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]]>L’ultima in ordine di tempo riguarda la figura di Hermine Speier (1898-1989), l’archeologa ebrea tedesca che in un contesto sociale difficilissimo – che la vedeva emarginata sia in quanto donna che in quanto ebrea – riuscì, nonostante tutto, a mantenere prima la propria indipendenza professionale e poi ad avere salva la vita proprio grazie alla Santa Sede e ai Pontefici che la guidarono in quegli anni.
Una storia incredibile, poco nota ai più, raccontata ora per il grande pubblico dalla giornalista Gudrun Sailer in un volume in uscita per le edizioni Aschendorff di Münster (cfr. G. Sailer, Monsignorina. Die deutsche Jüdin Hermine Speier im Vatikan [Monsignorina. L’ebrea tedesca Hermine Speier in Vaticano], Pp. 384, Euro 19,80).
Nativa di Francoforte e allieva del grande Ludwig Curtius (1874-1954) all’università di Heidelberg, in giovinezza la Speier si avvicina ai circoli letterari del poeta Stefan George (1868-1933) dando prova già a suo tempo di una curiosità e di una vivacità intellettuale assolutamente fuori dal comune.
Più tardi, dopo il conseguimento della laurea in archeologia e i primi lavori a Königsberg, si trasferisce in Italia, dove viene assunta dal Deutsche Archäologische Institut. La presa del potere da parte di Adolf Hitler, però, anche a tanti chilometri di distanza, finirà per sconvolgere i piani della sua vita: già nel 1934, essendo ebrea, perde il lavoro e si trova a dover ricominciare tutto da capo in una terra straniera. D’altra parte in Germania non può tornare, perché in Patria per quelli col suo sangue non c’è più posto.
È allora che accade l’incredibile: grazie all’intermediazione di Curtius – nel frattempo anch’egli trasferitosi a Roma – viene presentata all’allora direttore dei Musei Vaticani, Bartolomeo Nogara e, con l’assenso di Papa Pio XI, trova riparo in Vaticano e assunta al servizio diretto dei musei papali nella fototeca.
Che sia proprio un’ebrea prendersi cura della più grande collezione di tesori artistici della Chiesa sarebbe una notizia che da sola farebbe piazza pulita di parecchi luoghi comuni – dal maschilismo all’antigiudaismo – che pure allora vengono riversati dai mass-media di mezzo mondo sul vertice istituzionale della Chiesa, ma la notizia non trapelerà mai, in primis per tutelare la sicurezza della stessa Speier.
Dopo Pio XI, quando con le leggi razziali del fascismo (1938) la situazione diventerà piuttosto critica anche in Italia, per uno di quei paradossi della storia recente, sarà proprio Pio XII – il Papa a cui solitamente vengono imputati i maggiori silenzi sulla persecuzione ebraica – a confermare intatta la fiducia della Chiesa vero l’operato della Speier, salvandole di fatto la vita, mentre lei fisicamente riparerà presso la comunità di monache benedettine delle catacombe di Priscilla.
Tutto questo, oggi, alla mentalità comune, dice poco ma, come argomenta l’autobiografia della Sailer, assumersi una responsabilità del genere nell’Europa degli anni Trenta non era facile: fino ad allora in Vaticano avevano certamente lavorato diverse donne ma mai una straniera. La Speier fu così la prima donna straniera, oltre che ebrea, a lavorare sotto la cupola di San Pietro grazie all’interessamento e al supporto diretto di due Papi solitamente descritti dai manuali storici come tutt’altro che moderni: Papa Ratti e Papa Pacelli.
L’altro dato poco noto è che – se la vicenda della Speier è esemplare per tutti questi motivi – essa non fu l’unica di quegli anni. Nell’epoca di Pio XI infatti, la resistenza della Santa Sede alle ideologie totalitarie, oltre ai documenti espliciti (come l’enciclica Mit Brennender Sorge) si attuò proprio con una singolare “strategia di impiego professionale” grazie alla quale trovarono salvezza non meno di “due o tre dozzine” di studiosi: accademici, intellettuali e ricercatori di vario tipo accolti in Vaticano con le tipologie di collaborazione più diverse, tra questi diversi “non ariani” come pure “personaggi accusati di comunismo”.
L’espressione tipica utilizzata per giustificare questi rapporti nei documenti ufficiali era: “collaboratore scientifico” (“wissenschaftliche Mitarbeiter”), perlopiù svolgevano la loro attività nella Biblioteca Vaticana e tutti venivano comunque dotati di un documento d’identità vaticano che li avrebbe tutelati nel caso di fermo o arresto delle autorità italiane. Più tardi, negli anni della guerra – stando agli ultimi documenti – gli ebrei salvati solo a Roma dall’azione della Chiesa perché ospitati in conventi, case religiose o parrocchie, arriveranno a oltre 5000 mentre presso il Campo Santo Teutonico, direttamente all’interno del Vaticano, troveranno rifugio un’altra cinquantina di persone comprese diverse famiglie – ebree e non – con i loro bambini.
Tornando alla Speier, la storia ebbe un lieto fine: non solo infatti si salvò, ma dopo undici anni in Italia si convertì al cattolicesimo ricevendo il battesimo, ormai quasi 41enne. Una scelta sincera e tutt’altro che facile da comprendere, soprattutto per la sua famiglia di origine, da cui tuttavia non recedette mai, diventando anzi a sua volta una testimone convinta.
Lavorò ai Musei Vaticani fino al 1967, l’anno in cui raggiunse la pensione, rifiutando deliberatamente – per gratitudine a quella Chiesa che di fatto l’aveva salvata – un’offerta professionale ritagliatale su misura presso l’Istituto Archeologico tedesco, dove avrebbe guadagnato almeno tre volte tanto: “Credo che quando si diventa, in un modo peraltro eccezionale come il mio, una ‘serva Sancti Petri’ [‘una persona al servizio del Papa’, in latino nel testo], non si possa andare via”.
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]]>The post Una petizione per salvare il Collegio Nazareno appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Terminato l’anno scolastico, a meno di improvvisi colpi di scena, le aule del cinquecentesco Palazzo Tonti verranno cedute a una neonata struttura alberghiera per farne un hotel di prima classe.
Avviata mesi orsono nel sostanziale disinteresse della società civile e coperta dal totale silenzio dei mass-media, l’inedita operazione è riuscita finalmente a fare eco dopo che il senatore Luigi Compagna aveva presentato a inizio maggio un’interrogazione parlamentare diretta al Presidente del Consiglio dei ministri nonché ai Ministri dell’Istruzione, dei Beni Culturali e dell’Interno chiedendo “quali garanzie [il Governo] intenda produrre a tutela dei locali plurisecolari e del patrimonio artistico del collegio”.
Lo storico collegio del primo municipio capitolino, a un passo da Piazza di Spagna, vanta in effetti al proprio interno dei tesori di indubbio rilievo e pregio artistico: dagli affreschi cinquecenteschi che ornano l’Aula Magna, alle tele della galleria di Giovanni Bellini (il Giambellino) e di Giovan Battista Galli (il Baciccia), alle statue e ai busti marmorei che ritraggono personalità eminenti dell’antica Roma repubblicana ed imperiale, situati sugli scaloni e nel cortile, al patrimonio librario della biblioteca e al museo mineralogico, i capolavori e gli oggetti degni di tutela e interesse pubblico non mancano.
Tuttavia, a rigor di logica, non sarebbe nemmeno questo il punto più importante, quanto il fatto che la missione della scuola e dell’istituto fondato dal Calasanzio – che volle il Nazareno proprio per quell’area nevralgica del centro-storico – verrebbe improvvisamente meno dopo oltre quattro secoli, in spregio della sua stessa volontà e per motivi meramente commerciali, restringendo così ulteriormente gli spazi della libertà di educazione nel nostro Paese.
Successivamente all’interrogazione, l’incredibile vicenda e la notizia dell’inattesa chiusura sono state prima riprese dall’agenzia ANSA e quindi, in pochi giorni, sono rimbalzate fin sulle pagine dei grandi quotidiani nazionali come Il Corriere della Sera e La Repubblica.
Da ultimo, la scorsa settimana, il neo-costituito “Comitato Collegio Nazareno” e l’associazione degli ex alunni della scuola hanno lanciato una petizione popolare on-line (http://www.change.org/it/petizioni/tutti-collegio-nazareno-la-storia-deve-continuare) chiedendo urgentemente l’intervento delle istituzioni e cercando di mobilitare la cittadinanza: in pochi giorni sono state già superate le mille e duecento firme.
Nel testo presentato, tra le altre richieste, si legge: “Chiediamo a tutti i romani e ai forestieri che amano Roma di firmare per far sì che il Nazareno conservi la funzione di «immobile destinato alla formazione», intesa come «scuola paritaria» e, quindi, riconosciuta dallo Stato italiano. Vogliamo che il Collegio Nazareno resti una scuola e un bene pubblico accessibile a tutti e che vengano adottate tutte le possibili azioni affinché siano rispettate la volonta` fondante del Collegio Nazareno e la storia che l’Istituto rappresenta, quale scuola ‘popolare’ piu` antica d’Europa”. C’è da sperare solo che non sia troppo tardi.
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]]>The post I Maristi denunciano: crimini contro l'umanità ad Aleppo appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>I Maristi denunciano che più volte negli scorsi mesi la popolazione è rimasta priva di energia elettrica, acqua o telefono, alcune volte anche fino a tre settimane. Sugli stessi civili, persino in zone densamente abitate, si sono scagliati poi i cecchini appostati sui palazzi mentre non si contano le bombe buttate dai terroristi all’improvviso tra la folla durante il giorno.
Altri civili sono stati presi in ostaggio e non se ne ha più notizia. Immensi e irreparabili i danni stimati finora all’antichissimo patrimonio archeologico. Richiamando le convenzioni di Ginevra e lo statuto di Roma che istituisce la Corte Penale Internazionale, i religiosi denunciano quindi che siamo davanti a “crimini contro l’umanità”, cioè “atti disumani che provocano intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale” di persone innocenti e indifese.
Nonostante l’assedio recentemente rotto al carcere locale dai soldati governativi, al momento è ancora difficilissimo lasciare o entrare nella città e tutte le comunicazioni sono tagliate. La comunità religiosa chiama in causa le responsabilità dell’ONU e delle grandi potenze che assistono inermi a quanto accade, indifferenti alla sofferenza di un intero popolo.
Il drammatico appello segue di qualche giorno la denuncia dell’arcivescovo armeno-cattolico della città Boutros Mayati che lamentava all’agenzia FIDES un’ulteriore escalation delle violenze in vista delle elezioni presidenziali fissate per il prossimo 3 giugno e quella dell’Osservatorio nazionale per i Diritti Umani in Siria – rilanciata dalla Radio Vaticana la scorsa settimana – secondo cui da gennaio scorso circa 850 siriani (comprese diverse donne e bambini) sarebbero morti nelle prigioni del Paese a causa delle numerose torture subite.
Come noto, la città di Aleppo, definita popolarmente “la capitale del Nord” é la città più popolosa del Paese e – dopo Beirut e Il Cairo – la terza maggiore città cristiana del mondo arabo. Nel 1986 è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
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]]>The post Un paese smarrito e la speranza di un popolo appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Introdotta dal giornalista Antonio Polito – direttore del Corriere del Mezzogiorno – la serata ha visto intervenire quali ospiti d’eccezione il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e il Segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, oltre al presidente dell’Osservatorio, l’Arcivescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi.
A prendere la parola per primo è stato proprio Polito che si è detto “molto colpito dalla qualità intellettuale del testo dell’appello”, definendolo “un fatto importante” nell’attuale panorama del dibattito culturale politico. Secondo l’ex editorialista del Corriere della Sera, l’articolata proposta dell’Osservatorio farà riflettere più di un osservatore e “germinerà qualcosa” a livello pratico. In effetti, l’appello non si presenta come l’ennesimo, generico documento meramente esortativo ai buoni sentimenti ma reca “un analisi molto severa sul ruolo dei cattolici in politica” che, mentre fa il punto della storia del laicato organizzato degli ultimi vent’anni (la Seconda Repubblica), denuncia anche con vigore che in questo arco di tempo si è drammaticamente “frammentata” la “visione unitaria del bene comune” che tiene insieme gli stessi cattolici determinando un’evanescenza culturale che oggi è sotto gli occhi di tutti.
