La fede non è un salto nel buio. «Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento» (Don Luigi Giussani).
La fede, nel cristianesimo, è essenzialmente un’esperienza fondante che continua a ripetersi nell’arco di una vita. In ebraico la parola fede – emunah – non ha assolutamente la connotazione che siamo soliti conferirgli: essa rimanda a un sostegno, a qualcosa di fermo cui poter appoggiarsi.
Si comprende così perché l’autore della Lettera agli Ebrei scriva che “in Cristo abbiamo come un’ancora della nostra fede”. E’ Cristo il fondamento della fede, e Lui non è un’idea, un sogno, un progetto, è una persona.
Scriveva il cardinale Ratzinger: “Il punto di partenza è l’esperienza della fede come realtà. Il cristianesimo è presenza, il qui ed ora del Signore, che ci sospinge nel qui ed ora della fede e della vita di fede. E così diventa chiara la vera alternativa: il cristianesimo non è teoria, né moralismo, né ritualismo, bensì avvenimento, incontro con una presenza, con un Dio che è entrato nella storia e che continuamente vi entra. Il cristianesimo è avvenimento; il cristianesimo è incontro con la persona di Gesù Cristo”.
Per questo Luca, indirizzando il suo Vangelo a Teofilo, l’innamorato di Dio (Θεόφιλος in greco), lo invita a lasciarsi condurre dentro un avvenimento realmente accaduto, perché la sua fede abbia pieno convincimento della solidità degli insegnamenti ricevuti.
In ogni modo occorrono occhi di bambino, semplici, per guardare alla realtà senza pregiudizi. Occhi di Teofilo, innamorati ed amati secondo il duplice senso che esprime la parola greca;occhi fissi su Gesù.
In ebraico il valore numerico delle lettere che formano la parola ebraica emunah, fede, corrisponde al valore numerico della parola “bambini”. Occhi di bambini dunque, affamati e semplici, gli occhi che, nella tradizione ebraica, si schiudono solo nello Shabbat.
Non è un caso che Gesù entri in Sinagoga, la sua Sinagoga, laddove era stato allevato nello studio della Torah. Gesù torna alle origini, alle fonti della sua storia, che è la storia di Dio con il suo popolo.
Ed è la storia di un innamoramento, e poi d’amore travolgente, e di un’alleanza eterna, e poi di tradimenti, e cadute, e perdono e misericordia. Una storia di schiavitù, di oppressione, di povertà, spesso di cecità. La storia di un resto umiliato, affamato, con gli occhi fissi su una promessa. La storia di un’attesa, di un ardente desiderio di compimento.
Il Sabato per Israele è tutto questo, il compimento delle nozze promesse. Nella lingua ebraica shabbat è femminile e in tutta la simbologia ebraica il sabato è paragonato alla sposa.
Il canto per eccellenza con cui si accoglie questa festa è Lehà doddì, cioè “Vieni mio caro”, dalle prime due parole del ritornello che viene ripetuto dopo ogni strofa. Israele viene presentato come uno sposo invitato ad incontrare la sua sposa: “Vieni mio caro incontro la sposa, accogliamo shabbat”.
Nel sabato risuonano le parole del Cantico dei Cantici, ed in quel giorno a Nazaret giungeva lo Sposo. Eccolo dietro la grata, eccolo raccogliere il rotolo del Libro, dove è scritta la sua storia e la volontà del Padre. Ecco il corpo preparato per manifestare l’Eterno, l’amore promesso, tante volte donato, ed ora vivo e bello, da potersi guardare e fissare.
Ecco il sabato compiuto, il riposo agognato, quel volto di ebreo che stilla dolcezza e attira irresistibilmente ogni sguardo. Eccolo consegnare un oggi eterno, quell’istante di duemila anni fa, ed ogni istante di ogni vita, lo scrigno dove deporre la Parola compiuta.
Ecco la libertà, la salvezza, la guarigione, la gioia. Ecco le nozze, ecco la sua voce che ci guarda come uno sposo folle d’amore guarda la sua sposa. Ecco tutta la storia fissarsi in quell’istante, e trovar senso e compimento.
Ecco la sua voce, quelle parole, e l’invito ad alzarci e ad andare con Lui, che l’inverno della morte e del peccato è passato, è già la primavera della Pasqua, della vita rinata per non morire più.
E’ Lui che aspettavamo, da sempre. E’ Lui che oggi ci spalanca le braccia e il cuore per farci uno con Lui, per attirarci nel suo amore infinito, per dare luce e splendore e sapore e allegria alle nostre esistenze, qualunque esse siano, crocifisse e dolenti che siano; oggi si compie la Parola, oggi si schiude il Cielo.
Wikimedia Commons - Daskunstmuseum, CC BY-SA 3.0
È Lui che aspettavamo, da sempre
Commento al Vangelo della III Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) — 24 gennaio 2016