Il piccolo principe che dobbiamo essere

Non ci sono più alibi: il vero progresso morale si ottiene con il coraggio di liberarsi dalle scorie, dagli orpelli, dalle inutili comodità

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«Non si vede bene che con il cuore: l’essenziale è invisibile agli occhi».
Il nuovo anno è iniziato, cinematograficamente, con l’esordio sul grande schermo del Piccolo Principe, la storia scritta da Antoine de Saint-Exupéry nel 1942, pubblicata un anno prima che lo scrittore francese scomparisse nei cieli sulla Corsica a bordo del suo velivolo, tradotta in oltre 250 lingue e venduta – a tutt’oggi – in 145 milioni di copie. Il bambino biondo e solitario, che vive su un lontano asteroide poco più grande di lui, ama una rosa, parla con una volpe e viaggia alla scoperta di altri corpi celesti incontrando eccentrici personaggi, si abbandona ad una considerazione divenuta celebre in tutto il mondo. Passano gli anni, e le sue parole – racchiuse nell’incipit di questa riflessione – non invecchiano, ma  sono sempre lì a farci riflettere, oggi più che mai, sul valore dell’essenzialità che rischia di cadere nell’oblio.
Nella quotidianità – chi più, chi meno – vogliamo, esigiamo, pretendiamo, reclamiamo, come se tutto ci fosse dovuto. L’insoddisfazione non ci permette neppure di godere di quello che – magari – abbiamo appena ottenuto, come siamo pronti a protestare perché desidereremmo qualcos’altro. È, questo, un vizio che riguarda anche l’intelligenza: vorremmo capire e risolvere tutto. Non amiamo più il gusto della semplicità, del poco, della sobrietà, dell’essere appagati anche da piccole cose: da un lato, c’è l’aspirazione a rendere ogni cosa più agevole e a portata di mano; dall’altro, si diventa sempre più pretenziosi, si ricorre all’artificiosità e alla sofisticazione invece della genuinità. Il consumismo, con la nostra compiacente complicità, ci ha portato ad una ricerca di necessità che in realtà, necessarie non sono, utili solo ad arricchire colui che le produce ed è tanto abile da convincerci che senza di esse non si può decorosamente vivere.
Insomma, l’attaccamento alle cose ci rende pesanti non solo fisicamente, ma nella mente e nel cuore, spegnendo la leggerezza e la libertà dell’anima. Ormai non ci sono più alibi: il vero progresso morale  si ottiene con il coraggio di liberarsi dalle scorie, dagli orpelli, dalle inutili comodità. Per riuscirvi, è indispensabile riscoprire qualità perdute. La prima è la sobrietà: certo, ha anche il volto duro del sacrificio, della rinuncia, della privazione. Dopo anni di spreco, di privilegi, di ostentazione, di urla, di sfoggio, è l’ora di tornare alla misura, alla semplicità, alla pacatezza. In una parola sola, all’essenzialità. Essa è la capacità di distinguere tra le necessità autentiche e quelle indotte dalla suggestione della pubblicità. È la prontezza di individuare nella realtà la via maestra che non ci disperda. È la virtù incorniciata dal Salmo 131: «Non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia».
È questa pace interiore, libera da tensioni incessanti, il dono più prezioso che si possa ricevere. Quello che serve perché anche un’esistenza apparentemente insapore ed incolore possa essere invece libera, fiduciosa, fiorita, limpida e fare di ciascuno un “piccolo principe”, nel cinema della vita.

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ZENIT Staff

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