Sulla stessa linea il breve intervento di Giuseppe De Lucia Lumeno, segretario generale dell’Associazione nazionale fra le banche popolari che ha ospitato l’evento, il quale, dopo aver lamentato che, più che il tempo della speranza, sembra di vivere quello de L’urlo di Munch (il celebre dipinto espressionista che simbolicamente segna, almeno a livello figurativo, l’apogeo e insieme la crisi della civiltà moderna) si è augurato che il testo dell’Osservatorio faccia non solo pensare e interrogare i politici ma anche agire.
Da parte sua Carlo Costalli – presidente del Movimento Cristiano Lavoratori (MCL) – annunciando l’adesione dell’associazione alle proposte del testo, ha aggiunto – facendo eco alle parole di Polito – con espresso riferimento ai cristiani impegnati in politica, che “quello che si agita nel mondo cattolico negli ultimi tempi è sempre meno” e che la stessa comunità dei credenti, soggettivamente “fragile”, si trova spesso “sedotta dal pensiero debole” presentandosi come incapace di elaborare pubblicamente una propria visione dell’uomo e della società.
A seguire è intervenuto monsignor Crepaldi che – ricordando la figura del compianto cardinale vietnamita a cui è intitolato l’Osservatorio che nel 2014 compie dieci anni di vita – ha specificato subito che un Vescovo, pur non facendo politica, ha a che fare con l’appello “perché l’orizzonte del documento [oltre al codice di Camaldoli del luglio 1943, da cui prende idealmente spunto] è la Dottrina sociale della Chiesa”.
Prevenendo poi le domande sul perché di questa iniziativa proprio in questa particolare stagione storica, Crepaldi ha spiegato che “è un senso di responsabilità verso il Paese che ha spinto l’Osservatorio a proporsi come una voce di speranza” e d’impulso allo stantio dibattito attuale. Ne deriva che l’appello “ha la pretesa di essere una proposta organica con delle scelte molto chiare” e dunque c’è da aspettarsi che “non andrà bene per tutti”.
Da parte loro, però, i due ospiti d’eccezione presenti, Bonanni e Alfano, hanno raccolto positivamente l’invito al confronto. Per il segretario generale della CISL – che ha ricordato come l’Italia sia l’unico Paese dei grandi dell’OCSE che non cresce ormai da diversi anni – la convergenza è sul fatto che la crisi “è anche morale e spirituale” e quindi vada ben oltre la mera dimensione politica o, peggio ancora, tecnocratica.
Oggi “mancano energie nel Paese” e queste si possono ritrovare solo a partire da processi ed esperienze che nascono prima e comunque fuori del confronto elettorale. In merito alla discussione sempre ricorrente sul partito unico dei cattolici, Bonanni si è detto poi scettico sulle sue reali possibilità di aggregazione (d’altronde il tono complessivo dell’appello è su ben altre prospettive) ribadendo che la soluzione sta invece in una maggiore e più convinta “testimonianza personale controcorrente da parte dei cattolici” giacché vi è un “populismo che ha invaso ogni campo della vita civile” che, se dovesse aumentare ulteriormente i suoi consensi, come sembra, vi è il rischio concreto di un’ulteriore drammatizzazione dello scenario politico e sociale. Insomma, se “il luogocomunismo oggi spopola” per sconfiggerlo serve una rinnovata testimonianza di coerenza di fede come di vita: “il protagonismo civile rinasce [solo] attraverso l’impegno di ciascuno”.
Di differente tenore l’intervento di Alfano che, definendo la ricostruzione della recente vicenda storica dei cattolici italiani nell’appello “molto veritiera”, ha invece sottolineato la centralità del valore della persona umana che emerge dalle proposte dell’Osservatorio, cosa che – insieme al richiamo alla politica, e non all’anti-politica oggi in voga – contribuisce a fare dell’appello un testo davvero “coraggioso”. Riprendendo poi in parte lo spunto di Bonanni sul populismo, il Ministro dell’Interno ha spiegato che oggi, a suo avviso, il vero bipolarismo italiano è nelle piazze e sui social network tra il “partito della rabbia” – che spinge per il ‘tanto peggio tanto meglio’ a livello sociale e istituzionale, costi quello che costi – e “il partito della speranza” che crede invece che l’Italia, come tante altre volte nei momenti di crisi, possa riuscire a farcela ancora facendo leva sulle sue riserve migliori.
È l’Italia dei volontari della Caritas e dell’associazionismo cattolico che viene in soccorso di tanti sfortunati, dei ragazzi che studiano e lavorano sodo per costruirsi un futuro, delle famiglie che reggono nonostante tutto come rete di mutua solidarietà e accoglienza. Se questa è l’Italia reale e dunque rappresentativa dell’importanza delle sfide sulla vita, la famiglia, la tenuta dei corpi intermedi e la pratica della sussidiarietà, “non serve un partito dei cattolici” ma dei partiti – chiunque siano – che difendano operativamente questi valori fondamentali. In conclusione del suo intervento Alfano – guardando alle prossime elezioni per l’Europarlamento – ha poi aggiunto che se è indubbio che l’Europa è in crisi e che né la moneta né il mercato unico sono riusciti veramente a unire i popoli, tuttavia va anche ricordato che – per la prima volta nella storia da quando c’è l’Unione Europea, prima ancora la CEE – il continente non ha conosciuto più né guerre né conflitti bellici.
Commentando a sua volta gli interventi di Alfano e Bonanni, Crepaldi ha aggiunto infine che “l’obiettivo dell’appello non è fare un partito, ma superare la frammentazione interna per cui oggi i cattolici sono incapaci di fare una proposta organica e responsabile” come cittadini e come cattolici insieme. Si spera ora che nei prossimi mesi le numerose proposte dell’appello – variegate e molto concrete, dal riconoscimento effettivo della piena libertà di educazione prevista dalla Costituzione e mai attuata alla privatizzazione della RAI – vista la posta in gioco e l’entità della crisi in corso, dentro e fuori il mondo cattolico, vedano un dibattito il più ampio e trasversale possibile.
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]]>È questo il messaggio che arriva dalla tavola rotonda Le attuali sfide per lo sviluppo in Mozambico e il caso del Distretto di Cahora Bassa, organizzata presso il Vicariato di Roma dall’associazione O Viveiro, onlus fondata nel 2006 con lo scopo di promuovere la formazione umana, morale e sociale dei bambini che vivono in aree particolarmente disagiate e senza possibilità alcuna di avere un futuro dignitoso. Come il caso della sfortunata area sud-orientale del Mozambico, appunto, uno dei Paesi più poveri del mondo, stretta in una morsa mortale tra un’estrema povertà materiale e l’analfabetismo di massa.
Presentata dalla giornalista RAI Enza Emira Festa, la serata ha visto l’intervento di mons. Matteo Zuppi, Vescovo ausiliare di Roma, delle professoresse Simona Beretta, docente di Economia internazionale presso la Cattolica di Milano, e Gabriella Cotta, docente di filosofia politica presso La Sapienza di Roma, e di Flaminia Giovanelli, Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, nonché presidente di O Viveiro.
Ad aprire i lavori é stato il vescovo Zuppi, il quale ha ricordato la sua esperienza pluridecennale con la realtà sociale mozambicana nell’ambito di progetti di cooperazione per le popolazioni di paesi in via di sviluppo, promossi dalla Comunità di Sant’Egidio. Un impegno dispendioso e tutt’altro che semplice, in un periodo in cui la giovane Repubblica africana aveva da poco guadagnato l’indipendenza dal Portogallo (1975) e si misurava quotidianamente con un sanguinoso conflitto civile, durato poi 17 anni, che vedeva contrapporsi il Fronte di Liberazione Nazionale armato (FRELIMO, poi organizzatosi in partito politico) e la resistenza del RENAMO.
Dopo una serie di negoziati, la svolta inattesa si ottenne il 4 ottobre 1992 quando a Roma verranno firmati gli Accordi di pace. Il presule ha ricordato come da allora molto sia cambiato e il Paese, pur con fatica, sia riuscito ad ottenere una certa stabilità interna senza subire “violenze o regolamenti di conti”. Se questo è potuto accadere, però, è soprattutto grazie all’amnistia che fu promulgata all’indomani degli Accordi di pace, che “ha curato la memoria del Paese da ambo le parti”. Oggi, poi, “la società civile si sta sviluppando, c’è una presenza di tv e radio private”, una stampa libera, ha osservato Zuppi, e all’orizzonte pare scorgersi anche un terzo partito che potrebbe contribuire significativamente a una maturazione del sistema democratico.
A seguire, la professoressa Beretta che, soffermandosi sulla particolare attenzione che O Viveiro dedica al dramma delle bambine abbandonate, ha approfondito la bellezza di quel “genio femminile” naturale che rende la donna istintivamente più capace di accogliere, custodire e generare. Tre verbi non scelti per nulla a caso. Si tratta infatti di azioni tipiche dell’identità femminile in quanto tale, che non valgono solamente in riferimento alla maternità biologica, ma anche per creare le condizioni del ‘buon sviluppo’, cristianamente inteso.
Lo sviluppo sociale integrale in sé, infatti, non è tanto un obiettivo astratto scritto da esperti sulla carta ma “un percorso umano” lungo ed elaborato, dalle mille variabili, che evidenzia la necessità di “prendersi cura dell’altro” e di “coltivare relazioni interpersonali”, perché una comunità – ovunque sia, in qualsiasi tempo – vive ‘fisiologicamente’ di relazioni reciproche. D’altra parte, ha concluso Beretta, il valore aggiunto dell’associazione O Viveiro è proprio di non limitarsi a far fronte alle esigenze dell’immediato hic et nunc ma lavora pazientemente a lungo termine sull’educazione umana, morale e spirituale, che, non facilmente contabilizzabile dai bilanci semestrali, incide profondamente sul tessuto sociale.
La serata è poi proseguita con il video dell’intervista raccolta da Emanuela Bonavolta – responsabile di progetto di O Viveiro – a padre Costantino Bogaio, guida della vivace parrocchia (accoglie 500 persone ogni domenica) “Giovanni XXIII” a Chitima, nella provincia di Tete. Si è così avuto modo di vedere ‘sul campo’ ciò che le donazioni dei benefattori rendono possibile: dall’accoglienza di ragazze che altrimenti finirebbero sulla strada o vittime dell’agghiacciante prassi dei matrimoni-bambini, alla formazione umana a 360° che va dal Catechismo, allo studio, allo sport.
Ma molto resta ancora da fare: padre Costantino ha mostrato ad esempio la struttura fatiscente della storica missione locale dei Comboniani che andrebbe completamente restaurata e messa in sicurezza perché i suoi grandi spazi sono del tutto inagibili al momento. Per garantire una società sana anche per il domani è infatti importante ancorare saldamente i giovani sul posto, ricordando loro l’importanza delle proprie radici e dell’amore per la propria terra. Qualcosa che però senza un lavoro dignitoso e socialmente rispettato sarà difficile da raggiungere.
Lo ha messo in luce anche Giovanelli che ha ricordato come “evangelizzazione e promozione umana” siano intrinsecamente legati l’una all’altra se realmente si crede che la fede abbia qualcosa da dire anche per la costruzione concreta della società. E in questi anni, da quando la onlus è nata, in termini di opere è stato fatto veramente tanto: sono stati scavati quattro pozzi per l’acqua, con i terreni acquistati si sono prodotti e commercializzati vari ortaggi con cui la comunità locale si alimenta e si sostiene economicamente, facendo anche dei contratti appositi con i negozianti dell’area e imparando quindi direttamente a ‘fare impresa’.
La serata si è conclusa poi con l’intervento della professoressa Cotta che ha sottolineato quanto l’evangelizzazione cristiana costituisca storicamente “un fattore di progresso sociale”, particolarmente nelle società dove il paganesimo e i riti magici esercitano ancora una grande influenza sui costumi della popolazione determinandone convinzioni assurde, fatalistiche o semplicemente immobilistiche. La Dottrina sociale della Chiesa, se presa sul serio, quando cioè il Vangelo riesce a diventare cultura, mentalità, modo di pensare e di vivere di una comunità, contribuisce veramente alla liberazione completa dell’uomo: dall’ignoranza materiale come dai tanti tipi, moderni e antichi, di povertà.
*
Alla pagina internet del sito dell’associazione www.oviveiro.org è possibile trovare altri approfondimenti sulle altre iniziative in corso e come partecipare concretamente, anche dall’Italia, a quest’opera di promozione umana (info@oviveiro.org).
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]]>Scuola ‘popolare’ originariamente gratuita, e quindi pubblica, proprio perché pro populo, pensata cioè appositamente per i più poveri e sfortunati (che allora pure erano tanti) della Città Eterna. Così l’aveva ideata e voluta uno dei più grandi Santi fondatori della storia della Chiesa: lo spagnolo Giuseppe Calasanzio (1557-1648), istitutore dell’ordine degli scolopi, come abitualmente vengono chiamati i religiosi appartenenti ai Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie, per l’appunto le prime scuole d’ispirazione cristiana rivolte esplicitamente ai poveri, nell’anima e nel corpo. Scuole di formazione umana, oltre che d’istruzione materiale, ad ampio respiro, rivolte a tutti, e al contempo con un’offerta didattica ricca e ‘di alta qualità’, come la definiremmo oggi.
Il Collegio Nazareno fu la prima scuola del suo genere e il Santo stesso ne fu il primo rettore. Tante altre poi ne seguirono. Senza quell’intuizione, che poi è alla base della pedagogia moderna e del senso stesso dell’autentica istruzione pubblica (che precede e fonda lo Stato in quanto tale), probabilmente l’intera storia dell’educazione nel nostro Paese sarebbe molto diversa.
Basti dire che il Calasanzio attinse direttamente all’esperienza del quasi contemporaneo San Filippo Neri (1515-1595) e farà da modello per l’elaborazione del celebre ‘metodo preventivo’ di San Giovanni Bosco (1815-1888) che visiterà personalmente la rinomata scuola romana tra il 1865 e il 1866.
Pio IX seguirà una manciata di anni dopo, per dare un’idea del livello dell’opera e dell’istituzione. Un’esperienza talmente inaudita da entrare persino nell’immortale, e tuttora ineguagliata, Storia dei Papi di Ludwig von Pastor (1854-1928).
Superando le persecuzioni di tutte le epoche (dalle requisizioni napoleoniche a quelle dello Stato unitario all’indomani della presa manu militari di Roma), la scuola ha accolto nei secoli scrittori e studiosi, artisti e intellettuali, ospitando al suo interno anche un prezioso museo mineralogico e una biblioteca con un patrimonio storico di tutto rispetto.
Ora tutto questo potrebbe finire per sempre perché il cinquecentesco Palazzo Tonti (con le sue gallerie pregiate e i suoi soffitti affrescati), sommerso dai debiti e da discutibili operazioni finanziarie della Fondazione omonima che amministra i locali della scuola, potrebbe essere trasformato in un albergo di extra-lusso, l’ennesimo nel centro storico della capitale, o in una struttura di ospitalità per stranieri a pagamento, cambiando, in ogni caso, proprietà, destinazione d’uso e terminando così dopo quasi quattro secoli la sua storica ed esemplare missione.
Già adesso la splendida terrazza con veduta panoramica sull’urbe è in gestione a un grande partito politico ma i progetti ventilati dagli imprenditori che sono all’orizzonte, costruttori e compratori senza scrupoli di interi immobili nell’area nevralgica della Capitale, fanno temere per il peggio. Il tutto accade, e si trascina stancamente da mesi, nell’indifferenza e nel disinteresse più completo tanto degli osservatori diretti e dei grandi mezzi di comunicazione, quanto delle parti in causa.
Una vicenda triste e obiettivamente clamorosa nella sua portata che, se – come al momento purtroppo pare – dovesse finire davvero in questo modo, distruggerebbe non solo ciò che rimane della memoria di un Santo che ha fatto tanto per Roma, ma anche un’istituzione educativa tra le più antiche d’Europa, oltre che pionieristica nel suo genere in Italia.
Dovrebbero essere quindi anzitutto i romani, la società civile e la comunità cristiana capitolina e quanti hanno a cuore la custodia, oltre che la memoria, delle proprie radici culturali e spirituali ad alzare la voce verso questo epilogo inglorioso e repentino perché non si tratta, evidentemente, di una mera questione di natura amministrativa interna alle scelte dirigenziali di un semplice ordine religioso fra i tanti ma di un patrimonio pubblico plurisecolare, artistico e spirituale, che dovrebbe interessare ed essere condiviso da tutti e per cui non ci sono – o, in linea teorica, almeno non ci dovrebbero essere – giustificazioni di tipo economico o commerciale.
Da ultimo, se lo storico portone del Nazareno chiuderà davvero per sempre, vorrà dire che saremo di fronte a una sconfitta enorme anche per la tenuta della libertà di educazione in questo Paese, proprio nel momento in cui l’emergenza della questione educativa appare invece in tutte le sue conseguenze più drammatiche a livello sociale e politico.
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