Discorso del Patriarca di Venezia per la Festa del Santissimo Redentore

VENEZIA, sabato, 28 luglio 2007 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il discorso pronunciato il 15 luglio scorso dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, in occasione della Festa del Santissimo Redentore nell’omonima Basilica veneziana.

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Festa del Santissimo Redentore (1)

Il Redentore, l’“Amore che dà la vita”
Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze

1. Un gesto antico e sempre nuovo

«Deboli, empi, peccatori, nemici» (Rm 5,6): sono i quattro termini con cui la Seconda Lettura, tratta dalla Lettera ai Romani, indica la condizione in cui versava l’uomo quando con un atto di amore, puro, libero, gratuito Gesù si è consegnato alla morte per noi. Senza che noi prendessimo la benché minima iniziativa Dio ci ha riconciliato con Lui e ci ha salvati.

Dio «ha tanto amato il mondo» (Gv 3, 15, Vangelo) da chinarsi, Egli che è Dio, su di noi. Si è preso cura (cfr Ez 34, 11, Prima Lettura) di noi, come documenta in modo efficace la pagina del profeta Ezechiele che ogni anno, in questa preziosa circostanza cittadina, non finisce di stupirci. Si capisce bene perché la liturgia di oggi suggelli con questi tre preziosi testi il gesto, antico e sempre nuovo, con cui il popolo veneziano, preceduto dalle sue legittime autorità, scioglie annualmente il voto legato alla liberazione dalla terribile pestilenza del l576. Il popolo e le sue guide si volsero allora con fiducia a Colui che, senza nulla chiedere in cambio, poteva ridare salute. La morte che il terribile flagello aveva reso spettacolo inverecondo e quotidiano non ebbe l’ultima parola. Trionfò, alla fine, la vita. E la stupenda opera architettonica del Palladio continua ad esprimere plasticamente, per i secoli, come conviene all’arte quando tocca la sua radice di verità, questo inno alla vita ritrovata. Alla stessa vita i Veneziani, in qualche modo, rendono omaggio costruendo ogni anno il ponte votivo e soprattutto calcandolo per rinnovare al Redentore, con animo grato, la domanda di essere anche oggi salvati dalla debolezza, dal peccato, dall’empietà e dall’inimicizia verso Dio.

2. Il Redentore «ci salva mediante la Sua vita»

La Parola di Dio, tuttavia, fratelli carissimi, parla sempre al presente. Tanto più che solo nel presente si può cogliere il significato pieno del tempo. Superando la mera scansione cronologica che renderebbe inaccessibile passato e futuro, il presente riesce a svelare il segreto antropologico del tempo. Investito dall’interezza appassionata dell’uomo il presente si nutre di passato e di futuro. La liturgia odierna rende conto assai bene di questo valore antropologico del tempo, acutamente esaminato da Sant’Agostino, proponendoci l’amore del Padre, che si esprime perfettamente nella lotta vittoriosa che attraverso la Sua singolare morte Gesù intrattiene con la comune morte umana. Egli, «morendo per noi» (cfr Rm 5,8, Seconda Lettura), ci salva, oggi, «mediante la sua vita» (Rm 5, 10, Seconda Lettura) e vuole che «chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 15, Vangelo). Così, in questa splendida azione liturgica, noi diventiamo attori consapevoli del nostro tempo.

Veneziani ed ospiti, questa sera, e parlo anche delle decine di migliaia di persone che affollano la laguna per far festa, avvertono, più o meno consapevolmente, che questa amorevole cura di Dio viene incontro alla “domanda delle domande” che muove concretamente ogni uomo ed ogni donna nel quotidiano: “Alla fine qualcuno mi ama? Qualcuno desidera la mia durata definitiva??” “Qualcuno mi assicura per sempre?” È questa una formulazione ancora più radicale rispetto a quella già pregnante del Leopardi: “Ed io che sono?”.

3. A proposito di anima: infrangere un tabù

La risposta a questa “domanda delle domande” che, per Comte, non si sarebbe più dovuta porre, si trova, secondo gli odierni insegnamenti di Paolo e di Giovanni, nel dono di una vita piena che Gesù ci procura con la Sua morte e risurrezione. L’amore di Dio di cui parla il Santo Evangelo è in concreto la partecipazione già da ora possibile, nella fede e nei sacramenti della Chiesa, alla vita del Risorto.

Il Vangelo di Giovanni, che giustamente è stato definito il Vangelo della vita, afferma che questa vita è la vita eterna (ζωή) Essa, per l’evangelista, è coordinata, ma non può essere confusa né con la psiche (Ψυχή), né con il bios (βίος) che indicano quella vita naturale che terminerebbe nella morte.

La salvezza operata dal Redentore è questa vita eterna che Cristo incarna nella propria persona. Ci libera dal potere della morte sciogliendoci fin da ora dalla schiavitù in cui ci tiene il timore di finire nel nulla (cfr. Eb 2, 15). Essa ci pone in relazione diretta con Dio, facendoci vivere la coscienza che «di Lui noi siamo la stirpe» (cfr. Att 17, 28).

Immortalità dell’anima – assunta decisamente, come già fece Tommaso riformulando radicalmente l’antropologia aristotelica, nella dottrina cattolica della Risurrezione della carne – e destino eterno della persona diventano in tal modo i pilastri e l’orizzonte della vita di colui che è stato afferrato da Cristo. Solo questa dimensione definitivamente compiuta della vita, che ingloba nella necessaria autonomia mente (psiche) e cervello (cifra sintetica del bios), assicura pienamente l’uomo.

Allora l’amore verso Dio e verso i fratelli in tutte le forme diventa praticabile e doveroso. E la dignità costitutiva ed insopprimibile di ogni singolo uomo con i suoi diritti e doveri, su cui giustamente si fonda la convivenza civile a partire dalla modernità, non si riduce ad un flatus vocis. Infrangendo un certo tabù potremmo dire che solo l’affermazione convinta dell’esistenza dell’anima (spirito) consente all’uomo e alla famiglia umana di vivere con autentico profitto.

4. Interrogativi brucianti

Qui si scoprono le ragioni ultime, dobbiamo dircelo senza infingimenti, per cui in questo vespero la Chiesa madre e maestra ci convoca in questa prestigiosa Basilica.

Diventa allora quasi scontato l’interrogativo: realmente una simile concezione dell’uomo, visto come inscindibile ed insuperabile unità duale di anima e di corpo che travalica la morte, può essere, ancora oggi, al tempo della tecnoscienza, la ragione adeguata del vivere, la cifra integrale dell’amore umano? Di quale vita e di quale morte si intende qui parlare?

L’immortalità dell’anima nella prospettiva della risurrezione della carne, secondo una concezione piena della vita eterna, sono concetti ancora dotati di senso o non indicano piuttosto illusorie superstizioni che, per giunta, consolidano quell’ “assolutismo” della religione sempre indicato come causa delle più radicali forme di violenza?

Ancora, non sono simili categorie ad aver imbrigliato per secoli, proprio con la loro pretesa di assolutezza, lo sviluppo delle scienze? Inoltre, le neuroscienze non hanno ormai aperto una strada irreversibile per fornire spiegazioni compiute di ogni dimensione della vita umana fin nelle sue implicazioni etico-sociali senza che si debba ancora far ricorso a questi e simili “assoluti metafisico-religiosi”?

Infine, non è stata la teologia stessa a proporre di rinunciare all’idea di anima in quanto espressione, non autenticamente biblica ma ellenica (Culmann), di un infelice dualismo antropologico?

L’urgenza di unità e di indivisibilità dell’uomo, presente nella visione giudaico-cristiana ed in contrasto col dualismo del platonismo, non suona forse anch’essa come un invito a seguire con decisione le vie delle neuroscienze?

5. Sulla vita e sulla sua storia le spiegazioni tranquillizzanti non sono più sufficienti

I cultori delle neuroscienze convinti, forse con valide ragioni, che la comprensione del cervello rappresenti
la svolta epocale più radicale (una rivoluzione più grande di quelle copernicana, darwiniana e freudiana) affermano a chiare lettere non solo che la nozione di vita è assai complessa, ma anche che vita è un termine troppo generico ed applicabile ad un insieme di processi. A tal punto che “lo spirito di vita” e “la vita” sarebbero concetti «intorno a cui gli scienziati hanno cessato da tempo di interrogarsi» (2).

Anche tra i più avveduti filosofi non si cessa di sottolineare, da sempre, la complessità di tali nozioni. Si possono citare a titolo esemplificativo due ricorrenti autentiche “croci” del pensiero in proposito. In primo luogo il paradosso che lo stesso individuo vivente rappresenta: che cosa rende individuale una realtà corporea, di per sé infinitamente divisibile e qual è il principio di individuazione di “quel singolo” all’interno di una specie. Infatti, che cos’è alla fine l’individuo? A costituire la sua individua unità è la sua “appartenenza” alla specie oppure a connotarla è il fatto che egli è indivisibilmente (in-dividuo) se stesso? La tensione tra questi due poli resta insuperabile.

