Francesco e una Chiesa che riscopre le "viscere materne" della misericordia

Nel libro-intervista firmato con il vaticanista Andrea Tornielli, “Il nome di Dio è misericordia”, il Papa affronta temi caldi come corruzione, omosessualità, divorziati risposati ribadendo la missione della Chiesa a non condannare ma abbracciare chi è ferito

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C’è ancora tanto e tanto da conoscere del Papa che dal 13 marzo 2013 siede sul trono di Pietro. Sfumature di misericordia che il Pontefice ha già insegnato al mondo attraverso le sue catechesi, i discorsi e le omelie e che il mondo ha imparato ad apprezzare. Sfumature che ora diventano indicazioni precise nel nuovo libro-intervista “Il nome di Dio è Misericordia” curato dal noto vaticanista de La Stampa e Vatican Insider, Andrea Tornielli, inquadrandosi in alcuni temi ‘caldi’ di attualità della Chiesa e del mondo.
Corruzione, omosessualità, nullità matrimoniali, chiusure della Chiesa, condizioni di detenuti, prostitute e fasce deboli della società, alcuni degli argomenti affrontati nel volume, edito da Piemme, di cui ieri La Stampa, Corriere della Sera, Repubblica ed Avvenire hanno pubblicato diversi estratti. Il libro – la cui copertina reca la firma autografa del Santo Padre – verrà pubblicato invece domani martedì 12 gennaio con un lancio mondiale in 86 Paesi.
Nel colloquio con il giornalista, Francesco torna a stigmatizzare il male della corruzione che “fa perdere il pudore che custodisce la verità, la bontà, la bellezza”. Dure le critiche del Pontefice contro “chi va a Messa ogni domenica, ma non si fa alcun problema nello sfruttare la sua posizione di potere pretendendo il pagamento di tangenti”. O contro chi “s’indigna perché gli rubano il portafoglio e si lamenta per la scarsità di sicurezza che c’è nelle strade, ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse, e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per evitare di assumerli a tempo indeterminato oppure sfrutta il lavoro in nero. E poi si vanta pure con gli amici per queste sue furbizie”.
“Il corrotto – afferma il Papa – spesso non si accorge del suo stato, proprio come chi ha l’alito pesante e non se ne rende conto”. Il Signore tuttavia “lo salva attraverso le grandi prove della vita, situazioni che non può evitare e che spaccano il guscio costruito poco a poco permettendo così alla grazia di Dio di entrare”. “Dobbiamo ripeterlo: peccatori sì, corrotti no!”, rimarca Bergoglio, perché la corruzione “non è un atto, ma una condizione, uno stato personale sociale, nel quale uno si abitua a vivere”.
“Il corrotto – prosegue – è così chiuso e appagato nella soddisfazione della sua autosufficienza che non si lascia mettere in discussione da niente e da nessuno. Ha costruito un’autostima che si fonda su atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri. Il corrotto ha sempre la faccia di chi dice: `Non sono stato io!´. Quella che mia nonna chiamava: `faccia da santarellino´”.
Totalmente differente l’atteggiamento del Papa verso gli omosessuali; anzi “persone omosessuali” come preferisce che vengano definiti, perché “prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale”, afferma il Papa. “Non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore”.
Il Pontefice argentino torna quindi su quel fatidico “Chi sono io per giudicare?” pronunciato durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, al termine del suo primo viaggio internazionale del luglio 2013. “Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”, racconta a Tornielli. “Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare”.
“Io – aggiunge Bergoglio – preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnarle”.
Lo stesso atteggiamento si deve adottare anche con i divorziati risposati e tutte quelle altre persone in condizioni difficili che si trovano davanti a un muro dalla Chiesa e, per questo, fuggono da essa scandalizzati. Come la signora argentina che recentemente ha raccontato al Vescovo di Roma un caso appena accaduto nella sua città: “Un neonato di pochi giorni è morto senza battesimo, in una clinica. Il prete non ha lasciato entrare in chiesa i genitori con la bara del piccolo, ha voluto che si fermassero sulla porta, perché il bambino non era battezzato e, dunque, non poteva procedere oltre la soglia”.
