XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 10 luglio 2016
Rito Romano
Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
Rito Ambrosiano
1Sam 8,1-22a; Sal 88; 1Tm 2,1-8; Mt 22, 15-22
VIII Domenica dopo Pentecoste
1) In cammino per amore.
Nel brano del vangelo di oggi un Dottore della Legge domanda a Gesù: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc 10,25). Il Messia risponde a quest’uomo rimandandolo alla Sacra Scrittura di cui è esperto. Attingendo da essa, questo erudito della Legge risponde con esattezza: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27: cfr Dt 6,5 e Lv 19,18 ).
Poiché è a disagio per aver fatto una domanda di cui conosceva bene la risposta tant’è vero che ha messo insieme due versetti di due libri dell’Antico Testamento (il Deuteronomio e il Levito), quest’uomo dotto chiede: “Chi è il prossimo?” e Gesù gli risponde raccontando la parabola del Samaritano, dove insegna, secondo me in primo luogo, che il prossimo è Dio il quale ci si avvicina e ha misericordia di noi. Non dimentichiamo che Gesù ha iniziato la sua missione proprio dicendo che “il regno dei cieli si è fatto vicino”.
Di conseguenza, se il Redentore è il buon Samaritano, ciascuno di noi è quell’uomo mezzo morto gettato al bordo di una strada.
Dunque, il primo insegnamento, che possiamo ricavare dal Vangelo di oggi è che, quando la compassione di Cristo si prende cura di noi, noi siamo curati dall’amore, capiamo che la vita è amore e che per avere la vita bisogna amare.
Il secondo insegnamento ci dice come è possibile amare: imitando Cristo buon Samaritano, come Lui –e con Lui- avvicinandoci ai nostri fratelli e sorelle in umanità, guardandoli con una compassione che si fa soccorso, aiuto, medicina.
La parabola del buon Samaritano è dunque rivelazione del volto autentico dell’amore che si pratica con la misericordia e la compassione.
2) Il Samaritano.
E’ utile ricordare che nei vangeli leggiamo che Gesù fu oggetto di diverse accuse da parte dei suoi avversari: di essere un diavolo, di essere un mangione e un beone, e anche di essere un samaritano, cioè un eretico. Da tutte quelle accuse si difese Gesù, ma non da quella di essere un samaritano. Forse proprio perché voleva identificarsi nel Buon Samaritano di cui parla oggi la parabola. I Padri della Chiesa (San Girolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e molti altri) hanno interpretato questa parabola come descrizione del rapporto di Dio con gli uomini, che si fa vicino all’umanità ferita e abbandonata per portarla alla salvezza.
Nell’uomo che scende da Gerusalemme a Gerico ed è rapinato, i Padri della Chiesa vi hanno riconosciuto la figura di Adamo cioè l’umanità espulsa dal Paradiso terrestre a causa del peccato. Nei briganti vi hanno visto il tentatore che vuol dividere l’uomo da Dio, portandogli via gli abiti, cioè spogliandolo dell’amicizia di Dio e abbandonandolo mezzo morto sul bordo della vita simboleggiata dalla strada. Inoltre, nei personaggi del sacerdote e del levita vi hanno visto l’insufficienza dell’antica legge per la nostra salvezza.
Questa salvezza è portata a compimento dal “Samaritano” Gesù Cristo, nostro Salvatore, che partendo anche lui come noi da Gerusalemme ci viene incontro e cura le nostre ferite, il nostro peccato, con l’olio della grazia e il vino dello Spirito.
Infine, nella locanda i Padri della Chiesa vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore intravedono i pastori della Chiesa, che si prendono cura del ferito. Questa attività pastorale di misericordia è esercitata grazie anche ai due denari che, sempre secondo i Padri della Chiesa, indicano a Sacra Scrittura e i Sacramenti che ci aiutano nel cammino della salvezza.
3) Seguire Cristo, Samaritano dell’umanità.
Tutti noi siamo chiamati a seguire Cristo in questo cammino di salvezza, che va fatto facendoci anche noi samaritani.
Gesù mostra come sia possibile esercitare un amore pieno di compassione come samaritani di oggi. Per poterlo imitare in questo amore condiviso, dobbiamo prima di tutto convertirci al Lui, il Signore nostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Così faremo esperienza della vicinanza di Dio che cura e guarisce con amore e tenerezza.
Se ci facciamo la domanda: “Chi è il mio prossimo”, che letteralmente va tradotta : “E a me chi è vicino?” e che penso sia possibile parafrasare così “E a me chi vuol bene? Perché posso voler bene, se sono voluto bene”. E Gesù risponde che Lui è colui che ci ama avendo cura di noi. Insomma il Salvatore descrive se stesso raccontando la parabola del buon samaritano, e conclude con l’invito “va’ e fa’ lo stesso”.