In secondo luogo, problema ancor più complesso, come spiegare all’interno del dinamismo dell’evoluzione biologica, mostrando l’infondatezza dell’accusa di speciismo, la qualità altra della vita umana, connessa all’apparire di fenomeni quali la coscienza e l’autocoscienza?

La religione, ma per stare a noi, la fede cristiana, non complica ulteriormente le cose pretendendo che, per descrivere compiutamente la vita umana, si debba parlare non solo di mente e di cervello, ma anche di spirito (anima) e per di più di spirito individuale intimamente legato ad una carne destinata a risorgere?

In sintesi la nozione di anima (spirito) dell’uomo, in cui per finire si concentra la questione dell’irriducibile immortalità dello spirito umano e della destinazione eterna di quell’unicum duale (anima-corpo) che è ogni singolo uomo, è ancora proponibile nel suo contenuto proprio? Indica qualcosa di reale al di là delle categorie (anima, spirito, ecc.) che la dottrina cristiana, la teologia e la filosofia hanno utilizzato per esprimerla?

6. La “mente etica

Rispondere a queste e simili domande in termini il più possibile adeguati è diventata una questione stantis vel cadentis per la fede cristiana. Come pastore lo tocco con mano ogni volta che amministro la Santa Confermazione e devo cercare di comunicare a ragazze e ragazzi, autentici divoratori di realtà virtuali, l’esistenza reale dello Spirito Santo che stanno per ricevere. Verità cristiana che chiama in causa il loro essere creature, dotate di un’anima spirituale incarnata, destinate a risorgere.

Accogliere la sfida contenuta in questa provocazione è diventata ancor più una questione di vita e di morte per l’etica da quando William Safire ha coniato il termine “neuroetica” per indicare quell’insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, da dare ai dilemmi di natura etica.

È decisamente positivo il fatto che siamo usciti dall’epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità. La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro – dal big-bang fino all’insorgere della prima cellula di vivente – sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell’etica filosofica e della “religio” cui, già dalla modernità, erano per altro state ridotte le religioni, spogliate da tutti i loro misteri e riti per essere considerate nei limiti della sola ragione. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» (3) e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» (4), non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino ad oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la “mente etica” ci unirà e ci salverà!

7. La felicità come prodotto della tecnoscienza

La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.

8. La questione dell’Io (Self) e l’allargamento della ragione

Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza? Veramente la questione della vita, dello “spirito di vita”, dell’ “Io” (Self) (per finire, dell’anima) è compiutamente risolvibile nel rapporto mente / cervello assunti come sostitutivi dei concetti di anima, di psiche e di bios?

Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta “riduzione”) che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: “ciò che è” è “ciò che è conoscibile”; “ciò che è conoscibile” è “ciò che è conoscibile scientificamente”; “ciò che è conoscibile scientificamente” è “ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica”. Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.

Non la scienza astrattamente intesa, che giustamente non accetta regolazioni estrinseche, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica?

Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell’indagine scientifica, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell’organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate. Emerge con forza già a questo livello la questione dell’Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall’aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualc
he funzione neuronale od area cerebrale.

In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive – come già affermava Aristotele – che oggi possiamo identifcare in almeno cinque forme differenziate ed irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cessa di invocare il rispetto dell’“ampiezza” della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata pena la caduta nella frammentazione del senso.

9. Un interrogativo insopprimibile

Anche quando le neuroscienze fossero in grado di descrivere il come gli stati neuronali del cervello si colleghino a tutti i fenomeni che, per intenderci, chiameremo spirituali, resterebbe intatta la questione del che cosa essi siano in realtà. Anche ammesso un rapporto di causalità tra stati neuronali ed emozioni, operazioni ed opzioni spirituali, tale confronto non potrebbe mai escludere, ma piuttosto suggerire l’esistenza di un principio che muove l’io (Self) nella sua relazione profonda verso il Sé e verso l’altro. Non è un caso, come già rilevava Aristotele (5), che il complesso concetto di vita indichi immediatamente un movimento spontaneo e non comunicato originantesi all’interno dello stesso essere vivente.

Come escludere che la biochimica del cervello descriva solo una dimensione del complesso comportamento spirituale di un essere che vive dell’insopprimibile unità duale di anima e di corpo? Ciò sarebbe arbitrario tanto quanto talune pretese di fornire risposte scientifiche a questioni antropologiche su cui la conoscenza scientifica come tale non ha a rigore nessuna competenza; come quando taluni scienziati affermano la possibilità di cominciare a rispondere «ad alcuni interrogativi più pregnanti – e fino a ieri filosofici – che l’uomo si sia posto fin dall’alba della storia. Cos’è il libero arbitrio? Cos’è l’arte? Cosa è il sé? Chi siamo noi?» (6); e giungono a dire che quando la scienza spiegherà in termini di biochimica del cervello l’Io (Self) – in una parola ciò che si è sempre chiamato anima – «il problema della natura del Self svanirebbe, o almeno verrebbe relegato in secondo piano, e accadrebbe ciò che è già accaduto con la vita» (7). Anche sul Self, come sulla vita, si cesserà di interrogarsi.

