. Il secondo è l’avvilimento per aver dovuto constatare l’assenza di una rappresentanza politica in parlamento di quel popolo. È stata indicibile, infatti, la delusione per il tradimento dei parlamentari sedicenti “cattolici” che hanno approvato la legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, il simil-matrimonio gay. Da questa delusione, però, è nata l’esigenza di organizzare un impegno politico in difesa della famiglia e dei principi non negoziabili, attraverso la nascita del movimento Il Popolo della Famiglia.
Quali normative sono oggi in vigore o al contrario, secondo lei dovrebbero essere attuate, per tutelare davvero il nucleo familiare?
San Giovanni Paolo II, il 31 gennaio 1998, parlando ai membri della Giunta e del Consiglio della Regione Lazio affermò che la famiglia rappresenta il “prisma” attraverso cui considerare tutti i problemi sociali, e attraverso cui passano tutte le questioni politiche. In questo senso la famiglia è il cuore della politica. Oggi, però, proprio la famiglia evoca un progetto costituzionale inattuato. Non è mai esistita nel nostro Paese una vera politica in favore della famiglia e della vita. Il fatto che l’Italia sia agli ultimissimi posti nella classifica del tasso di natalità mondiale, e che un bambino su tre in Italia sia scivolando verso la soglia di povertà è un indice di questa anomalia. Cosa fare? Innanzitutto difendere il concetto di famiglia come previsto dall’art.29 della Costituzione, ovvero l’unione di un uomo e di una donna uniti in matrimonio. Visto l’intensificarsi degli attacchi in atto, a livello normativo, contro questo concetto di famiglia, sarebbe già tanto difendere il concetto di «società naturale» contemplato dalla nostra Carta costituzionale. Senza entrare nel dettaglio degli interventi che si potrebbero fare dal punto di vista legislativo (e sono tanti a livello fiscale, tariffario, scolastico, edilizio, ecc.) mi pare che la cosa più importante sia invocare un cambio radicale di prospettiva. Una vera e propria rivoluzione copernicana. Fino ad oggi, infatti, le politiche familiari sono sempre state improntate ad una mera logica assistenziale. La famiglia non si deve più considerare un corpo moribondo da sorreggere ma una vera e propria risorsa della società da valorizzare con intelligenza, creatività, fantasia, buon senso. Riuscire a far compiere alla politica questa rivoluzione sarebbe già un formidabile risultato, e segnerebbe l’inizio di un’era nuova per le politiche familiari in Italia.
Vuole aggiungere qualcosa?
Sì. Rileggevo, tempo fa, uno dei grandi discorsi tenuti da Benedetto XVI. Si trattava di quello pronunciato a Castel Gandolfo il 21 settembre 2007. In un passaggio di quel discorso, il Santo Padre affermò: «A quanti condividono la fede in Cristo, la Chiesa chiede di testimoniarla oggi, con ancor più grande coraggio e generosità. La coerenza dei cristiani è infatti indispensabile anche nella vita politica, perché il “sale” dell’impegno apostolico non perda il suo “sapore” e la “luce” degli ideali evangelici non venga oscurata nella loro azione quotidiana».
Oggi più che mai il nostro Paese, in politica, ha bisogno di cattolici coraggiosi che non temono di dire «sì, sì e no, no». Che non hanno paura di apparire “divisivi”, quando proclamano la Verità. Che osano ancora parlare di “principi non negoziabili”. Che mostrano fermezza nel denunciare i compromessi di comodo o la tentazione dell’autoinganno difronte al male. Che hanno il fegato di sfidare apertamente ogni tipo lobby, consorterie, sette, anche se si chiamano massoneria. Che «appellunt bonum bonum et malum malum», ovvero che sanno ancora distinguere il bene dal male. Che non hanno perso il senso del peccato. Che odiano tutto ciò che puzza anche solo lontanamente di politically correct. Che hanno l’impudenza e l’improntitudine di annunciare la Verità, senza se e senza ma. Cattolici con la spina dorsale, temperamento e virilità. Insomma, cattolici che non vogliono rassegnarsi a diventare «sale insipido» (Mt 3,15).

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Michela Coluzzi

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