Il testo è stato diffuso questo martedì dalla Santa Stampa della Santa Sede.
* * * ARTICOLO DI COMMENTO
ai
Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus
Le diverse questioni alle quali la Congregazione per la Dottrina della Fede intende rispondere vertono sulla visione generale della Chiesa quale emerge dai documenti di carattere dogmatico ed ecumenico del Concilio Vaticano II, il concilio “della Chiesa sulla Chiesa”, che secondo le parole di Paolo VI ha segnato una «nuova epoca per la Chiesa» in quanto ha avuto il merito di aver «meglio tratteggiato e svelato il volto genuino della Sposa di Cristo». Non mancano inoltre richiami ai principali documenti dei Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II e agli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede, tutti ispirati ad una sempre più approfondita visione della Chiesa stessa, spesso finalizzati ad apportare chiarimenti alla notevole produzione teologica postconciliare, non sempre immune da deviazioni e inesattezze.
La stessa finalità è rispecchiata nel presente documento con il quale la Congregazione intende richiamare il significato autentico di alcuni interventi del Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologica non venga intaccata da errori o da ambiguità. A questo riguardo va tenuto presente il genere letterario dei “Responsa ad quaestiones”, che di natura sua non comportano argomentazioni addotte a comprovare la dottrina esposta, ma si limitano a richiami del precedente Magistero e pertanto intendono dire una parola certa e sicura in materia.
Il primo quesito chiede se il Vaticano II abbia mutato la precedente dottrina sulla Chiesa.
L’interrogativo riguarda il significato di quel “nuovo volto” della Chiesa che, secondo le citate parole di Paolo VI, il Vaticano II ha offerto.
La risposta, fondata sull’insegnamento di Giovanni XXIII e di Paolo VI, è molto esplicita: il Vaticano II non ha inteso mutare, e di fatto non ha mutato, la precedente dottrina sulla Chiesa, ma piuttosto l’ha approfondita ed esposta in maniera più organica. In tal senso vengono riprese le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium, nelle quali si afferma che la dottrina tradizionale non è stata affatto mutata, ma «ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione».
Allo stesso modo c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali che hanno ripreso e approfondito la stessa dottrina, costituendone nel contempo uno sviluppo. In questo senso, ad esempio la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Dominus Iesus ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.
Nonostante queste chiare attestazioni, nel periodo postconciliare la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una “svolta copernicana”, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, proponendo una ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del Concilio ha spesso trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è concentrata su singole parole di facile richiamo, favorendo letture unilaterali e parziali della stessa dottrina conciliare.
Per quanto concerne l’ecclesiologia di Lumen gentium, sono restate nella coscienza ecclesiale alcune parole chiave: l’idea di popolo di Dio, la collegialità dei Vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l’apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l’apertura alle altre religioni; infine, la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, subsistit in Ecclesia catholica.
Alcune di queste affermazioni, specialmente quella sullo statuto specifico della Chiesa cattolica con i suoi riflessi in campo ecumenico, costituiscono le principali tematiche affrontate dal documento nei successivi quesiti.
Il secondo quesito chiede come si debba intendere che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica.
Quando G. Philips scrisse che l’espressione “subsistit in” avrebbe fatto «scorrere fiumi d’inchiostro», probabilmente non aveva previsto che la discussione sarebbe continuata così a lungo e con tale intensità da spingere la Congregazione per la Dottrina della Fede a pubblicare il presente documento.
Tanta insistenza, d’altronde fondata sui testi conciliari e del Magistero successivo citati, riflette la preoccupazione di salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbero meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo. Infatti, come si dice nella Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, se così fosse si giungerebbe ad immaginare «la Chiesa di Cristo come la somma – differenziata e in qualche modo unitaria insieme – delle Chiese e Comunità ecclesiali» o a «pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che, perciò, debba essere soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e comunità». L’unica Chiesa di Cristo non esisterebbe più come ‘una’ nella storia o esisterebbe solo in modo ideale ossia in fieri in una futura convergenza o riunificazione delle diverse Chiese sorelle, auspicata e promossa dal dialogo.
Ancora più esplicita è la Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede nei confronti di uno scritto di Leonardo Boff, secondo il quale l’unica Chiesa di Cristo «può pure sussistere in altre Chiese cristiane»; al contrario, – precisa la Notificazione – «il Concilio aveva invece scelto la parola “subsistit” proprio per chiarire che esiste una sola “sussistenza” della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo “elementa Ecclesiae“, che – essendo elementi della stessa Chiesa – tendono e conducono verso la Chiesa cattolica».
Il terzo quesito chiede perché sia stata usata l’espressione “subsistit in” e non il verbo “est”.
É stato precisamente questo cambiamento di terminologia nel descrivere il rapporto tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica che ha dato adito alle più svariate illazioni, soprattutto in campo ecumenico. In realtà i Padri conciliari hanno semplicemente inteso riconoscere la presenza, nelle Comunità cristiane non cattoliche in quanto tali, di elementi ecclesiali propri della Chiesa di Cristo. Ne consegue che l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un “vuoto ecclesiale”. Allo stesso tempo essa significa che, se si considera il contesto in cui è situata l’espressione subsistit in, cioè il riferimento all’unica Chiesa di Cristo «in questo mondo costituita e organizzata come una società… governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui», il passaggio da est a subsistit in non riveste un particolare significato teologico di discontinuità con la dottrina cattolica precedente.
Infatti, poiché la Chiesa così voluta da Cristo di fatto continua ad esistere (subsistit in) nella Chiesa cattolica, la continuità di sussistenza comporta una sostanziale iden
tità di essenza tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica. Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire una sola volta e la concezione secondo cui il “subsistit” sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la parola “subsistit” il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa di Cristo: esiste la Chiesa come unico soggetto nella realtà storica.
