La visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma – analogamente a quelle di Giovanni Paolo II il 13 Aprile 1986 e di Benedetto XVI il 17 Gennaio 2010 – mette in evidenza non solo l’importanza che il popolo ebraico e la sua fede hanno per i cristiani, ma anche la rilevanza che il cristianesimo ha per l’ebraismo, come ancora una volta ho sperimentato di persona in questi giorni tenendo la “annual lecture” al Centro di studi sul cristianesimo della Hebrew University di Gerusalemme.
Perché questa rilevanza? La risposta può essere cercata in una scena biblica, cui sono ricorsi gli antichi pensatori cristiani per illuminare il rapporto fra Israele e la Chiesa: si tratta dei due esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende un grappolo d’uva, che essi accompagnano col melograno e il fico: “Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi”(Numeri 13,23). Nell’asta i Padri della Chiesa hanno visto il legno della Croce, da cui pende Cristo: “Figura Christi pendentis in ligno” (così ad esempio Evagrio intorno al 430 nella “Altercatio inter Theophilum et Simonem”: PL 20,1175).
Nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: “Portando l’asta, essi appresentavano i due popoli, l’uno avanti, quello ebraico che dà la spalle a Cristo, e l’altro indietro, che guarda al ramo, il popolo dei cristiani”(ivi: stesse idee in S. Massimo di Torino, alla metà del V secolo: Homilia 79: PL 57,423s). In quanto marciano l’uno dietro all’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa fondate sulla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che confessa in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’alleanza con Israele e della promessa fatta ai credenti.
Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la profonda continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unico legno che entrambi gli esploratori portano, ma anche per l’orizzonte comune della meta cui si rivolge il loro sguardo. Uniti nella speranza e nell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dal legno della Croce. Il legame è così forte, che il recente documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Chiesa Cattolica, pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II (10 Dicembre 2015, dal titolo: “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!”, citazione della Lettera di Paolo ai Romani 11,29), non esita ad affermare: “Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico: il cristianesimo, date le sue radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito dialogo interreligioso in senso stretto: si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di dialogo intra-religioso o intra-familiare” (n. 20).
In particolare, tre elementi di continuità e insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa possono essere evidenziati: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento, e cioè la convinzione che in essa ci è offerto il senso ultimo della vita e della storia, e pertanto ci è indicata la direzione di marcia che rende piena e significativa l’esistenza umana in questo mondo; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento, e dunque la missione che essi hanno in forma simile ed insieme diversa per tener alto nella vicenda umana il senso religioso, inteso come l’apertura accogliente al Dio che si rivela per la nostra salvezza, motivato unicamente dall’amore per le sue creature. Ciò che unisce i due esploratori è dunque anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Perché questo avvenisse, la stessa Verità ha parlato il linguaggio degli uomini e infiammato di desiderio i loro cuori: l’Infinito è entrato nel finito per comunicarsi a noi!
Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: “Il piccolo può contenere il grande”(cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9). Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: “Non essere costretti dal massimo, essere invece contenuti dal minimo, questo è divino”(elogio sepolcrale di Sant’Ignazio di Loyola). Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano. “Zimzum” è l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo del Dio vivo che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà e nell’amore.
L’invocazione “Tu sei Umiltà”, contenuta nelle Lodi del Dio Altissimo di San Francesco, mostra quanto questo messaggio corrisponda all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nel farsi carne del Verbo eterno e nel suo “annientamento” (“kénosi”) per amore nostro. Questa “estasi” del divino, questo “star fuori” dell’infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire al cammino della creatura verso il Mistero, che è la vocazione ultima della creatura alla verità e alla bellezza che salva, e che per il cristiano è resa realizzabile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: qui la fede dell’ebreo Gesù unisce Israele e la Chiesa; qui la fede in Lui li distingue, pur senza separarli, nel comune cammino della speranza verso il compimento della promessa di Dio nel Regno che non avrà fine.
Nel messaggio di quest’anno per la giornata del dialogo ebraico cristiano, che cade sempre il 17 Gennaio, Rav. Giuseppe Momigliano, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, ed io in quanto Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, abbiamo perciò affermato: “Attraverso le nostre fedi riconosciamo anzitutto tutto il bene che c’è nel mondo, ed insieme viviamo con angoscia gli eventi del presente, che sono carichi di sofferenza e di inquietanti prospettive per il futuro, assistiamo sgomenti a gesti orrendi che profanano il Nome dell’Eterno, perpetrati con l’ignobile pretesa di adempiere alla Sua volontà, cogliamo con preoccupazione i segni sempre più frequenti di un’umanità smarrita, delusa da tante false idolatrie…
Mentre rinnoviamo la nostra fedeltà ai principi e ai precetti che, con distinte peculiarità, caratterizzano le nostre fedi, sentiamo l’urgente necessità di ribadire la fiducia che, proprio dal fecondo dialogo da noi intrapreso, dalla ricerca di valori morali e spirituali condivisi nei quali operare in sintonia, possa scaturire una positiva testimonianza di fede, suscettibile di restituire speranza e di rivolgere nuovamente i cuori di molti verso l’Eterno”. Anche per questo la visita di Papa Francesco alla Sinagoga di Roma è un evento che tocca tutti, credenti e non credenti che siano.
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Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 17 gennaio 2016, pp. 1 e 20
Quel legame che unisce ebrei e cristiani
Una riflessione a margine della visita del Papa alla Sinagoga di Roma