Questo genere di affermazioni, oggi assai diffuse in tanta pubblicistica che si occupa del rapporto tra visione tecnoscientifica e visione etica e religiosa pretende di ridurre ogni questione in termini scientifici, ma non per questo fa svanire il problema della natura umana. Se la biochimica del cervello risponderà alla domanda su che cosa sono il libero arbitrio, l’arte, su chi siamo noi, allora la grande questione della natura dell’Io e della vita – e alla fine dell’anima – troveranno una spiegazione in cui il problema della natura dell’io non svanirà affatto, ma solo sarà risolto da una pura lettura tecnoscientifica, che comunque dovrà mostrare la sua sufficienza. Oppure la biochimica del cervello, come personalmente ritengo occorra concludere, potrà solo dire sempre meglio il come del suo nesso con la mente, lasciando spazio ad altri procedimenti razionali per indagare il che cosa della mente stessa oltre che del bios. Questo che cosa, da quando l’uomo esiste, non è mai stato messo da parte semplicemente perché irresistibilmente l’uomo, a partire dalla domanda che lo costituisce, “alla fine chi mi assicura definitivamente?”, sempre lo ripropone. È la sua dimensione spirituale, l’anima, che impone all’uomo la domanda sulla natura della mente e attraverso di essa sulla sua natura tout-court.

10. Universalismo scientifico

A questo punto si è condotti a chiedersi se una concezione esclusivista della tecnoscienza non implichi una sorta di fede irrazionale. Che cosa la regge? Forse già Cartesio aveva individuato la giustificazione storico-culturale del sapere scientifico mosso nella promessa di rendere l’uomo maestro e padrone della natura: («maître et possesseur de la nature»). Pregio affascinante del sapere scientifico, che si documenta, da una parte, nel suo universalismo teorico e pratico in antitesi alla molteplicità e conflittualità delle religioni, dall’altra nell’enorme incremento di possibilità che la scienza, attraverso la tecnica, mette a disposizione del mondo. Doppia attribuzione della tecnoscienza che incentiva di fatto la rinuncia della ragione a porre le domande sui fondamenti, mentre sospinge la libertà a impegnarsi principalmente nelle realizzazioni affidate ad una tecnicità sempre più potente e perciò alla fine sempre più autogiustificantesi. Da qui l’ancoraggio pratico, prima che teorico, al culto oggettivo della scienza e alle “possibilità” concrete della tecnica (si veda il grande peso assunto dal mondo virtuale – second Life – che sollecita la fantasia ed il desiderio di una libertà concepita senza regole diverse dalla sua stessa volontà).

Si intravede qui una forma post-moderna di utopia non priva di pesanti conseguenze a livello sociale. Infatti tutto ciò che non rientra nell’ottica di questa sorta di “universalismo scientifico” viene tutt’al più relegato in una specie di riserva indiana, che non può aspirare ad assumere rilevanza pubblica universale, per cui l’universale concreto delle religioni è sentito come invadente e violento in se stesso. Di conseguenza – osserviamo – le espressioni “sociali religiose devono essere neutralizzate” dalle istituzioni statuali.

La sfera pubblica, si conclude, non può essere, per principio, una sfera pubblica religiosamente qualificata da esperienze e visioni di vita impegnate in quel libero racconto e confronto che dovrebbe invece essere costitutivo di una società plurale.

11. L’uomo, unità duale di anima e di corpo

Per meglio profittare dei frutti buoni della tecnoscienza dobbiamo affermare la necessità di dare soluzioni appropriate alla questione di fondo: che cosa consente di rispondere adeguatamente alla “domanda delle domande”, che sempre rispunta in ogni stagione della storia umana e che anche il neuroscienziato non può non lasciar affiorare quando, nel pieno rispetto dello statuto e dei metodi delle sue scienze e delle sue tecniche, indaga sull’Io (Self)? La risposta si lascia alla fine concentrare nel riconoscimento dell’unità duale (anima/corpo) costitutiva di ogni singolo uomo, in cui si esprime quella tensione tra le componenti dell’umano che domanda stabilizzazione all’interno di un’unità che la precede, senza poterla risolvere. La natura drammatica dell’io spalanca la ragione, quale finestra aperta sul reale, in tutte le sue dimensioni, e quale conoscenza del reale come intelligibile. Anche lo scienziato che fa riferimento alla ragione teorico-scientifica e pratico-tecnica non può che trarre profitto dal riconoscimento di questa antropologia dinamica.

Già a questo livello è possibile riconoscere il carattere irriducibile dell’anima (spirito) umana, di cui la visione cristiana, attraverso il dogma della risurrezione della carne (vita eterna), offre la giustificazione piena della necessità dell’anima, intesa dunque come «la dinamica di una apertura infinita che significa contemporaneamente partecipazione all’infinito e all’eternità. Tale
dinamica non è un succedersi di fatti senza nesso… La dinamica è sostanza e la sostanza è dinamica
» (8). Con queste parole già nel 1972 l’allora Cardinal Ratzinger parlava della necessità di riabilitare i concetti diventati tabù di “immortalità” e di “anima”.

A sua volta, l’eternità non è pura uscita dal tempo dove la storia, osservata dall’altro lato, diventerebbe uno spettacolo vuoto, perché già tutto alla fine sarebbe stato da sempre deciso. Piuttosto, l’eternità è Dio stesso che regge la totalità del mondo presente e che abbraccia ogni volta questa totalità nella sua specificità (dal singolo, alla famiglia umana, al cosmo), in ogni istante cronologico, lasciandola essere, allo stesso tempo, totalmente se stessa (9).

12. Un’irriducibile voglia di vita

Gesù Cristo, morto per noi «mentre eravamo ancora deboli e peccatori» (cfr. Rm 5,6; Seconda Lettura) è diventato il luogo fisico della nostra vita indistruttibile (eterna). Egli spalanca i credenti ad un’indicibile voglia di vita, ma la necessità dell’anima o dello spirito (al di là del termine che potrebbe essere sostituito da un altro meno compromesso, qualora lo si rinvenisse) è una proposta ragionevole a disposizione di tutti, anche di chi dice o pensa di non credere. Se la scienza «è essenzialmente un’incursione impaginatrice in ciò che potrebbe essere vero» (10) allora affermare la necessità dell’anima forse consente di giovarsi meglio delle scienze.. Infatti chi può operare questa incursione se non un uomo, solidale con l’insopprimibile bisogno di conoscenza proprio di tutta la famiglia umana?

«Quis non intelligit non habet perfecta vita» (11) (Tommaso, Summa theol., I, q 18 a 3). La vita cosciente, ultimamente riferita all’anima, è il paradigma per interpretare la vita in generale. Chi nega questo principio finisce per ridurre la vita a puro oggetto e per sminuire l’essere vivente proprio depotenziando il suo carattere di vivente.

Un grande compito educativo si apre davanti a credenti e non credenti: accompagnare uomini e donne alla riscoperta della dimensione spirituale (anima) della umana esistenza. In proposito Venezia, per la religione, la storia, l’arte e la cultura riveste un’indiscussa universale importanza. La Visita Pastorale, soprattutto mettendomi di fronte a uomini e donne che sono nella prova fisica e morale, mi convince della necessità di quest’opera capillare. In un contesto di trasformazione sociale in cui le “due culture” sono finalmente chiamate ad intrecciarsi, tutti gli uomini di scienza debbono farsi carico di questa grande responsabilità pedagogica.

Fa ben sperare il fatto che lungo tutta la storia un innumerevole stuolo di scienziati, proprio in vista del progresso della loro ricerca scientifica, ha confidato nel Dio vivente, in Colui che non cessa di dare vita in modo sovrabbondante semplicemente perché «Dio è amore» (1 Gv 4, 7).

(1) Ez 34,11-16; Sal 22; Rm 5, 5-11; Gv 3, 13-17.
(2) V.S. RACHAMANDRAN, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano 2004, 98.
(3) M. S. GAZZANIGA, La mente etica, Codice edizioni, Torino 2006, XVII.
(4) Ibid., 158.
(5) De anima II, 1, 403b, N. 6.
(6) RACHAMANDRAN, op. cit., 119.
(7) Ibid., 98.
(8) J. RATZINGER, Al di là della morte, in Communio (1972) n. 3, 9-18, ora in ID., Al di là della morte, in Communio, nn. 208-210, 148-161, qui 158.
(9) Ibid., 154.
(10) P. MEDAWAR, citato in RACHAMANDRAN, op. cit., 4.
(11) TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae I, q. 18, a. 3.

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ZENIT Staff

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