Pertanto la sostituzione di “est” con “subsistit in”, contrariamente a tante interpretazioni infondate, non significa che la Chiesa cattolica desista dalla convinzione di essere l’unica vera Chiesa di Cristo, ma semplicemente significa una sua maggiore apertura alla particolare richiesta dell’ecumenismo di riconoscere carattere e dimensione realmente ecclesiali alle Comunità cristiane non in piena comunione con la Chiesa cattolica, a motivo dei “plura elementa sanctificationis et veritatis” presenti in esse. Di conseguenza, benché la Chiesa sia soltanto una e “sussista” in un unico soggetto storico, anche al di fuori di questo soggetto visibile esistono vere realtà ecclesiali.
Il quarto quesito chiede perché il Concilio Vaticano II abbia attribuito il nome di “Chiese” alle Chiese orientali non in piena comunione con la Chiesa cattolica.
Nonostante l’esplicita affermazione che la Chiesa di Cristo “sussiste” nella Chiesa Cattolica, il riconoscimento che, anche al di fuori del suo organismo visibile, si trovano “parecchi elementi di santificazione e di verità”, comporta un carattere ecclesiale, anche se diversificato, delle Chiese o Comunità ecclesiali non cattoliche. Anch’esse infatti «non sono affatto spoglie di significato e di peso» nel senso che «lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumenti di salvezza».
Il testo prende in considerazione anzitutto la realtà delle Chiese orientali non in piena comunione con la Chiesa cattolica e, richiamandosi a vari testi conciliari, riconosce loro il titolo di “Chiese particolari o locali” e le chiama Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche, perché restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia, «per cui in esse la Chiesa di Dio è edificata e cresce». Anzi la Dichiarazione Dominus Iesus le chiama espressamente «vere Chiese particolari».
Pur con questo esplicito riconoscimento del loro “essere Chiesa particolare” e del valore salvifico incluso, il documento non poteva non sottolineare la carenza (defectus), di cui risentono, proprio nel loro essere Chiesa particolare. Infatti, per la loro visione eucaristica della Chiesa, che pone l’accento sulla realtà della Chiesa particolare riunita nel nome di Cristo nella celebrazione dell’Eucaristia e sotto la guida del vescovo, esse considerano le Chiese particolari complete nella loro particolarità. Ne consegue che, stante la fondamentale uguaglianza fra tutte le Chiese particolari e fra tutti i vescovi che le presiedono, esse hanno ciascuna una propria autonomia interna, con evidenti riflessi sulla dottrina del primato, che secondo la fede cattolica è un “principio costitutivo interno” per l’esistenza stessa di una Chiesa particolare. Naturalmente sarà sempre necessario sottolineare che il primato del Successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei Vescovi delle Chiese particolari. Esso deve esercitarsi come servizio all’unità della fede e della comunione, entro i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.
Il quinto quesito chiede perché non venga riconosciuto il titolo di “Chiese” alle Comunità ecclesiali nate dalla Riforma.
Al riguardo si deve dire che «la ferita è ancora molto più profonda nelle comunità ecclesiali che non hanno conservato la successione apostolica e l’eucaristia valida»; pertanto esse «non sono Chiese in senso proprio», ma “Comunità ecclesiali”, come attesta l’insegnamento conciliare e post-conciliare.
Nonostante queste chiare affermazioni abbiano creato disagio nelle Comunità interessate e anche in campo cattolico, non si vede, d’altra parte, come a tali Comunità possa essere attribuito il titolo di “Chiesa”, dal momento che non accettano il concetto teologico di Chiesa in senso cattolico e mancano di elementi considerati essenziali dalla Chiesa cattolica. Occorre, comunque, ricordare che dette Comunità, come tali, per i diversi elementi di santificazione e di verità in esse realmente presenti, hanno indubbiamente un carattere ecclesiale e un conseguente valore salvifico.
Riprendendo sostanzialmente l’insegnamento conciliare e il Magistero post-conciliare, il nuovo documento, promulgato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, costituisce un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa. Oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, esso offre preziose indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica, come ha confermato anche Benedetto XVI già nel suo primo messaggio alla Chiesa (20 aprile 2005) e in tante altre occasioni, specie nel suo viaggio apostolico in Turchia (28 novembre – 1 dicembre 2006). Ma perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica. Solo in tal modo si potrà giungere all’unità di tutti i cristiani in “un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16) e sanare così quella ferita che tuttora impedisce alla Chiesa cattolica la realizzazione piena della sua universalità nella storia.
L’ecumenismo cattolico può presentarsi a prima vista paradossale. Con l’espressione “subsistit in”, il Concilio Vaticano II volle armonizzare due affermazioni dottrinali: da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro lato, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e Comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica. Al riguardo lo stesso Decreto del Concilio Vaticano II sull’ecumenismo Unitatis redintegratio aveva introdotto il termine plenitudo (unitatis/catholicitatis) proprio per aiutare a comprendere meglio questa situazione in certo qual modo paradossale.
Benché la Chiesa cattolica abbia la pienezza dei mezzi di salvezza, «tuttavia le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienezza della cattolicità ad essa propria in quei figli, che le sono bensì uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione». Si tratta dunque della pienezza della Chiesa cattolica, che è già attuale e che deve crescere nei fratelli non in piena comunione con essa, ma anche nei propri figli che sono peccatori «fino a che il popolo di Dio pervenga nella gioia a tutta la pienezza della gloria eterna nelle celeste Gerusalemme». Il progresso nella pienezza è radicato nel dinamismo dell’unione con Cristo: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori da me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani».