Un affascinante viaggio nella storia di un paese, oggi tristemente alla ribalta delle cronache mondiali ma con un passato glorioso. Ne La Chiesa in Iraq (Libreria Editrice Vaticana, 2016), c’è tutta l’esperienza ecclesiale ed intellettuale del cardinale Fernando Filoni, nunzio in Iraq dal 2001 al 2006, nei drammatici anni a cavallo della guerra contro Saddam Hussein, prima di assumere l’attuale incarico di prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (Propaganda Fide).
Nel volume il porporato analizza la complessa evoluzione del cristianesimo iracheno, che vede gli albori con l’evangelizzazione di San Tommaso Apostolo. Un cristianesimo frammentato in una miriade di chiese e comunità, costantemente in bilico tra la fedeltà alla Sede di Pietro e il controllo politico da parte degli imperi che, nei secoli si sono succeduti.
Durante la presentazione del libro, avvenuta ieri sera presso la Libreria Internazionale Paolo VI, il cardinale Filoni si è soffermato su alcune delle sue più significative esperienze in qualità di nunzio e, successivamente, di delegato del Santo Padre in due viaggi tra i profughi del Kurdistan (agosto 2014 e aprile 2015).
“Durante la guerra diedi l’ordine che tutte le chiese restassero aperte – ha ricordato Filoni -. Chi non voleva restare in casa per paura delle bombe, potevano andare in chiesa: metà di loro erano cristiani, metà musulmani. E i musulmani erano rimasti affascinati dai canti dei cristiani: li trovavano così belli, che chiedevano sempre loro di intonarli…”.
In Iraq, Filoni ha sperimentato che il dialogo islamo-cristiano è davvero possibile, come dimostra l’episodio dell’imprenditore musulmano che si offrì di ricostruire la nunziatura danneggiata da un’autobomba nel febbraio 2006. “Fu la prima persona che mi telefonò dopo l’attentato – ha raccontato il cardinale -. Mi promise che avrebbe riparato il danno di tasca sua e fu di parola. Mi disse: “Eccellenza, lei non pagherà nulla, se è stato con noi, lei è uno di noi….”
La strada per la vera pace tra le varie comunità religiose irachene è però lunga e faticosa. Sebbene, come riferito dal Prefetto di Propaganda Fidei, non manchino i leader politici – come il presidente del parlamento, il sunnita Salim al-Joubouri – favorevoli a riconoscere il “diritto nativo” dei cristiani iracheni di restare in patria (più ostile in tal senso è il governo, egemonizzato dagli sciiti), nel paese permane la mentalità della dhimmitudine, ovvero il considerare i cristiani dei cittadini di serie B.
“Un musulmano può anche essere d’accordo con la libertà religiosa ma la mentalità che si è plasmata nei secoli è discriminatoria – ha spiegato il cardinale -. Un cambiamento può arrivare solo dall’educazione del popolo ma per farlo bisogna partire dai più piccoli”.
A colloquio con ZENIT, Filoni si è poi soffermato sui contenuti del suo saggio, accennando anche ai suoi viaggi in Iraq più recenti.
Eminenza, com’è nata l’idea di dedicare un libro alla storia dell’Iraq cristiano?
In questo momento in cui tanto si parla di guerre, di Isis, di violenze, di occupazioni, di barbare uccisioni, di gente che viene rapita ed altra che è costretta a fuggire, molte delle vittime sono rappresentanti di una minoranza cristiana antichissima e questa minoranza viene spesso etichettata come “cristiani d’oriente”. Nessuno, però, sa esattamente chi siano, se siano “autoctoni” o frutto di un’evangelizzazione successiva.
Cosa scopriranno, quindi, i lettori?
