Le tre baracche dove la fede restò viva a Dachau

In un libro di Guillaume Zeller, la testimonianza inedita dei sacerdoti internati nel famigerato campo di concentramento

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Baracche 26, 28 e 30. Questi i numeri assegnati a tre delle 30 baracche di prigionieri a Dachau. Si tratta di baracche “speciali”, destinate a sacerdoti e religiosi che, per diversi motivi (opposizione ai programmi di eutanasia, partecipazione alla resistenza…), i nazisti hanno imprigionato, accanto agli altri, nel famigerato campo di concentramento.
È un tassello meno conosciuto dell’Olocausto, che merita di trovare spazio nel Giorno della memoria. Sono infatti note personalità d’eccezione come san Massimiliano Kolbe e santa Edith Stein, martiri entrambi ad Auschwitz. Ma ad aver intrapreso un racconto “corale” è stato il giornalista francese Guillaume Zeller, caporedattore di DirectMatin.fr, nel suo libro Block 262830 in uscita da Piemme.
Preti e religiosi di ogni nazione d’Europa sono passati nell’orrore di Dachau, sottoposti allo stesso trattamento disumano di tutti gli altri prigionieri. Nel periodo tra il 1940 e il 1945 si calcola che in totale vi siano stati 2.720 tra preti e religiosi cattolici (senza contare i 141 religiosi protestanti e ortodossi); 1.034 di loro vi hanno trovato la morte. Vi è una presenza massiccia di polacchi (il 65%), ma anche di tedeschi (447). Sono presenti anche 28 italiani, tra i quali il domenicano albese Giuseppe Girotti, beatificato il 26 aprile 2014. Nel campo si muore per lo più per una combinazione di fame, prostrazione e malattie.
Zeller dipinge vividamente la vita “quotidiana” dei preti a Dachau, da cui fa emergere singole persone ed episodi. Una vita fatta, come per gli altri, di duro lavoro, di fame, di morte, di malattie (soprattutto il tifo), di vessazioni, di espedienti per la sopravvivenza. Particolarmente odiosa è l’avversione anticristiana che si riversa sui preti, a causa del loro particolare stato. Tra gli episodi più violenti, si ricorda la “settimana santa” del 1942: in seguito alla scoperta di una somma di 720 dollari tra gli effetti personali di don Stanisław Wierzbowski, tutti i preti (con l’eccezione di quelli tedeschi) vengono costretti a marce ininterrotte da mattina a sera, proprio durante la settimana santa.
Dal maggio all’agosto del 1942, oltre 300 religiosi (su 724 detenuti) vengono inviati nei “Himmelfahrtstransporte” (trasporti per il cielo), eufemismo che indica coloro che vengono portati via per il programma di eutanasia perché ritenuti improduttivi (anziani, invalidi e altri).
Non mancano gli episodi di eroismo, come quello dei 18 religiosi che, in una gara di abnegazione, si offrono volontari per assistere i malati di tifo esantematico, abbandonati nelle baracche sottoposte a isolamento.
Ma la parte forse più originale del libro di Zeller sta nelle riflessioni della terza parte. Vi si racconta della “lotta” dei preti per mantenere una vita spirituale (solo dopo una trattativa del Vaticano i religiosi riescono a ottenere una cappella) e vivere in mezzo agli altri detenuti il loro sacerdozio (è vietato confessare e amministrare i sacramenti, ci si “organizza” clandestinamente, a proprio rischio e pericolo). Un episodio eccezionale poi è l’ordinazione sacerdotale (segreta) del giovane Karl Leisner, possibile grazie alla presenza di un vescovo, monsignor Piguet, tra i detenuti.
E non mancano, secondo Zeller, i “frutti di Dachau”. «Tre anni d’esperienze che per niente al mondo vorrei non aver fatto», testimonia il gesuita belga Leo de Coninck, dopo la liberazione. Nelle baracche di preti si sperimenta in modo nuovo l’unità della Chiesa, si fa esperienza vissuta di ecumenismo tra credenti di diverse confessioni. Ma soprattutto i preti si trovano a contatto con una variegata tipologia di persone – dai detenuti comunisti a operai scristianizzati – che costituiscono una sfida a ripensare l’annuncio del Vangelo. Padre De Coninck sembra anticipare l’idea di Chiesa “in uscita” di papa Francesco, quando inviterà i confratelli ad “abbandonare” le sacrestie e a uscire sul sagrato. «Di questo ha bisogno il mondo senza Dio», scriverà: «Di anime che vi si tuffino a capofitto, vi si insinuino e vi si incorporino intimamente, ma sempre colme di Dio». A Dachau padre Joseph Kentenich matura l’idea di quello che sarà il movimento apostolico di Schönstatt.
Il vertice di queste esperienze spirituali è l’impressionante episodio in cui monsignor Kazimierz Majdański, al processo a Monaco nel 1974, perdona il suo carnefice Heinrich Schütz, responsabile degli esperimenti medici dei nazisti a Dachau. «Possiamo comunque guardarci negli occhi», gli sussurra monsignor Majdański. Una vera lezione di nobiltà cristiana anche per oggi.
[Fonte: Credere, giovedì 21 gennaio 2016, pp. 36-37]

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Vincenzo Vitale

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