Dunque lasciamoci avvicinare da Cristo e con Lui avviciniamoci, facciamoci prossimi di chi la vita ha messo ai margini, lasciandolo gravemente ferito. In questo ci è di insegnamento ed esempio Papa Francesco con la sua assidua cura per i rifugiati, a cui lui, il Papa, e noi con lui siamo spinti a farci prossimi dall’amore di Cristo. L’amore è Dio. E’ il sigillo divino nell’uomo. Nell’amore realizziamo quello che siamo. Tuttavia, purtroppo, se l’amore può essere frainteso e fonte di molti equivoci. Per evitare di capirlo e viverlo male mettiamoci alla scuola di Sant’Ignazio di Loyola. Questo grande santo scomponeva la parola “amore” in tre: lode, reverenza, servizio.
– La lode nasce dall’esperienza di liberazione operata Dio come, per es., è espressa nel Salmo 86: “Ti loderò, Signore, mio Dio, con tutto il cuore e darò gloria al tuo nome per sempre, perché grande con me è la tua misericordia: hai liberato la mia vita dal profondo degli inferi”(vv. 12-13). La lode nasce nel nostro cuore aperto, che ci permette di vedere – nonostante tutti i problemi – la bellezza della creazione e la bontà che Dio mostra nella sua creazione. Lodare vuol dire esprimere la gioia che l’altro sia l’altro, cioè differente da noi; amare l’altro non è volerlo possedere ma essere pieni di gioia per la sua presenza. Quindi lo lodiamo contento che sia sé stesso, non che sia nostro. E ogni bene suo, ci dà gioia più che se fosse nostro.
– La reverenza è qui da intendere come rispetto e devozione. E’ l’amore vissuto con purezza e umiltà, perché coscienti che l’altro vale più di noi stessi. Se lo/la amiamo in verità è la nostra vita. Non è strumento nostro. La reverenza ci fa andare vicino all’altro come quando andiamo a ricevere il Corpo di Cristo Eucaristia;
– Il servizio è l’amore vissuto nella concretezza, facendoci “prossimo” di chiunque abbia bisogno di aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la strada; mentre un sacerdote e un levita erano passati oltre, forse pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si sarebbero contaminati. La parabola, pertanto, deve indurci a trasformare la nostra mentalità secondo la logica di Cristo, che è la logica della carità: Dio è amore, e rendergli culto significa servire i fratelli con amore sincero e generoso.
Questa logica della carità, questo sguardo e attenzione verso gli altri è possibile solo se siamo pieni di Cristo, perché la nostra inclinazione ci spingerebbe, in prima istanza, a “possedere” l’altro, a imporsi.
Per questo è importantissima la verginità la quale non è altro che il culmine della carità (per questa ragione M. Teresa di Calcutta fece mettere tre bande blu sul velo delle sue Suore. Sono tre strisce che ricordano i tre voti: povertà obbedienza e castità. Quest’ultima è indicata con la striscia più grande perché nell’amore totale a Dio è contenuto l’amore per il prossimo) ha come effetto la gioia, perché ci permette di “affermare” l’altro, di vederlo inserito in un’ottica eterna, di guardarlo come lo guarda Dio.
4) Le Vergini consacrate e il Samaritano.
Per guardare e amare l’altro in Dio, quindi secondo il suo destino, è necessario compiere un sacrificio: bisogna, infatti, sacrificare la reazione immediata, di piacere o di dispiacere, di simpatia o di antipatia.
Tuttavia, il sacrificio sarebbe incomprensibile e, secondo me impossibile, se non si avesse Cristo come punto di riferimento. Il sacrificio cristiano è, in definitiva, l’accettare una Presenza che viene prima di noi e che è infinitamente grande. Vivere il sacrificio comporta affermare l’altro ancora prima di noi stessi, anche a prezzo della vita.
Tutti siamo chiamati a partecipare al sacrificio di se che Gesù ha fatto per salvare il mondo. In modo particolare che è chiamato a vivere la verginità ha come compito quello di testimoniare alla Chiesa ed al mondo intero che Cristo è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere. Cristo è ciò per cui è giusto che si doni tuta la vita. Insomma la vocazione alla verginità è l’essere chiamati ad essere esempio ideale per tutta la comunità. A ricordare a tutto il popolo di Dio che ciò per cui vale la pena sposarsi, lavorare, vivere, morire, mangiare, vegliare e dormire è Cristo.
La castità perfetta è il sacrificio di se stesse che le vergini consacrate compiono, donando tutto il loro amore a Gesù Cristo e consacrandoGli il proprio corpo e tutti gli affetti del loro cuore. La verginità è potenza d’amore per essere sante nell’amore a Dio e nel servizio all’umanità e permette a questa donne di essere feconde in santità, contemplazione e opere di misericordia (cfr. Vita Consecrata, n. 88).
Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.
Parabola del Buon Samaritano all' Ospedale San Raffaele, Milano / Wikimedia Commons - Fcarbonara, CC BY-SA 4.0
L’amore e il suo cammino
Lectio divina sulle Letture per la XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 10 luglio 2016