La scoperta che molti faranno leggendo il mio libro è l’esistenza di una chiesa sorta in età apostolica, quindi antichissima, risalente allo stesso periodo in cui avveniva l’evangelizzazione del bacino mediterraneo da parte di San Pietro e San Paolo. In quegli stessi anni l’apostolo Tommaso si incamminava verso l’Oriente e, secondo quanto riferito dallo storico Eusebio, predicò nelle regioni dell’attuale Iraq, dove si formò la comunità cristiana definita “Chiesa d’oriente”, in quanto sorta ad Est del fiume Eufrate, mentre ad Ovest, nell’attuale Siria, vi era la chiesa siriaca. L’Oriente, quindi, comprendeva la Mesopotamia (attuale Iraq), il Kurdistan e la Persia. In quest’area geografica si sviluppò una chiesa patriarcale, che estese la sua evangelizzazione, non solo verso il Golfo Persico e gli attuali grandi paesi islamici (dove il Vangelo era stato annunciato ben prima di Maometto) ma anche verso l’India e l’Afghanistan, fino alla Cina, dove troviamo le vestigia Shian del credo professato dai cristiani d’Oriente. Sappiamo anche che l’evangelizzazione arrivò fino all’attuale capitale Pechino, al punto che un monaco pechinese divenne addirittura patriarca di questa chiesa d’oriente: nel giorno in cui egli intraprese un pellegrinaggio per andare a visitare la Terra Santa, si fermò proprio nella Chiesa di Oriente e lì, per l’appunto, fu eletto patriarca.
Che bilancio trae dalle sue visite in Iraq compiute negli ultimi due anni?
Mi sono recato in Iraq nell’estate 2014, poi la scorsa Pasqua, in qualità di inviato personale di papa Francesco, il quale, di fronte al dramma di popolazioni che erano state cacciate via dai loro villaggi tradizionalmente cristiani, in particolare da Mossul, non potendo essere presente, volle mandare qualcuno a suo nome. Si trattava di una visita che voleva portare incoraggiamento, solidarietà, nonché aiuto concreto, stimolare la carità e l’attenzione internazionale su un dramma che si stava consumando proprio ai danni di quella chiesa locale ma anche di altre minoranze come gli yazidi. La seconda volta, a Pasqua, l’intento del viaggio fu quello di fare in modo che le famiglie e i gruppi che avevo incontrato non si sentissero dimenticate. Ho portato, quindi, migliaia di colombe da distribuire nelle comunità, come segno di solidarietà di tante famiglie di Roma che mi avevano dato questo incarico. Sono stati, dunque, due incontri di solidarietà, di vicinanza, di affetto, di stima e di incoraggiamento.
Nel libro lei descrive gli iracheni come un popolo che non si può non amare…
Certo, quando lì si incontrano le persone, se non si tratta di una visita superficiale, si stabilisce una relazione che, se è autentica, permane. Quindi, oltre l’incontro, si concretizza qualcosa che va oltre, qualcosa di profondo.
Circa un anno fa Papa Francesco espresse il desiderio di visitare l’Iraq: allo stato attuale delle cose, ritiene che un viaggio del genere sia possibile?
Il Santo Padre ha espresso il desiderio di volervi andare ma i tempi non li sappiamo. Vedremo quando sarà possibile. Questo è un aspetto prudenziale ma la promessa resta in piedi.
Siamo nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: qual è la situazione dell’ecumenismo in Iraq?
In Iraq ci sono sia comunità cattoliche che ortodosse, tra le quali, normalmente, ci sono sempre state buone relazioni, segnate dalla condivisione della fede, sebbene la tradizione ortodossa presenti elementi di distinzione. Rimane l’auspicio che vengano superate le divergenze liturgiche, come ad esempio, quella relativa alla Pasqua: la speranza è che un giorno possa essere celebrata insieme.
Filoni: “Musulmani favorevoli alla libertà religiosa ma resiste una mentalità discriminatoria”
Per il Prefetto di Propaganda Fide la promessa di papa Francesco di visitare l’Iraq “resta in piedi”