“Quando la gente si trova di fronte a questi brutti esempi, in cui vede prevalere l’interesse o la poca misericordia e la chiusura, si scandalizza”, afferma Francesco. Stesso discorso per le questioni legate ai processi di nullità matrimoniale, da egli stesso recentemente riformate; ad esempio, racconta il Papa, “io ho una nipote che ha sposato civilmente un uomo prima che lui potesse avere il processo di nullità matrimoniale. Volevano sposarsi, si amavano, volevano dei figli, ne hanno avuti tre. Il giudice civile aveva assegnato a lui anche la custodia dei figli avuti nel primo matrimonio”.
“Quest’uomo – prosegue – era tanto religioso che tutte le domeniche, andando a Messa, andava al confessionale e diceva al sacerdote: ‘Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e in quest’altro, mi dia una benedizione’. Questo è un uomo religiosamente formato”.
Ancora un altro aneddoto: “Proprio in questi giorni – racconta il Santo Padre – ho ricevuto l’e-mail di una signora che abita in una città dell’Argentina. Mi racconta che 20 anni fa si era rivolta al tribunale ecclesiastico per iniziare il processo di nullità matrimoniale. Le ragioni erano serie e fondate. Un sacerdote le aveva detto che si poteva procedere senza problemi, perché si trattava di un caso molto chiaro per quanto riguarda l’accertamento delle cause di nullità. Ma per prima cosa, ricevendola, le aveva chiesto di pagare cinquemila dollari. Lei si è scandalizzata, ha lasciato la Chiesa. L’ho chiamata al telefono, ho parlato con lei. Mi ha raccontato di aver avuto due figlie che si impegnano tanto in parrocchia…”.
Non è questa l’immagine che il Successore di Pietro vuole insomma dalla sua Chiesa, bensì quella di una casa di misericordia dove anche “il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio”. Una Chiesa capace di commuoversi, come accade al Pontefice ogni volta che varca la porta di un carcere: “Mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io”, “le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte”.
“Può scandalizzare questo – ammette Jorge Mario Bergoglio – ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto”. E “se i Vangeli ci descrivono il suo peccato, il suo rinnegamento e se nonostante tutto ciò Gesù gli ha detto: Pasci le mie pecorelle, non credo che ci si debba meravigliare se anche i suoi Successori descrivono se stessi come peccatori”. O come “polvere”, come diceva di sé stesso Giovanni Paolo I.
C’è infatti una “vergogna” – osserva ancora il Papa nel libro – che può essere una “grazia” e non solo un limite. Lo è “quando uno sente la misericordia di Dio e ha una grande vergogna di se stesso, del proprio peccato”. Sant’Ignazio faceva chiedere la vergogna come grazia nella confessione dei peccati davanti al Cristo crocifisso”, spiega il Papa gesuita, e a proposito di confessioni ricorda il suo confessore padre Carlos Duarte Ibarra, che incontrò in parrocchia il 21 settembre 1953. Il giorno, cioè, in cui il futuro Papa si sentì per la prima volta chiamato da Dio, come San Matteo di cui ricorreva la memoria liturgica. Non a caso il suo motto episcopale è “Miserando atque Eligendo”.
Questa stessa folgorazione divina (“Mi sentii accolto dalla misericordia di Dio confessandomi da lui”) Francesco vorrebbe che la ricevesse ogni fedele del mondo. Per questo nel libro-intervista, parlando della missione della Chiesa, ribadisce che essa deve sì “condannare il peccato” e “deve dire la verità”, ma al contempo essa “abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio”. Sull’esempio di Gesù Cristo che “ha perdonato quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato”, o del Padre misericordioso della parabola del figliol prodigo che riaccoglie il figlio peccatore a braccia aperte.
“Seguendo il Signore la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono”, rimarca Francesco. Per farlo, aggiunge, “è necessario uscire”: “dalle chiese e dalle parrocchie” per “andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono e dove sperano”.
Una Chiesa “ospedale da campo”, dunque, usando la suggestiva metafora della prima intervista con padre Antonio Spadaro. “La Chiesa in uscita  – aggiunge – ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità”; in essa “vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici”. Di qui l’auspicio che “il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti feriti bisognosi di ascolto, compassione, perdono, amore”.
 

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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